La notevole vita di Terry Anderson, uno degli ostaggi occidentali detenuti più a lungo in Medio Oriente
Il giornalista statunitense di Associated Press fu rapito in Libano nel 1985 e rimase prigioniero del gruppo radicale Hezbollah per quasi sette anni, durante una sanguinosa guerra civile: è morto domenica a 76 anni
Domenica è morto a 76 anni Terry Anderson, giornalista statunitense diventato molto noto fra gli anni Ottanta e Novanta per essere stato uno degli ostaggi occidentali detenuti in Medio Oriente più a lungo nella storia contemporanea. Anderson fu tenuto prigioniero dal gruppo radicale libanese Hezbollah per quasi sette anni, dal 16 marzo 1985 al 4 dicembre 1991, quando era il capo della redazione locale di Associated Press, una delle agenzie stampa più famose e rispettate al mondo. Ancora oggi è l’ostaggio occidentale detenuto più a lungo nella storia del Libano, un paese in cui in quegli anni si stava combattendo una complicata guerra civile.
Prima e dopo la prigionia Anderson ebbe una vita notevole. Era stato assunto da Associated Press dopo una carriera nell’esercito, e in pochi anni era riuscito a diventare il responsabile della redazione locale a Beirut, uno degli incarichi più delicati e difficili in quel momento. Una volta liberato, Anderson non riprese mai a fare il giornalista, ma insegnò giornalismo in molte università, gestì un bar, si candidò al Senato dell’Ohio (senza successo), fece causa all’Iran chiedendo 100 milioni di dollari per danni, ne ottenne una parte e li perse quasi tutti, tanto che nel 2009 finì in bancarotta.
Parlando con Associated Press, sua figlia Sulome Anderson ha raccontato: «L’ho visto per l’ultima volta una settimana fa, e la persona con cui ho una relazione gli chiese se gli rimanesse ancora qualcosa da fare, se gli rimanesse qualche desiderio. Lui rispose: “ho vissuto così tanto e fatto così tante cose, sono soddisfatto”». Anderson fu rapito quando Sulome non era ancora nata, e i due si incontrarono soltanto quando lei aveva 6 anni.
Anderson era nato nel 1947 a Lorain, in Ohio. Suo padre era un poliziotto, sua madre lavorava come cameriera. Dopo il liceo si arruolò nel corpo militare dei Marine, dove rimase per sei anni lavorando soprattutto come giornalista interno al corpo: raccoglieva informazioni e notizie sia per le pubblicazioni interne sia per darle a giornalisti esterni. È un ruolo che nei Marine esiste ancora oggi. Dopo aver lasciato le forze armate si laureò in giornalismo e scienze politiche e fu assunto da Associated Press, che lo impiegò da corrispondente in vari paesi africani e asiatici, prima di assegnargli la direzione della redazione locale di Beirut, nel 1983.
Anderson arrivò in Libano in un periodo estremamente delicato. La guerra civile era iniziata qualche anno prima e le violenze fra le varie fazioni della società libanese erano quotidiane. Eppure fino agli anni Settanta il Libano era stato il paese più ricco, moderno e laico del Medio Oriente. Era persino considerato un paese modello, dato che al suo interno convivevano pacificamente musulmani sunniti e sciiti (i due principali orientamenti dell’Islam), cristiani, oltre a molte altre minoranze.
In seguito però il Libano finì coinvolto nelle tensioni e violenze che stavano riguardando gli altri paesi della regione, i quali iniziarono a finanziare e sostenere la nascita di milizie etniche all’interno del Libano per promuovere i propri interessi. Israele per esempio sostenne a lungo le milizie cristiane in funzione anti-palestinese (in Libano vivevano moltissimi palestinesi scappati dalle guerre degli anni precedenti combattute contro l’esercito israeliano).
L’Iran invece finanziò fin dalla sua nascita la milizia sciita Hezbollah, che si era formata nel 1982 per contrastare Israele. Ancora oggi Hezbollah è una delle più potenti e influenti organizzazioni libanesi, e continua a ricevere soldi e sostegno politico dall’Iran. Proprio nel 1982 Israele invase parte del Libano, e nel settembre dello stesso anno alcune milizie cristiane uccisero un numero mai precisato di civili palestinesi e di libanesi sciiti nei campi profughi di Sabra e Shatila, vicino a Beirut, con la complicità dell’esercito israeliano. Fu uno dei massacri di civili più gravi mai avvenuti in Medio Oriente.
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Le violenze coinvolsero anche decine di occidentali che si trovavano in Libano per lavoro, fra diplomatici, funzionari, membri dell’intelligence, volontari e giornalisti. il gruppo più attivo nei rapimenti fu di gran lunga Hezbollah, che li catturava per fare pressioni sui paesi occidentali e ottenere piccole e grandi concessioni nelle varie fasi della guerra. Uno dei casi più famosi di rapimento riguardò William Francis Buckley, l’allora capo della CIA a Beirut. Fu rapito il 16 marzo 1984 e morì durante la prigionia.
Anderson invece fu rapito la mattina del 16 marzo del 1985. Aveva appena giocato una partita di tennis con un suo collega di Associated Press, il fotografo Don Mell, che aveva riportato a casa. Poco dopo che ebbe lasciato Mell, un gruppo di uomini armati aprì con la forza la portiera della sua macchina e caricò Anderson su una Mercedes-Benz. Gli uomini armati erano membri di Hezbollah. «Per loro, una persona che andava in giro a fare domande in posti strani e pericolosi doveva per forza essere una spia», raccontò anni più tardi a un giornale locale statunitense.
Nei sei anni successivi Anderson fu tenuto ostaggio in una ventina di posti diversi. Venne picchiato, tenuto in catene, torturato e lasciato per circa un anno in un isolamento quasi totale. Dopo la liberazione disse di aver pensato più volte al suicidio e di avere trovato grande conforto nella lettura della Bibbia. «Devo averla letta cinquanta volte dall’inizio alla fine. Mi fu di enorme aiuto», raccontò.
Non è chiaro esattamente perché Anderson fu trattenuto così a lungo, molto più di altri ostaggi occidentali. Associated Press scrive che «secondo le testimonianze dello stesso Anderson e di altri ostaggi, Anderson era il più ostile fra loro: chiedeva in continuazione cibo e trattamento migliori, discuteva di religione e politica con i suoi sequestratori e insegnava agli altri ostaggi la lingua dei segni e dove nascondere dei messaggi, in maniera che potessero comunicare senza essere scoperti».
Marcel Fontaine, un diplomatico francese che per un certo periodo condivise una cella con Anderson, raccontò che nel maggio del 1988 Anderson pensava che sarebbe stato liberato a breve perché i suoi sequestratori gli fecero vedere la luce del sole e mangiare un hamburger. Invece rimase un ostaggio per diversi altri anni. La sua condizione era diventata un simbolo: Reuters ricorda che il giorno del suo compleanno, il 27 ottobre, era diventata «la giornata informale in ricordo dei cittadini statunitensi presi in ostaggio».
Una delle persone che più lavorarono alla liberazione di Anderson e più in generale degli ostaggi occidentali rapiti in Libano fu sua sorella Peggy Say Anderson, che negli anni portò avanti la sua causa incontrando fra gli altri Papa Giovanni Paolo II, Madre Teresa di Calcutta e il leader palestinese Yasser Arafat.
Verso la metà degli anni Ottanta l’amministrazione statunitense di Ronald Reagan, dei Repubblicani, cercò di liberare Anderson e altri ostaggi statunitensi con un complicato accordo segreto con l’Iran: gli Stati Uniti vendettero armi all’Iran, che allora aveva pochissimi alleati internazionali e che sulla carta era uno dei paesi più ostili agli Stati Uniti, e in cambio l’Iran avrebbe dovuto fare pressione su Hezbollah per liberare gli ostaggi rapiti in Libano. Fra le altre cose gli Stati Uniti usarono i soldi ricavati dalla vendita delle armi all’Iran per finanziare le milizie anti-comuniste dei Contra che combattevano in Nicaragua, nell’America centrale. Questi accordi furono scoperti nel 1986 e negli anni sono diventati noti come il caso Iran-Contra.
Anderson fu infine liberato nel 1991, in circostanze mai del tutto chiarite.
Dopo la sua liberazione, Anderson insegnò giornalismo in moltissime università fra cui la prestigiosa Columbia School of Journalism di New York, ricorda il New York Times.
Successivamente si imbarcò in una serie di avventure imprenditoriali di scarso successo. Aprì un bar dove si suonava musica blues dal vivo ad Athens, una cittadina nel sud dell’Ohio. Nel 2004 si candidò coi democratici al Senato dell’Ohio: perse di pochi punti contro la Repubblicana Joy Padgett, in una circoscrizione in cui i Repubblicani vincono ininterrottamente dal 1977.
Nel 1999 fece causa all’Iran in una vicenda giudiziaria di cui i giornali statunitensi si occuparono molto. Il New York Times racconta che alla fine ottenne circa 26 milioni di dollari provenienti da beni iraniani che si trovavano negli Stati Uniti, e che vennero appositamente espropriati. Dopo una serie di cattivi investimenti, nel 2009 finì in bancarotta.
Dopo la sua liberazione ebbe diversi problemi di salute mentale, e per molti anni non ebbe contatti con sua figlia Sulome. I due si riavvicinarono soltanto dopo che nel 2017 lei pubblicò un libro, The Hostage’s Daughter, mai tradotto in italiano, in cui raccontava dei viaggi in Iran per capire meglio la prigionia di suo padre, durante i quali incontrò anche uno dei sequestratori. «È diventata una giornalista migliore di quanto io sia mai stato», commentò all’epoca Anderson.