Vivere, dormire e morire a Odessa
«Questi e quelli... Le opinioni su tutto differiscono. C’è chi sostiene Zelensky. Altri lo incolpano. Alcuni resistono ancora, come navi a galla, ma la maggior parte della popolazione si è rapidamente impoverita. La fatica per qualcuno si trasforma in depressione. Altri provano a scherzare e a continuare la loro normale routine. Tutte queste e quelle persone sono migliaia e migliaia di volti, voci, nomi. L’orrore della guerra è nel trasformare rapidamente le persone viventi in statistiche. Numeri senza nome, morti, rifugiati, orfani, disabili, vedove. Un uomo anziano era seduto alla fermata del filobus vicino a casa mia»
Sono stata più fortunata di molti ucraini: durante i due anni di guerra nessuno dei miei cari è morto sotto il fuoco, nessuno è stato catturato e la mia casa non è stata distrutta. E vivo a Odessa, una bellissima città sul mare, non in prima linea e, fortunatamente, non sotto occupazione. Il fatto che le minacce di attacchi di droni e di lanci o di razzi siano diventate continue non cambia il fatto che siamo dietro le linee. Mentre nelle retrovie.
La mattina vado al parco con la mia cagnolina, sempre allo stesso chiosco del caffè. Non è migliore degli altri, tranne per una cosa: hanno il proprio generatore. Questo è importante, di sera illumina uno spazio pieno che si riempie di gente: di bambini, di cani, e intorno c’è una fitta oscurità. Mentre vanno al lavoro, queste stesse persone si fermano a bere un espresso e a scambiarsi notizie. Sui loro volti c’è l’impronta grigia dell’insonnia. «Nessun dorma!» È l’imperativo che si diffonde in cuffia ogni notte con la sirena d’allarme, e ogni notte mi sembra che il principe tartaro Calaf, che la canta, si rivolga a me:
«Tu pure, o Principessa nella tua fredda stanza…»
La stanza è davvero ghiacciata; dopo gli attacchi russi alla centrale, il blackout continua.
Oggi la piazzetta è piena di bambini, sono stati portati fuori dall’asilo – degli sconosciuti hanno avvertito che dentro era stata piazzata una mina. Suona un altro allarme. Minaccia missilistica. Gli insegnanti corrono qua e là. Dove portare i bambini? Il rifugio è chiuso. E la morte vola dall’alto.
Non puoi abituarti a quello che vedi: il modo in cui i più piccoli hanno fretta, inciampano, come mostrano di avere paura di dimenticare qualcuno nel tumulto ansioso della tata, che li porta via. È un bene che ci sia un edificio per uffici nelle vicinanze, i bambini si nascondono nel parcheggio.
A parte questo, dicevo, la nostra vita a Odessa è quasi normale. Manca solo una cosa: i piani. Viviamo un giorno alla volta, agendo in base alla situazione, senza futuro.
Come viviamo?
Molto diversamente. La vita è divisa in questi e quelli.
Quelli sono partiti per l’evacuazione, questi sono rimasti. È difficile fare entrambe le cose. Un numero enorme di uomini è andato al fronte, molti sono morti e molti sono tornati mutilati e invalidi. Alcuni hanno avuto la fortuna di entrare nei programmi di assistenza, altri no.
Una oculista che conosco ha lavorato per molti anni in un negozio di ottica. Suo figlio è stato ferito, danneggiato al cervello, ha attraversato diversi ospedali finché i medici non hanno alzato le mani: non c’era più niente da fare.
Per lui non esiste il giorno e la notte. Da un anno e mezzo va all’attacco: cerca di alzarsi e cade dal letto, non riconosce nessuno, urla… Sua madre ha perso il lavoro molto tempo fa. A volte lavora come infermiera notturna se qualcuno accetta di restare con il figlio. Il reddito familiare è costituito solo dalla sua indennità. Non è insolito.
C’è un’altra faccia della medaglia: coloro che sfuggono al reclutamento. Bisogna ammettere che non tutti sono in grado di impugnare un’arma, ma la vita per chi si nasconde da due anni non è invidiabile. La paura di cadere nelle mani dei militari, la paura di uscire di casa: è una situazione umiliante. Fa impazzire un sacco di gente. Non giudico nessuno. Gli stessi militari raccontano che chi viene sorpreso per strada farebbe meglio a restare a casa. In prima linea il panico significa morte; chi diserta perché incapace di combattere distruggerà anche i suoi compagni.
Ma c’è una catastrofica carenza di soldati.
La dannata guerra non offre soluzioni facili. Ogni scelta è vita o morte. E spesso la guerra non lascia alcuna scelta.
Questi e quelli… Le opinioni su tutto differiscono. C’è chi sostiene Zelensky. Altri lo incolpano. Alcuni resistono ancora, come navi a galla, ma la maggior parte della popolazione si è rapidamente impoverita. La fatica per qualcuno si trasforma in depressione. Altri provano a scherzare e a continuare la loro normale routine. Tutte queste, quelle, tali e altre persone sono migliaia e migliaia di volti, voci, nomi. L’orrore della guerra è nel trasformare rapidamente le persone viventi in statistiche. Numeri senza nome, morti, rifugiati, orfani, disabili, vedove.
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Un uomo anziano era seduto alla fermata del filobus vicino a casa mia. Lo notavo di mattina, di giorno mi accorgevo che non si era mosso, era ancora lì, e la sera, passando, gli chiedevo se aveva bisogno di aiuto. Ho tirato fuori i soldi dalla tasca: li ha accettati, mi ha ringraziato con dignità e ha detto che non aveva bisogno di nient’altro. Il volto e la parlata corretta, una vecchia giacca, le mani sottili di una persona colta. La mattina dopo ho visto che dormiva sulla stessa panchina e ho chiesto alla donna del chiosco che cosa sapesse di lui.
«È di Kherson, senza documenti, con problemi di memoria. La casa è saltata in aria, probabilmente danneggiata dall’impatto. Ricorda il suo nome, ma confonde il cognome. Si è rivolto ai centri assistenza, ma senza dati precisi non potevano aiutarlo. Non poteva vivere nel centro profughi, aveva paura che lo avrebbero picchiato, deve aver visto di tutto».
Gli ho proposto di venire a casa mia, per lavarsi e riposare. La sua età, penso, è come quella del mio defunto padre: «Come può stare seduto su una panchina per giorni?». Sembrava d’accordo, è venuto con me. Ma lui, una volta entrato nel cortile, si è rifiutato risolutamente di proseguire, borbottando: «No, più tardi diranno che ho rubato qualcosa…». Non è stato possibile convincerlo. Ho provato a portarlo in ospedale, ma senza documenti, mi hanno detto, solo se si ammala per strada. Poi potrà arrivare l’ambulanza.
Quando quasi disperavo, ha tirato fuori dalla tasca un biglietto con il numero di telefono di sua sorella. Al telefono non rispondeva.
Ma Odessa non sarebbe Odessa se non fosse fatta di persone premurose. I dipendenti del centro di assistenza per i rifugiati hanno contattato Kherson e hanno trovato grazie a questo numero di telefono il nome della sorella, il nome di lui, l’indirizzo e un certificato di pensione. E, per fortuna, un nipote in servizio nelle forze armate ucraine.
Uno degli episodi per me più difficili del film 20 giorni a Mariupol, il documentario che ha vinto l’Oscar, è quello in cui il padre bacia la testa del figlio già morto. L’adolescente è stato colpito da una scheggia mentre con un amico stava giocando a calcio. «Figlio, figlio, figlio, figlio mio», e lo dice per molto, molto tempo, per un’eternità.
In seguito mi è venuta in mente l’immagine di Enea che fugge con il padre e il figlio. Le sue mani – con la destra conduce il figlio Ascanio, con la sinistra sostiene sulle spalle il padre Anchise – avevano per gli antichi romani un valore paragonabile alle mani tese di Cristo per i cristiani. Adesso penso di aver capito…
È necessario mantenere l’efficacia del combattimento, la resilienza e il coraggio in guerra.
Ma non meno importante è l’umanità. E questa scelta è personale.