L’unica cosa che cambia nella scuola
Sono i voti, con continue modifiche che secondo insegnanti ed esperti fanno più danni che altro, e che non tengono conto delle nuove riflessioni sul significato della valutazione
di Alessandra Pellegrini De Luca
Il ministero dell’Istruzione e del merito ha recentemente annunciato un altro cambio nel sistema di valutazione nelle scuole primarie. Attualmente sono in vigore i giudizi descrittivi, che definiscono l’apprendimento di alunne e alunni con formule che indicano i livelli di raggiungimento di specifici obiettivi: “avanzato”, “intermedio”, “base”, “in via di primaria acquisizione”. Il governo, citando ragioni di comprensibilità, vuole tornare ai giudizi sintetici: “ottimo”, “distinto”, “buono”, “sufficiente” e “insufficiente”. È il sistema che era in vigore fino all’anno scolastico 2020/2021, quello dell’ultima modifica.
«Cambiare il sistema di valutazione a scuola è come quella storia del Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”», dice Roberta Serravall, insegnante di matematica in una scuola media di Modena. Si riferisce a una frase molto nota del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, spesso citata per descrivere un sistema che cambia solo superficialmente, restando uguale a se stesso nella sostanza. Sara Pifferi, insegnante di inglese e sostegno in una scuola primaria sempre di Modena, dice: «È inutile continuare a cambiare i voti se poi tutto il resto – libri di testo, formazione, ma anche il modo in cui sono fisicamente costruite le scuole – continua a basarsi su un solo tipo di didattica, quella frontale».
L’impressione di Serravall, Pifferi e altri insegnanti ed esperti di valutazione è che cambiare frequentemente il modo di dare i voti sia un modo per i governi di mostrarsi efficienti e operosi sulla scuola, senza però introdurre le necessarie riforme strutturali: sia in generale che nello specifico dei sistemi di valutazione, un ambito complesso e su cui negli ultimi anni la pedagogia ha avviato nuove riflessioni. In tutto questo, secondo diversi insegnanti, il ritorno ai giudizi sintetici annunciato dal governo è un grosso passo indietro.
Sulla valutazione le Regioni e i singoli istituti hanno molta autonomia: esistono alcune indicazioni ministeriali e linee guida, da cui però ogni istituto trae il proprio modello operativo. Esistono anche diversi tipi di prove, e diverse frequenze con cui vengono sottoposte agli studenti. Anche la formazione degli insegnanti sulla valutazione varia da istituto a istituto, e viene promossa attraverso singole commissioni all’interno delle scuole.
Anche le prove su cui vengono adottate le valutazioni variano molto. Possono essere scritte, orali, ma anche di altro tipo, come i cosiddetti “compiti di realtà”, un’attività in cui alunni e alunne immaginano di affrontare una situazione concreta che potrebbero vivere nella propria vita quotidiana, come organizzare insieme una festa o risolvere un problema pratico. Prove come queste servono a valutare non tanto le conoscenze, quanto le competenze e l’attitudine a collaborare con altre persone nel raggiungimento di obiettivi comuni.
Alle scuole primarie, attualmente, vengono date valutazioni nel corso delle varie prove singole fatte durante l’anno, e ci sono poi due valutazioni finali, nel primo e nel secondo quadrimestre: il cambiamento annunciato dal governo sui sistemi di valutazione riguarda questo ultimo ambito. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha precisato che la modifica non riguarda quindi tutte le prove svolte durante l’anno, e l’ha motivata come una «operazione di chiarezza» nei confronti delle famiglie e degli studenti.
«Tornare ai giudizi sintetici significa prediligere un sistema di valutazione autocratico e gerarchico, in un momento in cui si stavano facendo progressi per superarlo», dice Cristiano Corsini, professore di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre ed esperto di valutazione. Secondo Corsini dire a uno studente che è “in via di prima acquisizione” rispetto a un determinato obiettivo evidenzia il progresso del suo processo di apprendimento, mentre dire che è “insufficiente” definisce la sua performance, «inchiodandola a quel giudizio».
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Corsini e altri insegnanti ritengono che questo ragionamento abbia particolare importanza proprio alle elementari, quando gli studenti sono ancora piccoli e meno attrezzati a gestire il giudizio. Parole come “buono”, “ottimo” o “insufficiente” (così come i numeri) si prestano più facilmente ad essere intesi come giudizi su di loro, anziché come una valutazione del loro livello di apprendimento, che può cambiare e progredire.
Alla base della riflessione degli esperti c’è una distinzione tra valutazione sommativa e formativa: con un po’ di approssimazione e semplificando possiamo dire che la prima, più tradizionale, assegna un voto per registrare il livello di apprendimento; la seconda, incoraggiata dagli studi di pedagogia più recente, si concentra sul percorso di apprendimento e sul progresso del singolo studente, stabilendo cosa fare per migliorare sia il lavoro dello studente che quello dell’insegnante. I numeri e i giudizi sintetici appartengono alla prima categoria, i giudizi descrittivi alla seconda.
Negli ultimi quarant’anni i vari governi che si sono succeduti hanno cambiato molto frequentemente i sistemi di valutazione: prima i voti, poi i giudizi sintetici, poi di nuovo i voti, poi i giudizi descrittivi, ora di nuovo quelli sintetici. A ognuna di queste modifiche è seguito un percorso di formazione che ha coinvolto migliaia di insegnanti, volto ad adottare un sistema di valutazione che poi è stato nuovamente cambiato.
Chi lavora a scuola ritiene che cambiamenti così frequenti e repentini siano difficili da seguire e assimilare. Pifferi, insegnante a Modena, dice: «Il governo ha giustificato l’ennesimo cambio con ragioni di comprensibilità, ma per comprendere il nuovo sistema di voti sarebbe bastato semplicemente avere un po’ di tempo: i cambiamenti vanno interiorizzati, sia per i genitori che per gli insegnanti». È della stessa opinione Serravall, che insegna alle medie. Secondo Serravall cambiare il sistema dei voti così frequentemente, senza capire e assimilare il senso di questi cambiamenti, riduce la valutazione «a fare delle semplici equivalenze, in cui mettere 6, “buono” o “base” è esattamente la stessa cosa».
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Adele Biasco insegna matematica in una scuola primaria di Modena dal 1995. In quasi trent’anni ha attraversato diversi cambi nel sistema di valutazione. Biasco ha visto quello che lei definisce «un picco in discesa della pedagogia nella scuola pubblica»: mentre la riflessione accademica andava avanti e si rinnovava e venivano elaborate nuove teorie, più attente ai processi di apprendimento e alla loro complessità, la scuola come servizio pubblico peggiorava.
Biasco parla del lungo precariato che chiunque voglia lavorare a scuola deve attraversare, della cronica mancanza di insegnanti nelle scuole, della discontinuità nella formazione dovuta alle continue rotazioni di supplenze, dei sistemi di reclutamento inadeguati a valutare la competenza degli insegnanti, di prèsidi che «sono sempre più burocrati e sempre meno pedagoghi». Il tutto a fronte di una società sempre più complessa, multietnica e varia, in cui la gestione degli studenti e dei loro problemi e bisogni è affidata molto spesso alla sensibilità e bravura dei singoli insegnanti, senza un sistema in grado di selezionarla, incoraggiarla e sostenerla. Secondo Biasco, inoltre, nelle scuole non c’è una formazione sistematica sulla valutazione, anzi c’è una grande disparità sul territorio, in cui convivono eccellenze e contesti assai più arretrati.
«Se decido di adottare un sistema di valutazione che prediliga le competenze e non solo le conoscenze, la capacità di collaborare con altre persone, che valorizzi il progresso nell’apprendimento anziché la singola performance, ho bisogno di spazi fisici e strumenti diversi da quelli pensati per una didattica frontale», dice Pifferi. Cita il caso di una lezione di scienze in cui si siano studiati gli insetti, e di come il giardino esterno possa diventare un luogo per osservarli e continuare a studiarli, anziché solo uno spazio in cui correre durante un quarto d’ora di ricreazione. Altri insegnanti parlano di come sia necessario incoraggiare sempre di più spazi e metodi di studio diversi per ogni materia: su Internazionale il maestro ed educatore Franco Lorenzoni ha definito la «scuola-caserma» un sistema scolastico con ritmi e modalità di apprendimento sempre uguali, in cui ogni materia, indipendentemente dalla sua specificità, viene imparata sui libri e poi ripetuta all’insegnante.
Pifferi include in questo discorso l’esempio dei banchi “a isola”, cioè i banchi componibili che si incastrano tra loro in varie forme, facilitando il lavoro di gruppo: è un esperimento che esiste da anni, incoraggiato come alternativa all’apprendimento frontale, ma che di fatto avviene ancora in aule pensate e costruite proprio per la didattica frontale.
Parte di questi cambiamenti è già in corso in molte scuole, ma in modo disomogeneo, con grosse differenze regionali e senza investimenti per renderli strutturali in tutto il territorio. Gli insegnanti sentiti per questo articolo ritengono che cambiare così frequentemente il sistema di valutazione, e farlo in queste condizioni, finisca per produrre l’effetto contrario a quello auspicato dalla pedagogia: creare un’eccessiva attenzione al voto, alla performance degli studenti e alla competizione, anziché al percorso di apprendimento. Molti insegnanti osservano questa tendenza sia nei genitori che negli studenti, e per limitarla in Italia sono già stati avviati alcuni esperimenti di scuole senza voti: scuole superiori, in questo caso, in cui il voto viene sostituito con giudizi descrittivi nel corso di tutto l’anno scolastico, e usato poi solo per la valutazione di fine anno.