In Sicilia si producono sempre più frutti tropicali
I cambiamenti del clima hanno reso possibile e vantaggiosa la coltivazione di manghi e caffè, racconta un articolo del nuovo The Passenger
La Sicilia è associata agli agrumi ed è anche una delle regioni italiane note e apprezzate per i suoi vini, ma negli ultimi anni le coltivazioni di arance, limoni e uva sono state parzialmente sostituite da quelle di frutti tropicali, come manghi, avocado e papaye. Lo racconta un articolo di Giacomo Di Girolamo, giornalista e direttore della radio trapanese RMC 101, pubblicato nel nuovo numero della rivista-libro The Passenger, che è dedicato appunto alla Sicilia ed è uscito oggi in libreria. Pubblichiamo un estratto dell’articolo, accompagnato dalle fotografie di Roselena Ramistella.
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Una volta, dire Sicilia significava dire Mediterraneo. Clima fresco e ventilato d’estate, mite d’inverno, piogge abbondanti. Adesso, dire Sicilia significa quasi dire Tropici. Temperature che ogni anno superano le peggiori aspettative (a Floridia, in provincia di Siracusa, nel 2021, sono stati registrati 48,8 gradi, record finora imbattuto), tempeste di scirocco, siccità, alluvioni, umidità alle stelle. Nel 2023, per la prima volta i viticoltori della provincia di Trapani, la più «vitata» d’Italia (cioè quella che ha la più alta percentuale di territorio coltivato a vigneto, il 26 per cento) hanno dovuto interrompere la vendemmia. A causa dei nubifragi di giugno e della siccità di luglio, è rispuntata la peronospora, temibile fungo della vite che si credeva debellato. Risultato: il sessanta per cento di uva raccolta in meno. Una calamità. Che si aggiunge a un quadro già di per sé sconfortante, con il prezzo dell’uva da vino sceso anche a venti euro al quintale.
I contadini, i viddrani, sono famosi per le loro lamentele. Il mio vicino ha una piccola vigna, e anche lui si lamenta in continuazione. È stato settimane intere a disperarsi con me perché non pioveva. Poi c’è stato un forte acquazzone. Il giorno dopo, uscendo di casa, l’ho visto che si stava preparando per andare in vigna: «Ha visto come ha piovuto?» gli ho detto, salutandolo con entusiasmo. E lui: «Pioggia? Ma se erano quattro gocce…» Sì, si lamentano sempre i viddrani, ma in effetti, a sentire loro, l’elenco delle cose che non vanno è lunghissimo: dall’aumento dei costi dell’energia, alla contrazione dei consumi, fino alle cantine piene di vino invenduto. Fuori dal giro delle etichette glamour che vediamo alle fiere e negli eventi chic, c’è tutta una generazione di viticoltori che oggi è allo stremo e che, esasperata, abbandona la vite, e a volte anche la Sicilia.
È così che qualcuno avrà anche pensato di fare di necessità virtù. Se il clima è tropicale, lo siano anche le coltivazioni. E gli agrumi e le viti hanno lasciato posto agli alberi di avocado, mango, ai banani, anche al tabacco e al caffè.
A Balestrate, in particolare, sono ben 15 i produttori di mango, con dieci ettari di terreno coltivato. Il frutto matura in estate, è molto richiesto dal mercato e, solo nel 2022, ne sono stati rubati in quella zona diecimila chili. «Mille chili in una sola sera» raccontano i produttori, che si sono organizzati con le ronde notturne. «Tagliano le reti della recinzione, oppure scavalcano.» Ogni mango pesa mediamente mezzo chilo. In un’ora te ne porti via un centinaio. Il prodotto viene venduto a sei euro al chilo, ma nelle bancarelle del mercato nero lo trovi a due euro. In effetti, aggirandosi per i vicoli di Ballarò, il mercato storico di Palermo, non è raro vedere, agli angoli, seduti quasi in disparte, accanto ai venditori di sigarette di contrabbando (un grande ritorno dopo anni in cui erano scomparsi) e a quelli che vendono ricci di mare pescati di frodo e già pronti in improbabili bicchierini di plastica, anche dei venditori di mango di provenienza incerta.
A Balestrate il mango è una cosa seria. Tant’è che l’evento estivo del paese, non è la solita sagra, né la processione del santo, ma si chiama «Le vie del mango». Ogni anno richiama produttori da ogni parte della Sicilia per convegni e degustazioni di piatti a base di frutti tropicali. L’ultima novità è il panettone con i canditi fatti con il mango. In zona sono coltivati anche avocado, annona cherimola (o cirimoia), finger lime (che è chiamato anche «caviale di limone»).
Tra gli alberi, a due passi dal mare, capita di incontrare anche gruppi di turisti alle prese con una visita guidata, tra nuove varietà, assaggi e picnic tropicali. Infatti, parallelamente, sta nascendo anche un movimento analogo a quello del turismo del vino. Da un lato ci sono i wine lover che girano tra le cantine e i filari, dall’altro lato ci sono viaggiatori curiosi e vogliosi di fare un giro inedito della Sicilia, che parte da Balestrate, tocca le colline di Palermo, le montagne dei Nebrodi, e arriva fino all’Etna e alla Val di Noto. Tutto seguendo il percorso della frutta tropicale.
La tropicalizzazione del clima in Sicilia consente di ragionare su ciò che fino a qualche anno fa era impensabile. Come la coltivazione del caffè. Un sogno che qualcuno nell’isola accarezza da tempo.
Le prime piante di caffè cresciute in Sicilia sono quelle dell’Orto botanico di Palermo, giardino monumentale da dodicimila piante. Gli albori risalgono a più di un secolo fa, quando il cambiamento climatico non era esattamente all’ordine del giorno. Nel 1912, sul Bullettino della Real società toscana di orticultura, compare una nota di un eminente studioso del tempo, Vincenzo Riccobono, che pubblicò uno studio dal titolo: «Esperimenti sulla possibilità di coltivare il caffè in Sicilia». Come era andata? Erano state collocate in vaso 25 piante di Arabica. Andò benino i primi tre anni, il quarto ci fu un inverno un po’ più rigido del solito a Palermo. E le piante morirono «con l’estremità dei rami totalmente bruciate dal freddo».
Più di un secolo dopo, gli inverni rigidi sono solo un ricordo, e c’è chi ci riprova, come la famiglia Morettino, che ha legato il suo nome al caffè da quattro generazioni. Arturo Morettino prima, e oggi il figlio Andrea, hanno fatto le prime prove nella borgata palermitana di San Lorenzo Colli. Secondo i loro calcoli, si tratta della piantagione di caffè più a nord del pianeta. Anche in questo caso, si è andati avanti per tentativi, partendo proprio dai semi superstiti delle piante dell’Orto botanico.
E per i cento anni dell’azienda hanno prodotto il loro primo caffè sperimentale, ottenuto da una decina di coraggiose piante che, normalmente, vivono solo nella fascia del pianeta compresa tra il Tropico del Cancro e quello del Capricorno, la cosiddetta coffee belt. Le bacche hanno un colore diverso, a seconda dell’esposizione al sole. La raccolta avviene a mano.
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