Una Biennale d’arte di Venezia «così tradizionale da essere radicale»
È la prima curata da una persona latinoamericana, è dedicata agli “stranieri ovunque” e ci sono soprattutto quadri e sculture
Dal 20 aprile al 24 novembre si terrà a Venezia la 60esima edizione della Esposizione internazionale d’arte, detta più comunemente “Biennale” dal nome della fondazione che la organizza ogni due anni, in alternanza con la Biennale di Architettura. È una delle più importanti esposizioni d’arte contemporanea al mondo e quest’anno è stata curata dal brasiliano Adriano Pedrosa, che ha 58 anni, è direttore artistico del Museo d’arte di San Paolo (MASP), in Brasile, ed è la prima persona latinoamericana a ricoprire il ruolo.
Pedrosa ha intitolato questa edizione della Biennale “Stranieri ovunque — Foreigners Everywhere”, dal nome di una serie di lavori realizzati dal 2004 dal collettivo d’arte femminista e concettuale Claire Fontaine, tra cui alcune sculture al neon che riproducono in 53 lingue diverse le parole “Stranieri ovunque”. Claire Fontaine si era ispirato a sua volta all’omonimo collettivo torinese, che nei primi anni Duemila era particolarmente impegnato contro il razzismo e la xenofobia in Italia.
Tra gli obiettivi della Biennale, infatti, c’è raccontare e commentare attraverso l’arte il mondo che stiamo vivendo e provare a immaginare quello che verrà: da qui la scelta dell’argomento di quest’anno, che è anche una risposta al diffondersi dei sentimenti e dei partiti xenofobi in molti paesi, compresa l’Italia, e ai tanti «migranti forzati», come li ha definiti Pedrosa: cioè le persone costrette a lasciare il proprio paese a causa delle guerre, della fame, delle persecuzioni politiche.
Pedrosa è responsabile soltanto della esposizione principale che è ospitata, come sempre, in due sedi: i Giardini e l’Arsenale. A questa si aggiungono 87 padiglioni nazionali: i 29 più antichi (come quello del Regno Unito, della Francia e della Germania) si trovano nei Giardini, gli altri nell’Arsenale o sparsi in giro per la città. Il Padiglione Italia, che si trova alle Tese delle Vergini nell’Arsenale, è curato da Luca Cerizza ed espone il progetto “Due qui / To hear” dell’artista Massimo Bartolini.
Quattro paesi sono presenti per la prima volta alla Biennale d’arte: il Benin, l’Etiopia, Timor Est e la Repubblica Unita della Tanzania, mentre altri tre hanno un proprio padiglione per la prima volta: il Nicaragua, la Repubblica di Panama e il Senegal. Ci sono infine decine di eventi collaterali (qui la selezione curata dal New York Times) e molte altre rassegne che non fanno parte della Biennale ma sono state organizzate per l’occasione, a partire dalla mostra “Willem de Kooning e l’Italia” alle Gallerie dell’Accademia (trovate una selezione qui).
Pedrosa ha cercato di rappresentare in questa Biennale artisti stranieri, immigrati, espatriati, esiliati e rifugiati, e di far riflettere sui fenomeni di migrazione e di decolonizzazione. Ha anche allargato il concetto di “straniero” al significato originario che la parola ha in molte lingue, cioè “estraneo”: per questo ha esposto le opere di molti artisti queer, che non si riconoscono in un genere o che sconfinano tra un genere e l’altro; di artisti considerati outsider, o perché autodidatti o perché rimasti ai margini del sistema dell’arte; e di quelli indigeni, spesso trattati come stranieri nel loro stesso paese.
A partire da questi criteri, sono stati selezionati 331 artisti, poco noti anche nel mondo dell’arte e provenienti soprattutto da zone del mondo sottorappresentate, come l’Africa, il Sud America, l’Asia e il Medio Oriente. La maggior parte di loro, il 55 per cento, è morta (nessuna Biennale aveva mai raggiunto una percentuale così alta) e molti tra quelli ancora in vita non sono rappresentati da gallerie o non sono stati ospitati in musei importanti. Molti critici hanno notato la contraddizione di un’esposizione d’arte contemporanea fatta da persone che non sono più in vita, ma uno degli intenti di Pedrosa è ridefinire un nuovo canone artistico del Novecento, dando rilevanza e notorietà a personaggi dimenticati o rimasti immeritatamente ai margini.
L’esposizione è divisa in due parti: il “nucleo contemporaneo” ospitato all’Arsenale, con artisti queer, indigeni, outsider o popolari (nel senso di folk), e il “nucleo storico”, con opere del Novecento di artisti provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dall’Asia e dal mondo arabo e ospitato nel Padiglione Centrale, nei Giardini. Quest’ultimo, in particolare, è suddiviso in tre sezioni: “Ritratti”, che comprende soprattutto dipinti, lavori su carta e sculture tra il 1905 e il 1990; “Astrazioni”, con opere di artisti dalla Corea, da Singapore e di indigeni Maori; e l’ultima, “Italiani ovunque”, con 40 opere di autori italiani di prima o seconda generazione, tra cui Costantino Nivola ed Edoardo Villa, allestite nei cavalletti in vetro e cemento inventati dall’architetta italiana Lina Bo Bardi, che si trasferì a vivere in Brasile: il Financial Times l’ha definita «il momento più memorabile dell’Arsenale».
Sempre secondo il Financial Times, il nucleo storico è «piacevole, accessibile, coeso» mentre quello contemporaneo è più incostante: la sua parte migliore è «esuberante, e osa essere divertente» mentre la peggiore mette insieme lavori tessili che si richiamano all’artigianato locale e «nomi che portano diversity ma poco altro». In generale, l’autorevole rivista ha definito la Biennale di Pedrosa «così tradizionale da essere radicale»: ci sono poche installazioni, pochi film, manca quasi del tutto l’arte digitale e quella realizzata con l’intelligenza artificiale: «in questo secolo nessuna Biennale ha vantato una tale gamma di dipinti così sfacciatamente estasianti e sculture così armoniose e soddisfacenti da un punto di vista formale».
Le tematiche scelte da Pedrosa sono state riproposte anche da molti padiglioni nazionali e alcuni tra quelli occidentali sono stati affidati ad artisti indigeni o immigrati di seconda generazione, come per esempio quello statunitense con Jeffrey Gibson, artista nativo americano di origine Choctaw e Cherokee, e quello brasiliano con l’artista indigena Glicéria Tupinambá.
Tra i padiglioni più apprezzati dai critici ci sono quello del Regno Unito, curato dall’artista nato in Ghana John Akomfrah, che è diviso in sezioni chiamate “canti” dedicate alla storia coloniale britannica, e quello della Francia, dedicato al mondo creolo e caraibico dell’artista Julien Creuzet, nato e vissuto in Martinica fino ai 4 anni prima di trasferirsi nella periferia di Parigi.
La Polonia ospita nel suo padiglione due video del collettivo ucraino Open Group, che mostrano persone rifugiate dalla guerra mentre riproducono il suono di sirene d’allarme, proiettili ed esplosioni, mentre la Nigeria raccoglie una vasta rassegna dei suoi migliori artisti degli ultimi cent’anni. L’artista Vlatka Horvat ha curato il padiglione croato chiedendo a suoi connazionali espatriati di inviarle delle opere servendosi del passaggio di mano in mano, per riflettere sulla rete di sostegno improvvisata su cui si appoggia chi vive all’estero.
L’artista giapponese Yuko Mohri ha creato delle delicate sculture che generano musica utilizzando frutta marcescente, mentre la sudcoreana Koo Jeong A ha realizzato l’installazione “Odorama Cities”, con 16 profumi che riproducono gli odori delle città a partire dai ricordi di 600 persone intervistate.
Si è parlato molto anche del padiglione del Vaticano, per la sua originalità e per il suo messaggio sociale: è ambientato nella Casa di reclusione femminile alla Giudecca, che è tuttora un carcere, e per entrarci è necessario consegnare un documento di identità e il cellulare. Espone opere del collettivo Claire Fontaine, dipinti dell’artista francese Claire Tabouret e realizzati a partire da foto di donne detenute, oltre a un cortometraggio sul desiderio in carcere realizzato dal regista Marco Perego e dall’attrice e sua moglie Zoe Saldana. C’è anche un’opera di Maurizio Cattelan, uno dei più importanti artisti italiani che per la sua ultima Biennale, nel 2011, aveva realizzato un’installazione diffusa di piccioni tassidermizzati.
Resterà invece chiuso il padiglione di Israele, fino a quando non sarà raggiunto un accordo sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e sulla liberazione delle persone israeliane tenute in ostaggio da Hamas; la decisione era stata presa in settimana dall’artista che rappresenta Israele, Ruth Patir. La Biennale non ospita un padiglione della Palestina ma alcune opere alludono al conflitto, le trovate qui; la Russia non parteciperà per il terzo anno di fila, a causa della guerra contro l’Ucraina. Il leone d’oro alla carriera, infine, andrà all’artista brasiliana e italiana di nascita Anna Maria Maiolino e a Nil Yalter, artista turca residente a Parigi.