È stata approvata la riforma del Patto di stabilità
Dopo lunghe negoziazioni mancava il voto del Parlamento Europeo, che si è appena concluso: sono state decise norme fiscali più rilassate rispetto al passato ma controlli più rigidi, i partiti italiani o si sono astenuti o hanno votato contro
Martedì il Parlamento Europeo ha approvato con un’ampia maggioranza la riforma del Patto di stabilità, ossia l’insieme di complesse regole fiscali che tutti gli stati membri devono rispettare. La riforma era già stata approvata a fine dicembre dai ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27 paesi membri dell’Unione Europea, sulla base di una proposta presentata dal Commissario europeo per gli Affari economici, Paolo Gentiloni. A febbraio il Consiglio dell’Unione Europea e il Parlamento Europeo avevano trovato un accordo su un testo molto simile a quello approvato a dicembre. Dovrà ora essere approvato formalmente dal Consiglio, e le nuove regole inizieranno a essere applicate sui bilanci presentati dagli stati per il 2025.
Le regole previste dal Patto di stabilità servono a far sì che ciascun paese tenga i conti pubblici in ordine e non faccia troppo ricorso al debito, in modo da evitare problemi che possano ricadere sul resto dell’Unione. Le regole erano state sospese nella primavera del 2020 a causa della pandemia di Covid-19, per dare modo ai paesi di spendere miliardi di euro in aiuti ai propri cittadini senza troppi vincoli. Poi però non erano state reintrodotte, anche a causa dell’inizio della guerra in Ucraina e della conseguente crisi energetica.
Il Patto di stabilità sarebbe dovuto tornare in vigore a partire dal 2024, ma da tempo si discuteva della necessità di riformarlo al di là delle emergenze, perché considerato eccessivamente rigido. Lo scorso aprile la Commissione Europea aveva presentato una proposta di riforma, poi discussa e modificata dal Consiglio dell’Unione Europea, l’organo in cui sono rappresentati i governi dei 27 paesi membri.
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La riforma approvata oggi in via definitiva è il risultato di lunghe e laboriose negoziazioni tra tutti i paesi membri dell’Unione: le norme fiscali sono più rilassate rispetto al passato, ma al contempo sono stati introdotti nuovi parametri da rispettare, di modo che il monitoraggio dell’Unione Europea sui bilanci dei singoli paesi diventi ancora più oculato. Il testo finale è quindi considerato un compromesso tra posizioni anche molto distanti espresse dai diversi governi che hanno partecipato alle discussioni.
In estrema sintesi la riforma prevede una semplificazione delle regole, trattamenti diversi a seconda della condizione economica “di partenza” dei paesi e un rafforzamento delle procedure di infrazione. Rimangono invariati i cosiddetti parametri di Maastricht, previsti anche dalla precedente versione del Patto ma particolarmente discussi: gli stati membri dovranno avere un debito pubblico inferiore al 60 per cento del prodotto interno lordo (PIL), e il rapporto tra deficit e PIL non dovrà superare il 3 per cento. Il deficit è l’eccesso di spesa annuo rispetto alle entrate. La riforma permette però agli stati con un debito particolarmente alto di stabilire con le autorità europee dei piani di spesa individuali della durata di quattro anni, prorogabili fino a sette anni, che permettano di ridurlo e rimettersi in linea con gli standard europei.
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Sono previsti anche altri obiettivi generali, che sono stati ammorbiditi rispetto alla precedente versione del Patto in vigore fino al 2020. Per esempio, i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 90 per cento dovranno ridurlo di un punto percentuale all’anno per la durata del loro piano di spesa, e di mezzo punto se il rapporto è superiore al 60 per cento ma inferiore al 90 per cento. È un cambiamento importante, dato che finora la riduzione prevista era di un ventesimo della quota in eccesso ogni anno: un parametro considerato poco realistico, e mai davvero applicato.
Il voto si è tenuto a meno di due mesi dalle prossime elezioni europee, che si svolgeranno tra il 6 e il 9 giugno (in Italia tra l’8 e il 9 giugno), e le nuove norme dovranno quindi essere interpretate e applicate dalla Commissione Europea che si insedierà dopo il voto. Per questo al momento è difficile prevedere quale potrà essere il loro reale impatto: nel dubbio, quasi tutti i partiti italiani si sono astenuti e il Movimento 5 Stelle ha votato contro, proprio per evitare di “intestarsi” dal punto di vista politico una misura che potrebbe avere conseguenze negative sulle finanze del paese.
Per motivi culturali e politici le posizioni tra i governi sono da sempre piuttosto polarizzate: c’è chi chiede regole più flessibili e lasche, come i paesi europei che hanno già un grosso debito e un’alta propensione alla spesa pubblica (l’Italia e la Spagna ad esempio). E c’è chi invece vuole leggi più rigide per contenere i rischi economici legati a un indebitamento eccessivo, ossia il gruppo di paesi conosciuti come “frugali”, tra cui Germania, Austria e Paesi Bassi.
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Queste posizioni hanno caratterizzato anche il dibattito intorno alla riforma del Patto, che andava avanti da anni. I paesi più rigidi, come la Germania, chiedevano che fossero stabiliti dei parametri fissi per la riduzione del debito e del deficit, mentre quelli storicamente meno solidi dal punto di vista economico (tra cui l’Italia) volevano maggiore flessibilità.
L’Italia è tra i paesi europei con deficit e debito pubblico più alti: secondo dati dell’Eurostat riferiti al 2023 il debito pubblico italiano è stato il secondo più alto dopo quello della Grecia, più del 137 per cento del PIL, oltre il doppio della soglia del 60. Il rapporto tra deficit e PIL è invece pari al 7,4 per cento, ben al di sopra della soglia del 3 per cento prevista dai parametri del Patto di stabilità: subito dopo vengono Ungheria, Romania e Francia, con il 5,5 per cento.