Né l’Iran né Israele volevano una nuova guerra
Lo si è visto con gli attacchi compiuti nell’ultima settimana, molto annunciati e assai limitati: la priorità per entrambi i paesi è stata compiere un’azione dimostrativa
L’attacco israeliano contro l’Iran di venerdì mattina, forse compiuto con alcuni droni, ha avuto conseguenze minime o nulle in Iran, secondo quanto raccontato dalla stampa iraniana (controllata dal regime). Sull’attacco non ci sono ancora informazioni precise o confermate, ma sembra che i droni siano stati intercettati prima che toccassero terra, senza provocare quindi grossi danni. L’attacco è stato la risposta al lancio di droni e missili da parte dell’Iran contro Israele sabato sera: un’azione militare senza precedenti ma allo stesso tempo a sua volta con effetti assai limitati.
In entrambi i casi, sia nell’attacco iraniano sia nella risposta israeliana di questa mattina, è stato evidente che nessuno volesse l’inizio di una nuova guerra e che i due governi volessero solo fare azioni dimostrative.
Per esempio mentre i droni iraniani erano ancora in volo e diretti contro Israele, il governo iraniano aveva definito «chiusa» la crisi. Lo stesso lancio di droni e missili non era stato inaspettato, come ci si aspetterebbe da qualcuno che ha l’obiettivo di colpire il nemico, ma era stato di fatto annunciato prima. Inoltre venerdì l’Iran non ha accusato ufficialmente Israele dell’attacco vicino a Isfahan, nell’Iran centrale: il generale Siavash Mihandoust, il militare più alto in grado nella zona, ha parlato genericamente di tre «oggetti volanti» abbattuti dal sistema di difesa aerea iraniano. In generale si è tentato di sminuire l’accaduto, evitando toni che avrebbero potuto alimentare nuove reazioni militari.
L’attacco iraniano dello scorso sabato era stato deciso come ritorsione per l’omicidio nell’ambasciata iraniana in Siria di Mohammad Reza Zahedi, un importante generale delle Guardie rivoluzionarie (potente corpo militare iraniano). L’attacco era stato massiccio nei numeri, con 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici, ma molto atteso e di fatto annunciato dallo stesso regime iraniano una volta partiti i primi droni, che ci avrebbero messo ore per raggiungere il territorio israeliano. Questo aveva dato a Israele e i suoi alleati il tempo di neutralizzare droni e missili quasi completamente.
L’Iran aveva così voluto compiere un atto ritenuto necessario dopo un attacco a una sua ambasciata, ma secondo molti osservatori non aveva voluto causare danni che obbligassero Israele a una reazione consistente. L’attacco era stato presentato in patria e agli alleati come risposta risoluta: a livello simbolico lo era, perché in decenni di contrapposizione l’Iran non aveva mai attaccato in modo diretto Israele. In passato e anche recentemente aveva invece sovvenzionato, addestrato e armato i gruppi cosiddetti filoiraniani in Iraq, Siria, Libano e Yemen, oltre al gruppo radicale palestinese Hamas, guidando almeno in parte le loro operazioni contro Israele.
Nei giorni seguenti agli attacchi iraniani erano state numerose le pressioni internazionali su Israele perché la ritorsione fosse “moderata”, se davvero considerata necessaria. Il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva detto pubblicamente di voler rispondere, nonostante gli inviti arrivati anche dagli Stati Uniti a evitare ogni possibile azione che potesse dare inizio a «una guerra più ampia».
Le modalità scelte hanno rispettato queste indicazioni: Israele ha individuato come obiettivo un sito nucleare iraniano, ma senza danneggiarlo in modo consistente. Un funzionario dell’Unione Europea che ha parlato al Financial Times in forma anonima ha detto: «Tra tutte le opzioni possibili, è chiaro che si tratta di un’azione molto marginale da parte di Israele». Secondo vari analisti che hanno parlato con media israeliani e internazionali si è trattato di un attacco quasi simbolico, in cui l’esercito israeliano ha mandato il messaggio di poter colpire nel centro dell’Iran, in un luogo particolarmente sensibile, ma senza farlo veramente e senza causare una nuova risposta da parte del nemico.
Questa scelta è stata in parte contestata dalla componente più estremista del governo e dell’opinione pubblica israeliana. Il ministro per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che nei giorni scorsi si era augurato che Israele si «scatenasse» nella risposta, ha postato su X (Twitter) una parola traducibile con «debole» (letteralmente «spaventapasseri»), che è stata chiaramente interpretata come un commento su quanto successo.
L’Iran aveva anche minacciato di ripristinare il proprio programma nucleare militare in caso fossero stati attaccati in modo sensibile siti nucleari: una promessa assai discutibile, visto che il sospetto è che abbia riniziato da tempo a lavorarci. Nel 2015, infatti, l’Iran aveva acconsentito ispezioni internazionali periodiche delle proprie strutture nucleari, in cambio della rimozione di parte delle sanzioni imposte sulla sua economia. Nel 2018 però l’allora amministrazione statunitense di Donald Trump aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo, di fatto facendolo saltare: sviluppi successivi avevano fatto crescere i sospetti che l’Iran avesse ripreso a sviluppare tecnologia nucleare a uso militare.