La prima delle “Bombe di Savona”
Tra l'aprile del 1974 e il maggio del 1975 nella città ligure ne furono fatte esplodere 12: gli attentati vennero rivendicati da organizzazioni neofasciste, ma i responsabili non furono mai individuati
La sera del 30 aprile del 1974, cinquant’anni fa, una bomba al plastico esplose nel centro di Savona, in Liguria, a poche decine di metri di distanza da un cinema che stava proiettando il film di Carlo Lizzani Mussolini: Ultimo atto. La bomba era posizionata in via Paleocapa 11, all’ingresso di un palazzo non lontano dal cinema, in cui abitava il senatore della Democrazia Cristiana Franco Varaldo.
Quello del 30 aprile fu il primo di una serie di 12 attentati dinamitardi organizzati a Savona tra l’aprile del 1974 e il maggio dell’anno successivo. Dato che furono tutti compiuti in una zona geografica piuttosto circoscritta, Savona e comuni limitrofi, i giornali dell’epoca definirono questi attentati “Bombe di Savona”: provocarono la morte di una donna, Fanny Dallari, e decine di feriti.
La prima bomba fu fatta esplodere poco meno di un mese prima della strage di piazza della Loggia del 28 maggio del 1974, in cui furono uccise otto persone. Il 3 maggio la redazione del Secolo XIX ricevette una lettera in cui Ordine Nero, l’organizzazione neofascista nata nel novembre del 1973 dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo, rivendicava l’attentato.
Anche per via della rivendicazione da parte di Ordine Nero, diverse inchieste ipotizzarono che gli attentati fossero stati pianificati da organizzazioni neofasciste nell’ambito di quella che venne chiamata “strategia della tensione”, che puntava a diffondere paura e incertezza nella società per favorire una svolta autoritaria nel paese ed evitare invece il radicarsi di tendenze progressiste.
L’ipotesi di un collegamento tra i gruppi neofascisti e gli attentati fu rafforzata anche dal fatto che la prima bomba esplose durante la proiezione di un film particolarmente critico nei confronti del Ventennio e di Mussolini.
La seconda bomba esplose il 9 agosto nella centrale Enel di un paese della provincia, Vado Ligure, ma gli attentati si intensificarono in particolare tra il 9 e il 23 novembre, quando furono fatte esplodere sette bombe in diversi punti di Savona, tra cui il palazzo della Provincia, la scuola media inferiore “G. Guidobono”, una casa in via dello Sperone 1, un tratto della linea ferroviaria Torino-Savona, un tratto dell’autostrada che collega le due città e la stazione dei carabinieri di Varazze. Nel pomeriggio del 20 novembre Fanny Dallari, una maestra in pensione, morì a causa dell’esplosione di una bomba posizionata al primo piano del palazzo in cui abitava, in via Giacchero.
Dopo quello che i giornali locali definirono «novembre di sangue», per più di tre mesi non ci furono nuovi attentati e la polizia cominciò ad allentare i pattugliamenti. Un’altra bomba, la decima, fu fatta esplodere il 24 febbraio del 1975. Seguirono le ultime due il 25 e il 26.
Durante le indagini gli investigatori seguirono diverse ipotesi. Una di queste ricollegava gli attentati all’azione di alcuni gruppi locali: si cominciò a parlarne soprattutto dopo il penultimo attentato, quello del 25 febbraio, quando fu fatta esplodere una bomba vicino a un traliccio dell’Enel in località Madonna degli Angeli.
Come ha ricordato Giacomo Fasola sul Corriere della Sera, sul luogo dell’esplosione tre persone videro una Fiat 126 verde con a bordo tre ragazzi, uno dei quali indossava degli occhiali Ray-Ban. La polizia scoprì che la macchina era di proprietà di un abitante di Quiliano, Franco Pellero, e che suo nipote Attilio, uno studente di giurisprudenza, ne aveva un paio uguale.
Pellero fu scagionato dopo vari interrogatori, ma già nei mesi precedenti gli investigatori avevano iniziato a fare altre ipotesi, come quella che ricollegava gli attentati all’ex comandante della X Flottiglia Mas Junio Valerio Borghese, che quattro anni prima aveva organizzato un colpo di stato per mettere al bando il Partito Comunista e instaurare un nuovo regime di destra, scongiurato grazie al ritiro di tutte le persone coinvolte.
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Lo scrittore savonese Massimo Macciò, che ha dedicato diversi libri alla storia delle “Bombe di Savona”, ha detto al Corriere della Sera che «la vicenda delle bombe è vittima di un teorema secondo cui Savona fu scelta dagli ambienti fascisti come test, in vista di un obiettivo più grande». Un’altra teoria, che Macciò ha esposto sempre in un libro, è che le organizzazioni neofasciste pianificarono gli attentati per costringere l’allora ministro dell’Interno, il genovese Paolo Emilio Taviani, a nominare un uomo della loro area come capo di Gladio, un’organizzazione paramilitare che faceva parte di una rete internazionale chiamata “Stay Behind”: era una struttura che doveva essere pronta a intervenire nel caso di un’ipotetica invasione dell’Europa occidentale da parte del blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica.
Taviani aveva un ruolo importante in Gladio e, secondo Macciò, i movimenti neofascisti decisero di organizzare gli attentati a Savona per esercitare pressioni: la città faceva infatti parte dello stesso collegio in cui era stato eletto.
Altri, come ha ricordato sempre Fasano, ricollegarono gli attentati ai gruppi neofascisti spagnoli, in particolare per via di un’intervista del terrorista portoghese Carlos Alberto Diaz De Carvalho, che disse all’Espresso di aver ricevuto, poco prima delle bombe di novembre, un messaggio da un gruppo di neofascisti spagnoli: «Se passi dall’Italia, non fermarti a Savona».
Si tratta in tutti i casi di ipotesi mai confermate, dato che alla fine i responsabili degli attentati non furono mai individuati: non fu svolto alcun processo, anche per via dei molti ritardi nelle indagini.