L’antisemitismo a sinistra

«Mettiamo fra parentesi gli orrori della cronaca così come le furiose astrazioni o le pieghe narcisistiche che affliggono il dibattito. Limitiamoci a questo: se esiste anche solo un’ombra di antisemitismo in certi settori della sinistra, soprattutto radicale — e se alla luce del massacro di Israele a Gaza ciò appare rinfocolato — bene, molto semplicemente: com’è possibile?»

(Chris McGrath/Getty Images)
(Chris McGrath/Getty Images)
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Criticando alcuni cortei femministi dell’8 marzo per non avere dato pari dignità di lutto al massacro del 7 ottobre 2023, Luigi Manconi ha suggerito di non ignorare, fra l’altro, «la persistenza largamente inconscia di tracce di una antica e tenacissima giudeofobia, che tende a riprodurre diffidenza e sospetto». Il problema non è nuovo ma se ne discute molto di recente, per ovvie ragioni; ed essendo particolarmente imbarazzante rischia subito di provocare malumori o accuse reciproche.

Meglio dunque essere chiari: non intendo puntare il dito o sciorinare dati che non abbiamo sulla reale incidenza dell’antisemitismo a sinistra: vorrei invece proporre una seduta di autoanalisi — un doloroso tentativo di rintracciarne le cause.

Per cominciare mettiamo fra parentesi gli orrori della cronaca così come le furiose astrazioni o le pieghe narcisistiche che affliggono il dibattito. Limitiamoci a questo: se esiste anche solo un’ombra di antisemitismo in certi settori della sinistra, soprattutto radicale — e se alla luce del massacro di Israele a Gaza ciò appare rinfocolato — bene, molto semplicemente: com’è possibile?

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Parliamo di un fronte politico con sensibilità diverse attorno a molti problemi, ma sui valori di base non dovrebbero esserci dubbi; e la lotta all’antisemitismo è senz’altro fra questi. C’è il timore di sostenere anche solo in parte l’operato indifendibile di Netanyahu? Non penso: si può essere completamente critici di fronte alle politiche israeliane senza per questo scivolare, come vorrebbero alcune accuse infamanti e strumentali, nell’antiebraismo (lo chiariva Giulia Siviero anni fa; più di recente va meditato quanto accaduto a Zerocalcare).

C’è un’ipotesi diversa e più convincente, benché produca ancora una certa dissonanza cognitiva: lo si evince fin dal sottotitolo del saggio di Michel Dreyfus L’antisemitismo a sinistra in Francia. Ma è anche tale sensazione di paradosso, tale incredulità, ad avere difeso il pregiudizio dall’autocritica.

Dreyfus identifica vari tipi di giudeofobia di sinistra, chiarendo la natura multiforme del fenomeno e costruendone una genealogia molto accurata: per il nostro discorso è particolarmente rilevante lo stereotipo dell’ebreo capitalista e sfruttatore, un cliché tanto indegno quanto difficile da cancellare. La storia francese è diversa da quella italiana, certo, ma come osserva Maria Grazia Meriggi nella sua recensione per il manifesto, «questo libro rimanda alle radici dei problemi ed è scritto dal punto di vista di una cultura di sinistra che intende, prima di tutto, capire le ragioni della caduta nel pregiudizio per sconfiggerlo»: un tema che tocca la Francia quanto il resto del mondo.

Riguardo al nostro Paese in particolare si può leggere un saggio di Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei, affiancato dall’incisivo pamphlet di Gadi Luzzatto Voghera, Antisemitismo a sinistra; ma c’è un testo in particolare su cui vorrei soffermarmi. Si tratta di un pezzo autobiografico del 1978 — ripubblicato dalle Edizioni dell’asino — dove Cesare Cases ricorda l’esperienza della sua famiglia sotto le leggi razziali. A un certo punto scrive:

Le sorelle Luzzatto erano di famiglia molto ricca, ma così grasse e buone che ciò incrinava la loro ricchezza, e i nazisti che le massacrarono erano sì probabilmente dei contadini bavaresi o slesiani che gioivano di poter ammazzare impunemente dei ricchi, ma anche dei servi meccanici del potere che volevano cancellare dalla faccia della terra la presenza di tanta pingue bontà. I ricchi con la grinta si sono sempre salvati quasi tutti.

Le sorelle Luzzatto, lo sappiamo già da qualche pagina, erano state «bruciate dai tedeschi in una caldaia sul Lago Maggiore». L’ordine sintattico è molto interessante: un abominio del genere viene illustrato prima con la psicologia della rivalsa sociale, e poi («ma anche») con la meccanica servitù del potere.

Mi pare che qui il marxista Cases prenda il sopravvento sull’ebreo Cases o sul germanista Cases: e proprio perché tutti e tre sono così intelligenti — e proprio perché il secondo visse in prima persona l’abiezione dell’antisemitismo fascista — ecco: proprio per questo tali frasi appaiono cruciali.

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L’identità prima della sinistra è la lotta contro l’ingiustizia sociale, e tale impegno dipende sia da fattori razionali sia da un’istintiva ripugnanza verso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: e in mezzo a tali passioni molto può scivolare fuori dalla rete etica, purtroppo. Luzzatto Voghera nel già citato Antisemitismo a sinistra dice che «anche in tempi recentissimi a sinistra si è continuato a praticare una sostanziale negazione della complessa e articolata identità ebraica preferendo a essa la più semplice e funzionale elaborazione di una figura retorica dell’ebreo che nulla ha a che fare con la realtà».

Cases stesso si dice esposto alla «vecchia tentazione dell’antisemitismo ebraico», e non credo sia un saggio della sua nota ironia: come quando afferma incautamente che «essere ebrei significava semplicemente un modo di essere borghesi», mi sembra invece che mostri tutto il suo borghesissimo senso di colpa per essere tale.

Traspare insomma anche qui la vecchia falsificazione per cui la maggioranza degli ebrei fosse o sia in fondo privilegiata, e che ciò possa aiutarci a capire l’accanimento antisemita: in realtà non è affatto così. Scontiamo ancora le colpe di certa storiografia sottilmente antiebraica, che «ha spesso rappresentato gli ebrei come soggetto collettivo vago e dalla volontà non facilmente distinguibile, vista la sua favolosa ricchezza e la sua abilità non meno prodigiosa di avere a che fare con i numeri e il denaro e di far nascere il capitalismo finanziario e industriale». Basterebbe leggere un po’ di narrativa yiddish, Joseph Roth o Bernard Malamud per accorgersi del contrario: la composizione sociale estremamente variegata degli ebrei lo rende in tal senso un popolo come gli altri.

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Ora: non voglio certo attribuire a Cases più di quanto dica, ma è anche lungo questa via che si può ridurre un preconcetto millenario costruito su sospetti di ogni sorta — basti pensare alle leggende medievali degli ebrei assassini — a una ragione aberrante ma a modo suo comprensibile. Torna alla mente il monito di Marc Bloch per cui «la superstizione della causa unica, in storia, non è molto spesso che la forma insidiosa della ricerca del responsabile: quindi, del giudizio di valore». E qui anche il giudizio di valore, al netto delle cause infondate, resta raggelante: è quanto Guido Fubini chiamava l’antisemitismo dei poveri.

In un articolo (molto avverso all’uso della Shoah come fondamento del paradigma vittimario di Israele) Stefano Levi Della Torre ha puntualizzato:

Il genocidio degli Ebrei aveva un altro senso, intendeva portare a termine una condanna ancora più antica, quella ispirata all’antigiudaismo cristiano, che aveva sedimentato per secoli nel senso comune europeo gli stereotipi poi ereditati dalla demagogia antisemita nell’epoca dei nazionalismi. L’emancipazione ebraica nel clima dell’illuminismo ispirò l’idea che gli Ebrei fossero i massimi beneficiari della crisi degli antichi regimi, e dunque di quella crisi fossero i promotori; l’idea cioè che fossero i dominatori occulti dei cambiamenti storici, dall’alto e dal basso (il capitalista Rothschild, il rivoluzionario Marx); fossero, come diaspora, un occulto impero diffuso, fossero cioè un’occulta super-potenza ramificata in ogni nazione. Il mito della potenza invasiva degli Ebrei fu l’ossessione dell’antisemitismo del XIX secolo, mito poi ripreso e reso parossistico dal nazismo. Per questo, alla base della demagogia nazista, troviamo l’allarme vittimistico: «Siamo minacciati, perseguitati dagli Ebrei, dalla loro occulta potenza. La nostra volontà di annientarli non è che legittima e doverosa difesa». Anche la memoria di questo aspetto ci affida un insegnamento: il vittimismo è il veleno demagogico che alimenta ogni oltranzismo: nel vantarsi come vittime ogni nazionalismo aggressivo, ogni fondamentalismo ideologico o religioso fonda la giustificazione del proprio arbitrio, la trasformazione del proprio arbitrio in diritto illimitato di rivalsa, della propria aggressività in legittima difesa, del proprio terrorismo in difesa dal terrorismo. Ieri come oggi.

Ciò detto, è vero che Cases punta l’indice su un sentimento universale: l’oppressione e il dolore che ne scaturisce. A tal riguardo esiste un fondo di odio di classe nel fascismo e nel nazismo che sarebbe molto comodo rimuovere per definire meglio le contrapposizioni ideologiche: per dirla con il mio amato Camillo Berneri, «Il sinistrismo del programma fascista del ’19 ha ingannato molti, ma non era deliberatamente ingannatore». E del resto il rancore e il desiderio di trovare un colpevole immediato su cui scaricare la propria subalternità — «la superstizione della causa unica», ancora una volta — sono emozioni risalenti a ben prima del sorgere di una destra o di una sinistra modernamente intese: basta rileggere Girard per convincersene.

Com’è ovvio, questo non giustifica nulla; anzi colpisce come lo stereotipo del colpevole ideale possegga ancora una forza d’attrazione capace di ottenebrare anche alcune coscienze progressiste. In un bel pezzo di Bruno Montesano leggiamo:

In un mondo multipolare in cui emergono nuovi imperialismi, l’alleanza di Israele con l’asse atlantico viene interpretata attraverso selettive prospettive anti-imperialiste e torsioni antisemite dell’anticapitalismo, che August Bebel chiamava «socialismo degli imbecilli». Invece di analizzare i rapporti sociali, si attribuisce a un’identità connotata negativamente la spiegazione della posizione di potere. Si confondono analisi di classe e analisi razziste antiebraiche. Così come analisi politiche della violenza dell’oppressione israeliana vengono sostituite da stereotipi antiebraici.

In effetti tali automatismi riguardano anche chi combatte per una società migliore; né la sinistra radicale può credersi al riparo da pulsioni irrazionali — non per ultimo il conformismo che affligge anche le minoranze. È molto tranquillizzante ripetere slogan, dando per scontato che l’essere «dalla parte giusta» affranchi dal dovere di vigilare sul proprio linguaggio.

Del resto il riflesso si estende al di là dell’antisemitismo: è una reazione che copre l’intera gamma delle esperienze in nome di un unico inscalfibile principio — l’impegno contro la diseguaglianza. Un intento nobilissimo e fondamentale che può portare, come ogni progetto mutato in dogma, a varie assurdità.

Porto un esempio molto distante dall’argomento (lo sottolineo per evitare reazioni del tipo «come puoi paragonare questo all’antisemitismo») ma egualmente sintomatico. Mesi fa leggevo basito un pezzo in cui Davide Piacenza raccontava alcune reazioni a un discorso di Bebe Vio alla Camera: «pensosi sermoni miranti ad additare “privilegio”» della schermitrice paralimpica che perse braccia e gambe a undici anni. Privilegio che consiste innanzitutto nel provenire da un contesto benestante. Commenta Piacenza:

[…] mi è perfettamente chiaro che la situazione economica della sua famiglia abbia a tutti gli effetti aiutato Bebe Vio (le scuole, i trattamenti, le protesi costose): ma lei rimane anzitutto la vittima di un male terribile e di una disabilità gravissima che l’hanno resa un paria de facto nella società, prima che riuscisse a sfidare la sua condizione e a farne un simbolo.

[…] Le difese […] recitano più o meno così: il senso è chiaro, non è una privilegiata in senso assoluto ma in senso relativo, perché (citando il tweet di cui sopra) “la maggior parte delle persone con la sua stessa disabilità” non dispone delle stesse opportunità.

E questo è un dato di fatto, persino scontato. Ma non si può fingere che il sommarsi di questi discorsi declamati sul nostro pulpito algoritmico di moralizzatori ex cathedra non finisca precisamente per additare colpevoli predeterminati e assoluti che noi, proprio noi, indissolubilmente noi siamo lì per smascherare una volta per tutte.

Questo è uno degli istinti che guidano il pregiudizio a sinistra, e di cui dovremmo liberarci: la rabbiosa certezza che in fondo tutto e sempre si risolva nella diseguaglianza sociale; e che tutto sia giustificabile quando si tratta di additarla o combatterla (più additarla che combatterla, nell’attivismo social di oggi). Ecco il punto dove gli estremi si toccano, e la cecità morale rischia di azzerare le differenze politiche. Dissolverlo non è facile, perché il suo corpo tenebroso è ricoperto dalla candida veste della lotta alla disparità.

Ma per finire diamo a Cesare (Cases) quel che è di Cesare. La frase su cui ho insistito per suffragare la mia ipotesi è preceduta dal bellissimo disegno di una morale laica, un progetto che dovrebbe animare chiunque combatta con abnegazione per un altro mondo — senza credere che per abbattere antiche oppressioni occorra costruirne di nuove. Vorrei lasciarla qui come monito e guida:

No, figlia mia, non sono antisemita. Solo, non credo che la Terra Promessa agli ebrei sia quella della tua anguria. È una terra promessa a loro come a tutti, e che loro hanno avuto modo d’intravedere nella storia della diaspora, in cui tra una persecuzione e l’altra hanno avuto occasione di stare al gioco del potere senza avere mai la certezza che il potere stesse al gioco. È in questa storia millenaria che è affiorata in essi la speranza di una vera Terra Promessa in cui sia possibile l’essere miti senza essere vittime, la felicità senza sopraffazione, la religiosità senza Dio, l’attività senza maledizione del lavoro, l’attaccamento alle cose senza il denaro, la cultura senza il suo ruolo repressivo.

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Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Kafka. Un mondo di verità (Sellerio 2024).

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