“Sedia con corpo adagiato” e altri scherzi
«Sebbene Alberto Sordi e Aldo, Giovanni e Giacomo sfottano un mondo che prendo seriamente perché è la mia vita e il mio lavoro, non riesco a non ridere. L’arte non è per tutti come vogliamo invece far credere con la retorica insopportabile della "bellezza che salverà il mondo". Rispetto chi pensa che l’arte contemporanea sia fuffa. Il vero problema è che non c’è comico che possa battere la realtà. L’arte contemporanea è esposta a scherzi, inganni e fraintendimenti, e spesso si prende in giro da sola»
Ha fatto più danni alla reputazione della Biennale di Venezia il film Vacanze intelligenti dei peggiori vandali e visigoti. Quando Alberto Sordi trova una sedia in una sala del padiglione centrale dei Giardini, invita la moglie, la mitica Anna Longhi, ad aspettarlo seduta accanto a una palma mentre va a comprare la birra che lei desidera tanto. Vedendola, un gruppo di amanti dell’arte contemporanea non resiste all’analisi critica: «Sedia con corpo adagiato: sembra una sfera che prima sprofonda verso il basso e poi si alza piano piano come sospinta dal vento che muove la palma». «Io per diciotto milioni la comprerei». Quando Alberto Sordi torna senza la birra, la moglie esclama «e porca mignotta!» rivelando sé stessa e smascherando i sedicenti intellettuali.
Hanno fatto più danni Aldo, Giovanni e Giacomo alla reputazione dell’arte contemporanea in una manciata di secondi che decenni di storici dell’arte conservatori e ostili. «Il mio falegname con trentamila lire la fa meglio, non ha neanche le unghie» dice Giovanni davanti a quella gamba di legno che ha dato il titolo al loro film più famoso: «Guarda che questo è un Garpez, uno dei più grandi scultori viventi». E sono stati sempre loro, questa volta a teatro, a sfottere quelli che come me, occupandosi d’arte contemporanea, possono sostenere che una sedia non sia una sedia, ma un capolavoro del maestro Fistalloni, che esprime il concetto di “sedialità” elevando l’oggetto a un valore universale. Dopo l’ennesima lezione di Giacomo su iperrealismo e monocromaticità, Giovanni e Aldo si avvicinano a un estintore tessendo le lodi di un’opera riuscitissima, per sentirsi dire che quello era davvero l’estintore del museo.
Sebbene Alberto Sordi e Aldo, Giovanni e Giacomo sfottano un mondo che prendo molto seriamente perché è la mia vita e il mio lavoro, non riesco a non ridere. L’arte non è per tutti come vogliamo invece far credere con la retorica insopportabile della «bellezza che salverà il mondo». Non lo dico con distacco e nemmeno, figuriamoci, con qualche senso di superiorità. Semplicemente rispetto chi pensa che l’arte contemporanea sia fuffa. Il vero problema è che non c’è comico che possa battere la realtà, in certi casi. L’arte contemporanea è esposta a scherzi, inganni e fraintendimenti, e spesso si prende in giro da sola.
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Pochi mesi fa la polizia di Londra ha ricevuto una chiamata in cui si segnalava una donna svenuta su una scrivania oltre la vetrina della galleria Laz Emporium di Lexington Street a Soho. Quando la polizia ha sfondato la vetrina, si è trovata davanti Kristina, un’opera iperrealista dell’artista Mark Jenkins. E ancora: al Museo Picasso di Parigi un’anziana signora ha visto una giacca appesa alla parete. L’ha presa pensando che qualcuno l’avesse scordata, l’ha portata a casa e le ha fatto pure l’orlo perché era troppo lunga. Era un’opera dell’artista Oriol Vilanova, che invitava il pubblico a interagire prendendo una delle cartoline sistemate nelle tasche. Diciamo che più che un furto è stato un eccesso di interazione. Se in questi casi qualche danno c’è stato, dieci anni fa il riminese Eron ha esultato quando un muratore ha stuccato il suo disegno di un buco nel muro, a dimostrazione di quanto fosse fatto bene.
Il duo di artiste Goldschmied & Chiari si è invece spaccato in due dopo che una mattina un addetto alle pulizie del Museion di Bolzano ha gettato nella spazzatura una loro installazione realizzata con bottiglie vuote: a una è molto piaciuta la cosa, l’altra si è arrabbiata moltissimo (ma solo inizialmente e non diremo chi ha reagito come). Quell’opera era – anzi, è, perché poi è stata rifatta e anche riproposta più volte – un ritratto nitido dell’Italia. Il suo titolo, Dove andiamo a ballare questa sera?, è un riferimento al libro oggi quasi introvabile che Gianni De Michelis scrisse sulle discoteche italiane nel 1988, da vicepresidente del Consiglio dei ministri (la prefazione è di Gerry Scotti). De Michelis aveva una grande passione per la danza, che lo esponeva ad attacchi vari (Enzo Biagi lo chiamava “Avanzo di balera”). L’installazione di Goldschmied & Chiari richiamava proprio l’edonismo degli anni ’80, la televisione privata di massa, la speculazione finanziaria, un Paese ben al di sopra delle proprie possibilità di cui oggi rimangono le ingombranti macerie politiche e sociali. E magari bastasse una buona impresa di pulizie a rimettere in sesto le cose.
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Ma non ci sono solo gli “scherzi agli artisti”, ci sono anche gli “scherzi degli artisti”: il mago di questo tipo di arte è il più noto artista italiano vivente, Maurizio Cattelan. Potremmo citare decine di scherzi suoi, ma ci limitiamo a due: nel 1992, all’inizio della sua carriera, Cattelan istituì il premio della Fondazione Oblomov, che assegnava 10 mila dollari, raccolti da vari mecenati, a un artista disposto a rinunciare a esporre per un anno. Il premio, naturalmente, Cattelan lo assegnò a sé stesso: grazie ai soldi si trasferì a New York dove avviò una carriera strepitosa. La Fondazione Oblomov, ovviamente, non esisteva: il riferimento era al protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Gončarov, noto per la sua devastante pigrizia. In segno di ringraziamento Cattelan affisse alla parete d’ingresso dell’accademia di Brera una targa con i nomi dei donatori (abusiva anche quella, ci sarebbe voluto un anno prima che qualcuno se ne accorgesse e la staccasse).
Qualche anno dopo Cattelan organizzò la Sesta Biennale dei Caraibi. Ancora una volta raccolse soldi dagli sponsor, salvo poi spiegare che la sesta Biennale dei Caraibi (“sesta” per dare l’idea di uno “storico” che ovviamente non c’era) sarebbe stata una lunga vacanza pagata per lui e i suoi amici. Dietro questi lavori non c’era soltanto una presa per i fondelli di un sistema dell’arte debole e credulone, ma anche una performance artistica, giustamente pagata, per ricordare che «l’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere chiamati» per dirla con Leo Longanesi (chissà se l’ha detto davvero, ma quando c’è una bella citazione la si attribuisce a Longanesi o Flaiano), che tutto questo insorgere di biennali, festival e premi stava compromettendo la qualità stessa dell’arte. So che ci sono molte persone che faticano a considerare queste come azioni artistiche, ma credo che l’arte debba porre domande, e su questo Maurizio Cattelan è un campione.
Continuiamo con gli scherzi, questa volta involontari: nel 2017 l’artista indiano Anish Kapoor comprò il brevetto del Vantablack, un pigmento nero in grado di assorbire la luce al 99,965%, che cambia completamente la percezione degli oggetti. Su questa istanza Kapoor lavora da sempre per dimostrare che ogni cosa che vediamo ha una pelle, una patina, ma che sotto c’è altro. C’è il superficiale e c’è lo spirituale, ci sono la mente e il corpo, la carne e l’anima delle cose. A metà degli anni ’90 le sue opere si fecero monumentali: installazioni in cui usava l’acciaio e lo specchio, che riflettono il cielo, il paesaggio urbano, o le persone, nel tentativo di cambiare lo spazio circostante, di aprire una voragine verso un mondo nuovo, capovolto. Ma torniamo al nero più nero che c’è: nel 2018, per una sua mostra in Portogallo, Kapoor riempì di quel pigmento un buco profondo due metri e mezzo. Anche una voragine, se coperta di Vantablack, sparisce. Sembra un bollo applicato in superficie. E infatti un visitatore, pensando a un trucco, fece un passo di troppo e cadde rovinosamente nel buco. Ovviamente, era italiano.
Un altro esempio di quanto la percezione possa ingannare i sensi è la triste storia dell’artista Nathwell Tate, detto Nat. Diventato orfano presto, fu adottato da una ricca famiglia dove non viveva bene. Da ragazzo si appassionò al disegno e iniziò la sua serie più famosa, quella dei Bridge ispirata al poeta statunitense Hart Crane. Il mondo dell’arte si accorse di lui quasi subito e Tate incassò stima e amicizia di giganti come Pablo Picasso, Georges Braque, Yves Klein. Subì l’influenza dell’espressionismo astratto, ma il suo tratto potente ed enigmatico stregò la capitale del mondo dell’arte, New York. Nei primissimi giorni del 1960, però, devastato dall’alcolismo e dalla depressione, Nat Tate fece il giro di tutti i suoi collezionisti per chiedere indietro i suoi quadri che avevano acquistato con la scusa di doverli restaurare o fare alcune modifiche. L’8 gennaio, facendosi aiutare dal figlio appena dodicenne, bruciò tutta la sua produzione. L’ultimo a parlare con lui, il 12 gennaio, fu l’uomo che gli vendette un biglietto per il traghetto di Staten Island, perché a metà strada tra la Statua della Libertà e il Military Ocean Nat Tate si buttò nelle acque tra l’Hudson e l’East River. Aveva 31 anni e il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato.
Per fortuna nel 1998, a sessant’anni dalla nascita, lo scrittore William Boyd riuscì a rimettere insieme alcuni suoi disegni e a presentarli al mondo pubblicando un libro sulla vita di Tate con la 21 Publishing, casa editrice di David Bowie, grande estimatore di Tate (qui la traduzione in italiano). Per la presentazione tutto il mondo intellettuale newyorchese si riunì nello studio di Jeff Koons: John Richardson, biografo di Picasso, parlò dell’amicizia tra i due artisti; Gore Vidal, che aveva conosciuto molto bene Tate, ne tracciò gli aspetti più personali; David Bowie lesse commosso alcuni brani, dichiarando il suo amore per un artista che ammirava da quando era ragazzo. D’altronde, chi non ammirava il grande Nat Tate in quella sala? Chi non seguiva il suo lavoro da sempre ed era grato a Boyd per quel lavoro di ricerca e restituzione? Chi non approfittò di quel party del primo aprile 1998 per raccontare del proprio rapporto personale con Tate, di averlo conosciuto una volta, anche se di sfuggita, o quando aveva sentito per la prima volta parlare di lui? Nessuno aveva fatto attenzione alla data e a nessuno era balenato il minimo sospetto. Fu il quotidiano Independent, pochi giorni dopo quella festa da sogno, a spiegare che Boyd, Bowie, Richardson e Vidal si erano beffati di tutto il mondo dell’arte di New York. Nat Tate non era mai esistito, ma nessuno in quella sala avrebbe ammesso di non averne mai sentito parlare.
Questa grande lezione al mondo dell’arte, purtroppo, non è servita un granché: in tanti, ancora troppi, fingono padronanza anche quando non hanno idea di di cosa si stia parlando. La morale? Non c’è. L’arte non ha mai morale e se ne frega se chi la guarda conosce o meno il nome dell’autore. C’è posto per tutti, anche per chi non esiste: Fistalloni e Garpez sono davvero artisti quotati.