Per musicisti e band non americane suonare negli Stati Uniti è diventato molto più costoso
Il prezzo dei visti necessari per fare un tour statunitense è aumentato del 250%, ed è un problema soprattutto per i gruppi emergenti
Lo scorso primo aprile l’USCIS (United States Citizenship and Immigration Services), l’agenzia federale statunitense che si occupa di gestire il sistema di naturalizzazione e immigrazione del paese, ha aumentato del 250 per cento il costo dei visti che musicisti e band devono ottenere per potere andare in tournée negli Stati Uniti. La decisione avrà delle conseguenze piuttosto concrete sulla vita lavorativa di migliaia di musicisti e gruppi emergenti non americani, che a causa delle spese insostenibili rischiano di rimanere esclusi da un mercato enorme e fondamentale come quello degli Stati Uniti, il primo paese al mondo per il settore dei concerti.
I visti che musicisti e gruppi possono richiedere per ottenere il permesso di suonare negli Stati Uniti sono due: il “P-3” e l’“O-1B”. Il primo consente di rimanere negli Stati Uniti per motivi professionali (e quindi soprattutto nel caso dei concerti) per un periodo di tempo non superiore a un anno, mentre il secondo può essere ottenuto da chi dimostri di avere delle «capacità straordinarie» nel campo delle arti (come per l’appunto la musica) e ha una durata massima di tre anni.
Fino a marzo il costo di questi visti era di 460 dollari, ma con l’aumento deciso dall’USCIS è salito rispettivamente a 1.615 dollari (per il P-3) e 1.655 (per l’O-1B). Concretamente significa che, per ottenere un visto P-3, quello più diffuso, oggi una band con una formazione standard di quattro membri (chitarra, basso, batteria e voce) deve pagare 6.460 dollari: fino a un mese fa ne pagava 1.840.
Gareth Paisey, cantante della band indie rock gallese Los Campesinos!, ha detto ad Associated Press che per organizzare la prossima tournée estiva del gruppo negli Stati Uniti, che inizierà a giugno, ha dovuto muoversi con largo anticipo: si è assicurato di ottenere i visti per tutti e sette i componenti della band prima del primo aprile, pagando così una cifra complessiva di 3.220 dollari (se li avesse ottenuti dopo quella data, il costo sarebbe salito a 11.305 dollari). Paisey ha anche detto che, la prossima volta che il gruppo dovrà ottenere un visto per gli Stati Uniti, cercherà di organizzare un tour più lungo e con molte più date, assicurandosi così di poter coprire i costi.
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Oltre ai costi, un altro problema che i musicisti devono risolvere per potere ottenere un visto è l’estrema meticolosità della burocrazia statunitense. Paisey ha raccontato che il processo di candidatura richiede di presentare una documentazione imponente, che tra le altre cose comprende un itinerario degli spostamenti della band e una serie di “prove supplementari”, come estratti di articoli di giornale, necessari per dimostrare alle autorità che esaminano le domande di visto lo status di “musicisti in carriera”, e le raccomandazioni scritte di persone ritenute degne di nota, come produttori discografici e musicisti più famosi. «Non è giusto aspettarsi che le persone capaci di scrivere canzoni siano altrettanto capaci di compilare una domanda di visto di 20 pagine», ha detto Paisey commentando la farraginosità delle procedure burocratiche dell’USCIS.
Gabriel Castro, un avvocato statunitense specializzato in visti per musicisti, attori e sportivi, ha detto che l’USCIS sta rendendo le procedure sempre più onerose e di difficile interpretazione: fino a vent’anni fa le domande per presentare un visto erano lunghe tre pagine, ora possono anche superarne venti. Castro ha raccontato che la parte più faticosa del suo lavoro è quella relativa ai documenti che l’USCIS richiede di allegare per dimostrare la fondatezza delle ragioni del visto. «Sto presentando faldoni di 200, 300 pagine solo per spiegare perché questa band dovrebbe viaggiare in tutti gli Stati Uniti», ha detto.
Castro considera la misura iniqua anche per un altro motivo, ossia il fatto che gli Stati Uniti rappresentano un caso quasi unico per quanto riguarda le leggi relative ai visti: i musicisti statunitensi possono infatti entrare nella maggior parte dei paesi senza richiedere un visto, sfruttando alcune deroghe alle leggi sul turismo. Secondo Castro, l’atteggiamento dell’USCIS ha iniziato a cambiare nel 2016, con l’inizio del mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, un evento che a suo dire «ha cambiato la cultura delle agenzie per l’immigrazione», rendendo le procedure più stringenti e onerose.
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Jeb Jacobsen, direttore dell’associazione non profit Artist Rights Alliance, ha detto che la decisione dell’USCIS avrà un impatto negativo anche sulle persone che vengono coinvolte indirettamente nei tour delle band provenienti dall’estero, come turnisti (musicisti che vengono assunti per suonare durante un tour), autisti e proprietari di locali. Secondo Jacobsen i problemi riguarderanno anche gli organizzatori di quei festival caratterizzati da una proposta più internazionale e rivolta a un pubblico di nicchia, che avranno molta più difficoltà a contattare musicisti e gruppi provenienti dall’estero.
Un altro rischio, sottolineato sia da Castro che da Jacobsen, è quello di trasformare le tournée negli Stati Uniti in un lusso riservato a quei pochi musicisti e gruppi stranieri che possono permettersi di pagare le spese dei visti senza troppi problemi, ossia quelli più famosi e con una carriera consolidata, come Dua Lipa e i Rolling Stones.
L’USCIS aveva proposto di aumentare il prezzo dei visti già all’inizio del 2023, giustificando la misura con la necessità di assumere nuovo personale e smaltire la grossa quantità di domande non ancora esaminate. Dopo che la notizia era diventata di pubblico dominio, diverse associazioni che si occupano di tutelare gli interessi dei lavoratori dell’intrattenimento avevano sottolineato che una decisione del genere avrebbe reso ancora più precaria l’attività lavorativa dei musicisti, che per il loro sostentamento fanno ormai grande affidamento sui concerti. In seguito all’espansione delle piattaforme e al conseguente crollo delle vendite dei supporti fisici e della musica digitale, esibirsi dal vivo è diventata la principale fonte di guadagno: gli streaming, infatti, assicurano agli artisti una frazione di centesimo di euro di guadagno a ogni ascolto, e non hanno compensato nemmeno lontanamente quello che in precedenza si guadagnava dalla vendita dei dischi.
È accaduto soprattutto nel Regno Unito, un paese in cui questi temi sono più sentiti che altrove, anche perché le tournée oltreoceano rappresentano la normalità per migliaia di musicisti. Nel febbraio dello scorso anno Annabella Coldrick, direttrice della Music Managers Forum (MMF), l’associazione britannica che rappresenta i manager musicali, aveva detto al Guardian che l’84 per cento dei suoi assistiti aveva organizzato delle tournée negli Stati Uniti per l’anno successivo: il 70 per cento di questi aveva dichiarato che, con l’aumento delle tariffe, non avrebbe potuto permetterselo.