Le tante cose inserite nel decreto PNRR che col PNRR c’entrano poco
Come l'aumento dei fondi per realizzare i controversi centri per migranti in Albania e i discussi emendamenti sulle associazioni antiabortiste nei consultori
Martedì il Senato ha approvato in via definitiva il cosiddetto “decreto PNRR”, un decreto-legge approvato dal governo il 2 marzo scorso e poi convertito in legge dal parlamento (i decreti-legge entrano in vigore subito dopo essere stati approvati dal governo, e poi il parlamento ha 60 giorni per convertirli in legge). Il provvedimento dovrebbe riguardare l’adozione di nuove urgenti misure per garantire la corretta attuazione del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza che contiene riforme e investimenti finanziati da prestiti e sovvenzioni europee nell’ambito del Next Generation EU, di cui l’Italia beneficia per quasi 200 miliardi di euro. È anche per questo che è stato usato un decreto-legge, un tipo di provvedimento che entra subito in vigore e da usare solo in casi di necessità e urgenza. In realtà però nel decreto sono state inserite molte misure che col PNRR c’entrano poco o non c’entrano affatto, alcune delle quali hanno innescato anche grosse polemiche, sia in parlamento che tra la popolazione.
Il decreto, l’ultimo di una lunga lista di provvedimenti connessi all’attuazione del PNRR, si era reso necessario dopo che a novembre scorso la Commissione Europea aveva approvato una serie di richieste di modifica del Piano da parte del governo di Giorgia Meloni. Secondo il ministro per gli Affari Europei e per il PNRR, Raffaele Fitto, su alcuni dei progetti inizialmente inseriti nel Piano c’erano stati ritardi che rendevano improbabile la loro realizzazione entro il giugno del 2026, quando cioè è stata fissata la scadenza dei progetti realizzati grazie al Next Generation EU. Inoltre, a seguito della guerra in Ucraina e della crisi energetica, la Commissione Europea aveva dato agli Stati membri la facoltà di aggiungere un nuovo capitolo ai rispettivi Piani nazionali, tutto dedicato a misure energetiche, che è stato chiamato RePowerEU. Il governo italiano, come del resto la maggior parte dei governi europei, aveva quindi negoziato con la Commissione una modifica generale del PNRR.
Approvata questa modifica, serviva però introdurre norme che rendessero più agevole attuare le nuove direttive e realizzare i nuovi progetti. Il governo ha quindi approvato questo “decreto PNRR” dopo mesi di confronti, che hanno richiesto del tempo anche per via di alcune incomprensioni politiche e operative tra Fitto e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Intorno al decreto si sono poi generate grosse polemiche in parlamento, non tanto sulla parte che riguardava il PNRR, quanto piuttosto sulle molte misure introdotte dal governo o dai deputati di maggioranza che avevano in realtà ben poco a che vedere con lo scopo originale del provvedimento: dal momento in cui un decreto-legge viene approvato dal governo a quando viene convertito in legge dal parlamento, infatti, il testo può subire modifiche e aggiunte.
Nelle commissioni e nelle aule parlamentari il dibattito si è così concentrato di volta in volta sui tentativi di Fratelli d’Italia, il partito di Meloni, di restringere il diritto all’aborto, o sulla controversa reintroduzione dello stipendio al presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, o ancora su alcune assunzioni negli staff dei ministri dell’Agricoltura e della Salute e sul controverso accordo con l’Albania per la gestione dei migranti che arrivano in Italia.
Il decreto nasceva in realtà per soddisfare questioni essenzialmente finanziarie: bisognava stabilire come ridefinire l’uso delle risorse pubbliche per sostenere il nuovo impianto del PNRR. Con queste modifiche, per esempio, sono state inserite nel Piano opere che prima non erano previste e che richiedono quasi 23 miliardi di euro per essere realizzate entro giugno 2026; al tempo stesso sono stati esclusi vari progetti, soprattutto i piccoli interventi urbanistici di competenza dei Comuni, che nel complesso costavano quasi 10,5 miliardi di euro. È stato dunque necessario aumentare i soldi del fondo nazionale che finanzia il PNRR con ulteriori 9,4 miliardi: altri 2,9 miliardi saranno stanziati dalla Commissione Europea. Il grosso di queste risorse verrà recuperato da altri fondi europei, come quelli di Sviluppo e coesione per il sostegno alle regioni più in difficoltà: il che costringerà alcune di queste regioni a rivedere in una certa misura i loro piani di spesa su alcuni temi importanti, come la sanità.
Il decreto introduce poi obblighi di rendicontazione più stringenti per le varie pubbliche amministrazioni coinvolte nell’attuazione del PNRR: in particolare, tutti gli enti responsabili di un’opera prevista dal Piano dovranno aggiornare in tempi rapidi lo stato di avanzamento dei progetti sulla piattaforma preposta, che si chiama ReGis ed è gestita dal ministero dell’Economia. È il portale su cui si basano gli organi preposti al controllo del PNRR – sia quelli nazionali come la Corte dei Conti, sia quelli europei che dipendono dalla Commissione – per misurare a che punto è la realizzazione dei vari obiettivi del Piano. Con il decreto il governo prevede di poter esercitare un controllo maggiore sulle amministrazioni troppo lente nell’inserire i dati di loro competenza sul ReGis, di fatto commissariandole, e introduce per queste il divieto di assumere nuovo personale da impiegare per i progetti del PNRR.
Il governo ha inoltre deciso di cambiare la struttura amministrativa che sovrintende all’attuazione del PNRR, dando alla presidenza del Consiglio maggiori poteri per fare controlli e ispezioni nelle amministrazioni che devono realizzare i progetti. Nel decreto c’è poi la nomina di alcuni commissari straordinari per garantire maggiori progressi su alcuni progetti che rischiano di non essere portati a tempo entro le scadenze concordate con la Commissione Europea: l’aumento del numero degli alloggi universitari per studenti, il recupero e il riutilizzo dei beni confiscati alle mafie, l’abbattimento di insediamenti abusivi (quelle che spesso vengono chiamate baraccopoli) all’interno di un progetto per combattere lo sfruttamento del lavoro in agricoltura.
E poi il decreto prevede molte assunzioni presso le pubbliche amministrazioni responsabili dei progetti del PNRR: in alcuni casi si tratta di assunzioni a tempo determinato, la cui durata è connessa alla scadenza del Piano; in altri casi si prevede invece di stabilizzare il personale precedentemente assunto in maniera precaria.
Proprio sulla questione delle assunzioni si è sviluppata una prima polemica politica. Oltre a quelle più o meno indispensabili, ma comunque giustificate dalla necessità di procedere velocemente sui vari progetti, il decreto prevede anche alcune assunzioni la cui urgenza è più discutibile, perché hanno poco a che vedere con l’attuazione del PNRR stesso. In particolare, hanno generato clamore le assunzioni presso i gabinetti del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, e di quello della Sanità, Orazio Schillaci.
Il primo potrà assumere un nuovo dirigente, in deroga ai limiti sul personale previsti da una legge del 2001, che avrà «compiti di studio e di analisi in materia di valutazione delle politiche pubbliche e revisione della spesa»: insomma servirà, stando a quanto dichiarato, a stabilire come e dove tagliare nel bilancio del ministero. Per la sua assunzione e il funzionamento del suo ufficio verranno stanziati 141mila euro per il 2024 e 282mila euro all’anno a partire dal 2025. Con funzioni analoghe («revisione della spesa in materia sanitaria, nonché per coadiuvare e supportare l’organo politico nelle funzioni strategiche di indirizzo e coordinamento delle articolazioni ministeriali nel settore delle politiche di bilancio») verrà poi assunto un dirigente nel gabinetto del ministero della Salute, per il quale verranno stanziati 178mila euro per il 2024 e 306mila euro all’anno a partire dal 2025.
Di fronte alle critiche delle opposizioni, i partiti di maggioranza hanno fatto notare che queste assunzioni non comporteranno maggiori uscite per il bilancio dello Stato, dal momento che i due ministri dovranno finanziarle attingendo a fondi che sono già a loro disposizione: ma è evidente che per sostenere queste assunzioni bisognerà sottrarre risorse ad altre voci di spesa garantite da quegli stessi fondi ministeriali.
Sempre in tema di nuove assunzioni e nuove spese, ha fatto molto discutere una misura che il governo ha inserito all’articolo 10 del decreto e che riguarda il CNEL, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un organo a cui la Costituzione dà il compito di fornire informazioni e analisi al governo e al parlamento sulle tematiche sociali, occupazionali ed economiche. Da anni il ruolo del CNEL, e la sua effettiva utilità, sono al centro di dibattiti politici. Ultimamente il governo di Meloni ha voluto dare nuova centralità al Consiglio, presieduto dall’ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta. Proprio la sua carica è stata oggetto di polemiche.
Il decreto infatti reintroduce la facoltà di pagare regolarmente lo stipendio al presidente e ai dirigenti del CNEL anche se pensionati, sovvertendo una norma del 2012 approvata dal governo di Mario Monti in un provvedimento finalizzato al taglio della spesa pubblica improduttiva (la cosiddetta spending review). Brunetta, che è pensionato, ha finora presieduto il CNEL a titolo gratuito, come del resto aveva fatto anche il suo predecessore, Tiziano Treu, pensionato anche lui. Il decreto consente ora al governo di procedere a reintrodurre lo stipendio per Brunetta e i suoi successori, fino a un massimo di 240mila euro all’anno.
Inoltre, il CNEL è autorizzato ad assumere due nuovi dirigenti e fino a 15 nuovi dipendenti a tempo indeterminato, tramite concorso pubblico ed entro il 2026: il tutto «al fine di concorrere al potenziamento dell’archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro». Queste misure connesse al CNEL sono state inserite nel decreto PNRR perché nel testo si prevede che il presidente dell’organo prenda parte d’ora in poi ai lavori della Cabina di regia per il PNRR, uno dei vari organi amministrativi preposti all’attuazione del Piano.
Nessuna attinenza diretta col PNRR ha invece la norma che modifica la legge del 21 febbraio scorso con cui il parlamento aveva ratificato l’accordo di collaborazione tra Italia e Albania per la gestione dei flussi migratori. L’accordo, firmato a Roma da Meloni e dal primo ministro albanese Edi Rama nel novembre del 2023, prevede tra l’altro la creazione di tre strutture sulla costa albanese dove identificare i migranti diretti verso l’Italia e dove ospitarli in attesa che vengano valutate le richieste di protezione internazionale o in attesa che vengano espulsi (le modalità con cui tutto questo avverrà non sono ancora state ben chiarite e sono considerate molto problematiche). L’articolo 32 del decreto PNRR attribuisce ora maggiori poteri al ministero della Difesa per realizzare queste strutture e soprattutto aumenta le risorse previste per queste opere nel 2024: non più 39,2 ma 65 milioni di euro.
Al testo originariamente redatto dal governo, i gruppi parlamentari di maggioranza hanno poi apportato varie modifiche. Nel complesso, hanno inserito una ventina tra articoli e commi aggiuntivi su materie disparate: da nuove assunzioni in alcune strutture del ministero della Difesa, a norme per la realizzazione della metropolitana di Torino, a misure per combattere l’inquinamento nella pianura padana. Alcune di queste aggiunte hanno reso ancor più evidente come alcune parti del decreto fossero piuttosto estranee al tema del PNRR.
È il caso, per esempio, dell’articolo 44-quinquies, aggiunto dai deputati di maggioranza, per consentire la presenza di associazioni antiabortiste nei consultori, di cui si è discusso molto negli ultimi giorni. La modifica è nata prendendo spunto dal fatto che nel PNRR originario erano stati stanziati circa 2 miliardi di euro per creare 1350 “Case della Comunità”, cioè strutture sanitarie di prossimità che dovranno garantire un’assistenza di base a livello territoriale. Siccome in queste Case si prevede di inserire anche dei consultori, il gruppo di Fratelli d’Italia ha presentato tramite il suo deputato Lorenzo Malagola un emendamento che prevedeva come automatico «il coinvolgimento di soggetti del terzo settore», tra cui appunto le associazioni antiabortiste, nell’organizzazione dei «servizi consultoriali» da parte delle regioni.
Dopo la polemica che si è innescata, il governo ha modificato questo emendamento, precisando due cose: la prima è che le regioni «possono avvalersi» del coinvolgimento di questo associazioni, cambiando dunque quello che era una sorta di obbligo in una semplice facoltà, come del resto già avviene in varie regioni; inoltre ha specificato che questo coinvolgimento dovrà avvenire «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», cioè ha stabilito che le regioni non possono finanziare con risorse aggiuntive la presenza di associazioni antiabortiste nei consultori.
– Leggi anche: Le associazioni antiabortiste nei consultori ci sono già