Il lavoro dei manager musicali è cambiato
Rispetto al passato i loro compiti sono aumentati, e in certi contesti stanno quasi scomparendo, sostituiti dagli stessi musicisti
Per almeno una cinquantina d’anni i manager di cantanti e gruppi musicali hanno svolto una funzione importante nell’industria discografica, raggiungendo in alcuni casi una fama propria e autonoma. Il “colonnello” Tom Parker, un ex giostraio olandese che verso la metà degli anni Cinquanta divenne il manager di Elvis Presley, è considerato tuttora una sorta di pioniere di questo settore: fu il primo manager a diventare ricchissimo curando gli interessi di un cantante, il primo a esigere una percentuale piuttosto consistente (il 25%) sui guadagni derivanti dagli album e dai concerti e il primo a diventare un personaggio raccontato dalle riviste musicali e di costume.
Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta altri manager sono diventati delle figure quasi mitiche del mondo della musica. Uno dei più famosi fu il manager dei Beatles Brian Epstein, anche per via della sua storia professionale piuttosto breve: li rappresentò per soli cinque anni, dal 1962 al 1967, l’anno della sua morte. Nello stesso periodo emersero anche Andrew Loog Oldham, che dal 1963 al 1967 fu il primo manager dei Rolling Stones, e la persona che lo sostituì, Allen Klein, che dopo la morte di Epstein cominciò a rappresentare anche i Beatles, occupando una posizione di egemonia culturale nell’industria discografica del tempo.
Nei giornali e nei romanzi di quegli anni, come per esempio Great Jones Street di Don DeLillo (1973), i manager venivano raccontati come delle persone pragmatiche e arriviste, capaci di stabilire un rapporto di fiducia parecchio esclusivo con i musicisti e i gruppi che rappresentavano e di mettere in difficoltà le etichette discografiche, esigendo contratti sempre più remunerativi e vantaggiosi.
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Oggi, per vari motivi, la loro presenza nell’immaginario collettivo è diminuita significativamente. Lo ha raccontato recentemente il giornalista e scrittore scozzese Andrew O’Hagan in un lungo articolo pubblicato sul New Yorker. O’Hagan ha parlato soprattutto della situazione di Scooter Braun, il manager che nel 2007 “scoprì” Justin Bieber grazie a un video su YouTube e che, negli ultimi dieci anni, ha rappresentato musicisti come Martin Garrix, Psy e Kanye West. Secondo alcune indiscrezioni pubblicate da TMZ e Variety, due riviste di settore con ottime fonti, dalla scorsa estate Braun avrebbe interrotto i rapporti di collaborazione con diversi clienti, come la cantante Demi Lovato e Idina Menzel, e anche Ariana Grande e lo stesso Bieber, pur essendo ancora formalmente sotto contratto con la sua società SB Projects, starebbero pensando di cambiare manager.
C’entra in parte il fatto che, negli anni, Braun ha adottato dei metodi piuttosto spregiudicati per mantenere un controllo serrato sulle carriere dei musicisti di cui curava gli interessi. Per esempio, nel 2019 Braun aveva acquistato dal produttore Scott Borchetta i diritti di tutta la musica e i video prodotti da Taylor Swift, attualmente la cantante più famosa al mondo, prima che passasse all’etichetta discografica Republic Records nel 2018, inclusi quindi i suoi primi sei album. Questo voleva dire che chiunque volesse concedere in licenza una delle sue vecchie canzoni per riprodurla in uno show televisivo, un film o una pubblicità avrebbe dovuto chiedere il permesso a Braun e pagargli un canone di licenza. Swift aveva provato a comprare i diritti ma non c’era riuscita e aveva vissuto molto male il fatto che fossero stati venduti a Braun.
Braun cominciò a dare il permesso di utilizzare la musica di Swift – inclusi alcuni progetti che non erano mai stati pubblicati – senza il suo consenso, e dopo alcuni mesi di forti disaccordi decise di vendere il suo catalogo a un fondo di investimento guidato da Roy E. Disney, nipote di Walt Disney, senza che Swift ne fosse a conoscenza. A partire dal 2021 Swift ha quindi cominciato a re-incidere i propri primi sei album, arricchendoli con nuove versioni delle canzoni originali, collaborazioni con altri artisti famosi e pezzi che all’epoca non erano stati pubblicati. In aggiunta, Swift ha anche pubblicato alcuni video musicali girati da lei stessa.
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Il modo in cui Swift gestisce i propri affari potrebbe essere un esempio di come il ruolo del manager potrebbe perdere rilevanza nei prossimi anni. Questo perché, di fatto, Swift non ha un manager, almeno non nel senso in cui il ruolo viene inteso oggi: è infatti l’amministratrice delegata della società che coordina la sua attività, 13 management, e gestisce i rapporti con le case discografiche e i brand con grande autonomia. Secondo O’Hagan, l’indipendenza di Swift dimostrerebbe che, ai livelli più alti del settore, la figura del manager carismatico potrebbe venire presto «soppiantata dal potere esecutivo della star stessa, supportata da un “manager” in un bel vestito che guida una squadra di avvocati».
I manager musicali hanno svolto un ruolo importante per l’industria discografica anche in Italia, anche se più strettamente operativo e silenzioso, lontano dai divismi dei colleghi britannici e statunitensi. Fino agli inizi degli anni Duemila il loro compito riguardava quasi esclusivamente il lato discografico e la parte editoriale, ossia quella relativa alla gestione dei diritti d’autore. In sostanza, il manager concordava con le case discografiche il termine entro cui fare uscire un disco e, subito dopo, lavorava insieme ai referenti dell’etichetta per fissarne la data d’uscita.
Il lavoro successivo, quello relativo alla promozione dell’album, era molto meno faticoso rispetto a quanto accade oggi: i canali per promuovere la musica dei musicisti rappresentati erano sostanzialmente tre, ossia le radio, le televisioni e la carta stampata, e quindi periodici e riviste specializzate. A quei tempi la principale fonte dei guadagni dei musicisti erano i supporti fisici in cui veniva registrata la loro musica, ossia vinili, cassette e cd, mentre i tour e i concerti rappresentavano soltanto una componente aggiuntiva del loro sostentamento.
Oggi le cose stanno all’opposto: in seguito all’espansione delle piattaforme di streaming e al conseguente crollo delle vendite dei supporti fisici e della musica digitale, esibirsi dal vivo è diventata la principale fonte di guadagno per molte persone che fanno musica. Gli streaming, infatti, assicurano agli artisti una frazione di centesimo di euro di guadagno a ogni ascolto, e non hanno compensato nemmeno lontanamente quello che in precedenza si guadagnava dalla vendita dei dischi.
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Di conseguenza, come spiega Matteo Zanobini, manager di musicisti e gruppi come Brunori Sas, Colapesce Dimartino e Baustelle, oggi in molti casi l’uscita del disco, e più in generale l’attività discografica, serve più che altro «ad “accendere la miccia” su tutto il resto», come per esempio annunciare l’inizio di un tour.
Oltre alla sempre più evidente centralità dell’attività dal vivo, un altro aspetto a cui i manager dedicano oggi molte energie è la gestione dei social dei loro clienti. «Abbiamo a che fare tutti i giorni con una mole di comunicazione enorme» che, spiega Zanobini, in alcuni casi costringe musicisti e gruppi «a diventare promotori di sé stessi» e a dedicare «una enorme quantità di tempo alla produzione di contenuti». Gestire i social con consapevolezza può aiutare a ottenere dei risultati soddisfacenti e intercettare nuovi ascoltatori ma, sottolinea, «in molti casi allontana da quello che dovrebbe essere la vocazione principale, ossia produrre dei dischi che abbiano un senso».
Anche le collaborazioni con i brand sono diventate una parte sempre più importante del lavoro dei manager e, secondo Zanobini, in alcuni casi forse in maniera eccessiva. «Rispetto al passato passiamo molto più tempo a parlare con le agenzie di comunicazione per pubblicizzare prodotti, il che non è necessariamente un male», dice. Bisogna però sapere quando fermarsi, anche perché «alla lunga esagerare con le collaborazioni potrebbe finire per rovinare l’immagine dei musicisti che rappresentiamo: a livello di percezione collettiva, più diventi un testimonial di prodotti, meno hai credibilità artistica».
Zanobini si ritiene fortunato a lavorare con musicisti che danno ancora una certa centralità al processo discografico, discostandosi dai ritmi richiesti dal mercato, che invece inducono a produrre singoli «ogni tre mesi» e a «non prendere un attimo di respiro prima di mettersi al lavoro sul nuovo disco, un processo che, almeno romanticamente, dovrebbe iniziare soltanto nel momento in cui il musicista lo ritiene necessario».
È dello stesso avviso anche Paola Zukar, manager di alcuni dei rapper italiani più famosi e acclamati, come Fabri Fibra e Marracash, e considerata una figura importantissima per la diffusione della cultura hip hop in Italia. «Gestire i social con consapevolezza e professionalità è utilissimo, ma non può trasformarsi in un meccanismo che allontana troppo il musicista dal suo vero lavoro», dice.
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Dato che ha avuto a che fare quasi sempre con il rap, una musica che oggi occupa i primi posti delle classifiche ma che, fino a una ventina d’anni fa, era scarsamente considerata dall’industria discografica, Zukar ha sofferto un po’ meno il passaggio allo streaming. «Per noi la parte dei live era importantissima anche negli anni Novanta, anche perché il rap era un fenomeno underground e rivolto a una nicchia molto ristretta di appassionati». «Al netto di pochissime eccezioni come gli Articolo 31 e i Sottotono, i rapper – continua Zukar – non riuscivano a ottenere lo status di musicisti pop: anche a quei tempi fare concerti era la nostra unica, vera, possibilità di guadagno, e quindi il mio lavoro da manager ha sempre avuto al centro questa attività».
A questo si aggiungeva l’impossibilità di raggiungere i canali di distribuzione tradizionali. Per esempio, Zukar ricorda che far passare una canzone rap in radio era un’impresa quasi impossibile, perché questa musica veniva considerata poco adatta per i gusti del pubblico generalista. Uno dei casi più clamorosi, ricorda Zukar, fu quello di “Tranne te”, uno dei singoli di Controcultura, il sesto album in studio di Fabri Fibra. «Era diventata un tormentone per strada e nei locali, eppure le radio più grosse si rifiutavano di trasmetterla. Questo per dire che, da sempre, i media italiani più istituzionali sono piuttosto refrattari alle novità».
In generale, secondo Zukar, lo streaming è un modello di business che, al netto degli scarsissimi guadagni, funziona molto per la discografia e facilita il lavoro dei manager, soprattutto perché «tiene in ballo a oltranza il repertorio di un musicista, anche anni dopo l’uscita di un disco».
Anche Gaetano Puglisi, manager di Eros Ramazzotti e Gianna Nannini attivo nel mondo della discografia dagli anni Novanta, dice che lo streaming ha per certi versi semplificato il lavoro dei manager: «Prima, per fare uscire un disco, bisognava pensare in anticipo a un sacco di cose, come per esempio adattarsi ai lunghi tempi della stampa di un vinile. Oggi il processo di uscita di un album è molto più snello e alla portata di tutti: si può uscire anche in due settimane, e questa velocità era impensabile fino a qualche decennio fa».
L’avvento delle piattaforme ha cambiato anche il modo di ascoltare un disco, e le strategie che bisogna adottare per conquistare l’attenzione dell’ascoltatore. Per esempio, spiega Puglisi, oggi pubblicare album molto lunghi può essere sconveniente: «l’ascoltatore tollera al massimo 12, 13 canzoni; oltre questa soglia, conquistare la sua attenzione diventa molto difficile. Se pubblichi un album di 20 brani vedrai che gli ascolti caleranno in maniera piuttosto drastica verso il fondo, nelle canzoni che per così dire compongono “la seconda parte”. Anche per questo motivo, oggi molti manager cercano di indirizzare i musicisti verso i singoli, che sono molto più funzionali ai ritmi di produzione richiesti dal mercato attuale».
Zukar, Zanobini e Puglisi concordano sul fatto che la centralità delle piattaforme abbia indotto i manager a differenziare le strategie adottate per far parlare dei musicisti che rappresentano, che sono diventate molto più varie e originali rispetto al passato. Se prima i canali promozionali erano soprattutto le radio, la televisione e i giornali, oggi si può ottenere visibilità in modi diversi: si può generare interesse attorno all’uscita di un disco producendo un film, scrivendo un libro o producendo un podcast tematico, per esempio. «La frammentazione dei canali di comunicazione ha fatto diventare il nostro lavoro più elastico, spingendoci a elaborare delle strategie meno convenzionali», spiega Zanobini.
Per esempio, a dicembre i Baustelle, uno dei gruppi rappresentati da Zanobini, avevano distribuito due canzoni, realizzate con I Cani, sotto forma di vinile da dodici pollici in alcuni negozi di dischi di varie città italiane: il numero di vinili era limitato, l’uscita non era stata annunciata e le canzoni non erano state inserite nei cataloghi delle piattaforme di streaming. «In quel caso, abbiamo deciso di escludere dalla comunicazione il comparto digitale: una scelta inconsueta, ma che è stata molto apprezzata dal pubblico». Nel 2022 Marracash, rapper rappresentato da Zukar, aveva annunciato il suo settimo album, Noi, loro, gli altri, due giorni prima della sua uscita, senza alcun tipo di promozione e senza pubblicare nessun singolo.