I jeans vintage sono davvero migliori?

Sono sicuramente molto diversi da quelli che si vendono oggi e si capisce anche solo toccandoli: più spessi e resistenti, ma anche rigidi e scomodi

di Valeria Sforzini

Dal film “Thelma & Louise”.
Dal film “Thelma & Louise”.

La ricerca del “jeans perfetto” è un argomento diventato ricorrente tra chi parla di moda online, e viene spesso raccontato come un lavoro senza fine. Tra gli esperti e appassionati questo si traduce in molti casi nella ricerca di jeans vintage, quindi usati o comunque prodotti almeno una trentina di anni fa. C’entra in parte il generale aumento della compravendita di abiti di seconda mano, legato a un approccio alla moda più consapevole adottato soprattutto dalle generazioni più giovani e più sensibili ai temi della sostenibilità ambientale. Ma non c’è solo questo.

I jeans “di una volta” sono effettivamente diversi da quelli prodotti ora e molti sostengono che cadano meglio addosso, siano più resistenti, si sformino meno e sembrino di maggiore qualità. La differenza si nota toccandoli ma soprattutto indossandoli: quelli prodotti fino a qualche decennio fa, vintage, sono generalmente più spessi, ruvidi e rigidi rispetto ai modelli nuovi, che invece sono più sottili ed elastici.

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Secondo i fanatici del “jeans perfetto”, questo non deve essere necessariamente comodo, e anzi spesso non lo è. Molti dei jeans che vengono prodotti e venduti oggi contengono elastan, una fibra sintetica che li rende più elastici e più aderenti al corpo. Per quanto abbia una funzione importante, che è quella di rendere il pantalone più confortevole da indossare, spesso la componente di elastan è il motivo per cui i jeans che lo contengono si sformano dopo un po’ di tempo che li si indossa, cosa che non sempre piace a chi li ha comprati dopo averli scelti proprio per il modo in cui calzavano. Questo avviene ancora più facilmente quando si acquistano jeans nelle catene di fast fashion, che sono solitamente fatti con cotone più economico e di qualità più bassa.

Tra le aziende più conosciute e ricercate per i modelli vintage, quindi prodotti fino agli anni Novanta, ci sono Levi’s, che iniziò la produzione nel 1873, Lee, Roy Roger’s e Wrangler. Queste aziende ci sono ancora e con la moda dei jeans vintage hanno attirato un rinnovato interesse generale. Spesso producono modelli identici o molto simili a quelli che facevano in quegli anni, ma l’impressione è che le repliche contemporanee siano diverse da quelle storiche, anche quando i jeans prodotti oggi sono fatti al cento percento di cotone.

La sensazione al tatto della tela è diversa e la ragione principale è che c’è una differenza di spessore, spiega Simon Giuliani, direttore marketing di Candiani Denim, una delle più grandi aziende al mondo di denim (il tessuto con cui sono fatti i jeans). La sua azienda produce tessuti di ogni tipo, da quello fatto usando i telai a navetta, con cui venivano inizialmente prodotti i jeans, fino a quello compostabile. «Oggi un jeans è mediamente di 10-12 once [l’unità di misura dello spessore dei tessuti, ndr] mentre i jeans vintage sono generalmente di circa 14 once».

Secondo Giuliani, questo dipende in parte dall’uso diverso che un tempo veniva fatto dei jeans, che nascono come indumento da lavoro e che quindi dovevano essere molto resistenti e durare a lungo. Non è un caso che il simbolo dei Levi’s siano due cavalli che tirano un paio di jeans uno da una parte e uno dall’altra, proprio per dimostrarne la resistenza. C’entra però anche il generale aumento delle temperature, per cui non serve che lo spessore dei pantaloni sia eccessivo, anzi: «la tela si fa più sottile nelle zone in cui fa più caldo», continua Giuliani.

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Lo spessore è ancora associato a maggiore qualità, anche perché contiene più materia prima, più cotone: significa che è costato di più. Oggi ci sono ancora dei marchi che creano jeans molto spessi, ma si tratta principalmente di piccole aziende che si rivolgono a un pubblico molto specifico fatto di appassionati ed esperti.

Un ruolo importante ce l’ha anche il modo in cui i jeans venivano prodotti. I primi, quelli fatti alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, oggi sono detti «raw jeans», o anche “crudi”, perché non venivano lavati industrialmente né trattati, cosa che li manteneva molto più scuri e rigidi. Oggi invece i vari trattamenti come quelli di schiaritura della tela che vengono fatti sul capo contribuiscono a renderli più morbidi.

I “raw” vengono ancora prodotti, ma essendo generalmente scomodi sono acquistati e usati principalmente dai veri appassionati. Fino a poco tempo fa erano un prodotto simbolo degli Stati Uniti che però oggi hanno ridotto drasticamente la produzione di denim; adesso i produttori considerati migliori e più raffinati sono i giapponesi, che hanno ripreso le tecniche statunitensi più vecchie e artigianali come il “selvedge denim” o cimosato, che oggi è considerato il più pregiato.

 

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«Il jeans autentico è quello precedente agli anni ’60, che veniva prodotto con la tecnica di filatura “ring”», continua Giuliani, tecnica che rendeva la tela molto resistente, ma anche molto irregolare. Dopo gli anni ’60, quando la domanda per i jeans aumentò, venne introdotta una nuova tecnica: la filatura “open end”, che permetteva di produrre il tessuto più velocemente e di avere una tela più spessa, meno irregolare, ma anche meno resistente rispetto ai tessuti con filati ring. «I Levi’s degli anni ’70 e ’80 sono fatti così, sono spessi 14 once e hanno quell’effetto “sale e pepe” (con striature bianche e blu, ndr) tipico dell’epoca», continua.

Negli anni ’80 Candiani fu la prima azienda a rendere i jeans elastici, in corrispondenza con la loro definitiva trasformazione da capo da lavoro a capo per la vita di tutti i giorni e di moda. Alcuni stilisti li introdussero nelle loro collezioni e li modificarono per assecondare nuove tendenze. Con l’aumento dei marchi di fast fashion negli ultimi dieci o quindici anni i jeans elasticizzati sono diventati molto diffusi e se ne trovano di tutti i tipi, a qualsiasi prezzo. Anche questo secondo Giuliani ha contribuito a un ritorno ai capi vintage. «Soffriamo di questa saturazione di mercato», spiega. «Il consumatore si chiede quale debba comprare. Il capo vintage lega invece all’immaginario di un’era, contrasta l’appiattimento generale».

I jeans più morbidi prodotti oggi comunque non sono tutti di scarsa qualità e non sono tutti uguali. C’è molta più varietà di modelli e di colori, innanzitutto, e rispetto al passato viene fatta molta più ricerca sui materiali e sulle tecnologie dei tessuti, anche per rispondere alle nuove esigenze di chi li compra.

Anche se sempre più persone comprano e vendono jeans vintage online, è sempre meglio provarli. I dettagli a cui prestare attenzione sono tanti e sui social ci sono moltissimi profili specializzati che spiegano come sceglierli. Dopo quella che chi lavora nel settore chiama “hand-feel sensation”, ovvero la sensazione al tatto, l’etichetta è la cosa più importante da guardare.

 

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Sophia Lippi, conosciuta su Instagram con il profilo @sophiacolpiacca, ha aperto nel 2019 un negozio di vestiti vintage e di seconda mano a Lucca, “Fat Mama Vintage”, specializzato nella vendita di jeans. Nel 2020, durante la pandemia, ha iniziato a fare delle dirette e a pubblicare video sui social nei quali spiegava come riconoscere i vari modelli e come capire se fossero di qualità. Ha imparato a conoscere i jeans da quando era piccola perché, racconta, sua nonna aveva un negozio di jeans a Viareggio. Qualche anno fa ha scoperto che aveva conservato tutti i cataloghi che le aziende produttrici le mandavano, con i dettagli di ogni modello.

Quando sceglie un jeans da comprare e rivendere in negozio la prima cosa che fa è toccarlo ma dice che lo spessore, anche se per gli appassionati è un sinonimo di qualità, non è l’unico criterio che conta e non deve essere eccessivo. «Scelgo quello che so che i miei clienti apprezzerebbero e che indosserebbero effettivamente. Se un cliente è abituato a usare jeans da fast fashion non indosserà mai un paio di jeans anni ’70 che magari non sono mai stati portati, perché sono troppo rigidi», continua. «Preferisco selezionare un paio di jeans anni ’90, che sono generalmente più morbidi». La seconda cosa che fa è leggere l’etichetta: «Guardo la composizione. I jeans devono essere in cento per cento cotone, altrimenti tendo a non selezionarli». Ma oltre a quello controlla anche dove sono stati prodotti: «Negli ultimi trent’anni anche la manodopera è cambiata. Oggi nella maggior parte dei casi la produzione viene fatta in Cina, in Cambogia e in Vietnam. Sulle etichette vintage si trova invece spesso “Made in France”, ”Made in Malta”, “Made in USA”. Gli standard qualitativi erano più alti, anche a livello di macchinari», continua Lippi.

Infine, dice, «il jeans vintage va provato perché le taglie non corrispondono a quelle attuali»: solitamente col vintage bisogna abbondare un po’ e tener presente che le misure cambiano a seconda del modello, dell’anno in cui sono stati fatti e dell’azienda che li ha prodotti. Per questo motivo su siti come Vinted o eBay i rivenditori forniscono spesso le misure in centimetri dei jeans che hanno nelle loro “vetrine” e in quel caso è sufficiente misurare un paio dei propri pantaloni, assicurandosi che siano simili a quelli che si sta comprando, ovvero non elasticizzati, altrimenti le misure cambiano di nuovo.

In alternativa ci sono alcuni accorgimenti che si possono seguire, come acquistare una o due taglie in più rispetto alla propria. Il grosso problema è la durezza del capo, che se non è elasticizzato e non è della taglia giusta diventa veramente scomodo o comunque non indossabile. Per questo sbagliare sul girovita, sui fianchi o sulla larghezza delle gambe è più grave che non sulla lunghezza, che può sempre essere accorciata.