Nessuno sa cosa vuol dire “abracadabra”
Ed è forse anche per questo che è una formula associata a qualcosa di magico e misterioso in moltissime lingue
Nella saga dei libri di Harry Potter “Avada Kedavra” è la formula magica che indica la “maledizione mortale”, o “anatema che uccide”: è un’espressione che la sua autrice J.K. Rowling fa derivare dalla frase che in aramaico indica l’esortazione a “far sparire una cosa”, e secondo lei sarebbe una versione originale della più diffusa “abracadabra”.
Abracadabra è una parola che si usa in moltissime lingue europee e che è stata ripresa da così tanti prodotti culturali che è entrata a far parte dell’immaginario collettivo, dove viene associata a giochi di prestigio, fatti sbalorditivi oppure appunto all’idea di far scomparire o comparire qualcosa o qualcuno. Le sue origini sono però dibattute e, come scrive Treccani, proprio il fatto che abracadabra sia una parola di per sé inintelligibile (cioè in sostanza che non voglia dire niente) l’ha resa un sinonimo di «cosa incomprensibile e confusa».
Secondo le ricostruzioni più condivise, tra cui quella dell’Oxford English Dictionary, la sua testimonianza scritta più antica risale a un manoscritto di Quinto Sammonico Sereno, un erudito romano vissuto più di 1700 anni fa. Tra le sue opere arrivate fin qui, seppure incomplete, c’è il Liber Medicinalis, o De medicina praecepta saluberrima, un poema didattico che raccoglieva rimedi popolari e formule che si credeva avrebbero curato malattie e disturbi vari, dall’insonnia al mal di denti, dagli avvelenamenti alle fratture.
Sereno era tutore dell’imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, o Caracalla, e di suo fratello Geta, che governò con lui dal 209 al 211. Nel Liber Medicinalis diceva che indossare attorno al collo un amuleto con la scritta “abracadabra” sarebbe servito ad allontanare la febbre, uno dei sintomi della malaria, che già di suo poteva essere fatale. In particolare, secondo Sereno bisognava scrivere la parola per intero e poi riscriverla in una riga sottostante, ma eliminando l’ultima lettera sulla destra e via così, fino a formare un triangolo rovesciato al cui vertice restava solo una “a”. Si pensava che con questa formula la febbre sarebbe scomparsa, un po’ come succedeva alla parola.
Elyse Graham, storica della lingua alla Stony Brook University di Long Island (New York), ha spiegato a National Geographic che abracadabra era una parola apotropaica: serviva cioè ad annullare o allontanare presunte influenze negative, come peraltro pietre rare, maschere, simboli o formule che avevano questa funzione. Nei secoli successivi sono state trovate formule simili che si ritiene avessero la stessa funzione anche in testi in ebraico, in greco e in copto, tra cui un papiro del Terzo secolo e un codice del Sesto attualmente conservati nella biblioteca dell’Università del Michigan.
Non si sa quali siano le origini di questa parola ma ci sono alcune ipotesi. Alcuni storici ritengono che abracadabra derivi dall’espressione ebraica “ebrah k’dabri”, che significa “io creo mentre parlo”, mentre per altri arriva dall’aramaico “avra gavra”, cioè “io creerò l’uomo”. Secondo lo storico medievista Don Skemer, esperto in studi sulla magia ed ex curatore dei manoscritti dell’Università statunitense di Princeton, potrebbe invece derivare dall’ebraico “ha brachah dabarah”, che significa “nome di colui che è benedetto”: un’ipotesi che ritiene plausibile, visto che, nelle sue parole, «i nomi divini sono fonti importanti di potere soprannaturale che protegge e guarisce» e che «l’ebraico era la lingua di Dio e della creazione» anche per i cristiani.
Nell’antichità «usavamo la magia per fare molte cose», prosegue Graham, osservando però che dopo l’invenzione di farmaci e antibiotici abracadabra rimase perlopiù come parola legata a trucchi di magia e giochi di prestigio, probabilmente proprio perché nessuno è davvero certo di che cosa significhi. In italiano comunque è una parola il cui significato viene dato per scontato, tanto che viene usata anche sui giornali, per esempio per indicare manovre politiche ritenute un po’ opache o firme inaspettate di contratti in ambito sportivo.
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