Un anno di guerra in Sudan
Se ne parla poco per la scarsa attenzione di media, opinione pubblica e governi, ma gli scontri tra l'esercito regolare e un gruppo paramilitare hanno già causato almeno 14mila morti e una grave crisi umanitaria
Il 15 aprile del 2023, un anno fa, l’esercito regolare del Sudan e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces iniziarono a scontrarsi nella capitale Khartoum. Negli ultimi dodici mesi quei combattimenti si sono trasformati in una sanguinosa guerra civile che coinvolge gran parte del territorio del Sudan, il terzo paese più grande del continente africano e uno dei più poveri al mondo. Secondo diverse stime, tra cui quella della ong International Rescue Committee, lo scontro militare fra le due fazioni ha causato almeno 14.700 morti, 30mila feriti e più di 8 milioni di sfollati.
Oggi in Sudan è in corso uno dei «peggiori disastri umanitari della storia recente», secondo una definizione dell’ONU. La guerra e la conseguente crisi stanno però faticando a ottenere attenzioni internazionali e quindi fondi per i necessari aiuti umanitari, tra le altre cose a causa di altre due guerre su cui l’attenzione è molto maggiore, quella in Ucraina e quella nella Striscia di Gaza.
In occasione del primo anniversario dell’inizio della guerra in Sudan, lunedì è iniziata a Parigi una conferenza internazionale organizzata da Francia, Germania e Unione Europea con l’obiettivo di accordarsi su una risposta internazionale: alla conferenza però non parteciperanno le fazioni sudanesi in guerra.
La guerra in Sudan iniziò nell’aprile 2023 dopo una lunga fase di tensioni politiche fra due generali, Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti. Allora i due guidavano una giunta militare, il Consiglio Sovrano, che governava il paese dall’ottobre del 2021, dopo aver preso il potere con un colpo di stato: Burhan era presidente, Hemedti era il suo vice. Nel dicembre 2022, su pressione internazionale, i due generali acconsentirono ad iniziare una transizione democratica, ma sul come farlo non ci fu accordo e nacquero le prime forti divisioni. A provocare la rottura dei rapporti fu in particolare la decisione di Burhan di integrare nell’esercito sudanese le Rapid Support Forces (RSF) guidate da Hemedti: questa scelta fu osteggiata molto duramente proprio dallo stesso Hemedti.
Il gruppo paramilitare RSF conta circa 100mila uomini ed è un diretto discendente dei Janjawid, un gruppo di miliziani arabi di etnia baggara che durante la guerra nel Darfur del 2003 si resero responsabili di vari crimini di guerra, e secondo molte interpretazioni anche di genocidio.
Il 15 aprile del 2023, di fronte al possibile scioglimento delle RSF, Hemedti iniziò le prime operazioni militari contro l’esercito regolare sudanese. Già allora il gruppo poteva contare sul sostegno degli Emirati Arabi Uniti e aveva rapporti stretti e costanti con il gruppo Wagner, la compagnia di mercenari russi che tentò una marcia verso Mosca il 24 giugno dello scorso anno e che ancora oggi può contare su un’importante presenza in diversi paesi africani.
L’esercito regolare ha invece circa 300mila uomini, è sostenuto dall’Egitto e ha il vantaggio militare di avere a disposizione l’aviazione. Gli aerei da guerra stanno bombardando da mesi le zone controllate dalle RSF, causando molti morti anche fra la popolazione civile.
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Dopo una fase iniziale in cui furono organizzate tregue temporanee per permettere ai civili di abbandonare le zone degli scontri (tregue per lo più violate), la guerra fra le due fazioni è diventata più violenta e generalizzata, con maggiore intensità nella regione di Khartoum, la capitale, in quella centrale del Kordofan e in quella occidentale del Darfur. Sono le zone in cui le RSF hanno preso inizialmente il controllo, ottenendo importanti successi militari.
L’esito militare della guerra è tuttora molto incerto e la situazione fluida: non è chiaramente distinguibile una linea del fronte, né si può davvero indicare se esercito regolare e RSF siano vicini a una vittoria o a una sconfitta finale. Le violenze rischiano insomma di durare ancora a lungo.
È una guerra che colpisce in modo molto grave la popolazione civile e non solo per i bombardamenti indiscriminati. Sin dai primi giorni di scontri, i due eserciti hanno depredato le case di molti civili, portando via ogni bene di un qualsiasi valore: non solo auto, carburante, soldi e cibo, ma anche porte e finestre, secondo molte testimonianze. Ci sono stati molti casi di uccisioni su base etnica, soprattutto nella regione del Darfur, e di stupri e crimini sessuali nei confronti di donne e ragazze. Con ogni probabilità anche il numero di circa 15mila morti è largamente sottostimato: l’ONU ritiene che solo nella zona di Geneina, in Darfur, i morti potrebbero essere migliaia.
Le scuole sono chiuse da un anno e meno di un terzo degli ospedali del Sudan è ancora attivo: le strutture funzionanti si occupano principalmente di curare i feriti di guerra. Diciotto milioni di persone rischiano la fame, per lo più in zone in cui non arrivano gli aiuti internazionali; i blackout elettrici e le interruzioni della rete internet sono frequenti, e l’accesso a medicine e beni di prima necessità è complesso quasi ovunque.
Questa situazione ha dato origine a un enorme numero di sfollati, più di otto milioni: di questi circa sei hanno cercato riparo in zone del Sudan meno colpite dagli scontri, quasi 2 milioni sono emigrati all’estero, principalmente verso Ciad, Egitto e Sud Sudan. L’ONU ha definito un piano di aiuti umanitari da 2,7 miliardi di dollari, ma al momento solo il 6 per cento di quella somma è finanziato.
Per il Sudan si è parlato spesso in questi mesi di «guerra dimenticata» per lo scarso interesse dimostrato dell’opinione pubblica, dei media e dei governi internazionali. La crisi è stata poco raccontata sia perché le attenzioni erano concentrate soprattutto sulle guerre in Ucraina e nella Striscia di Gaza, sia per la grande difficoltà di raggiungere le zone degli scontri in Sudan: esercito regolare e RSF si sono mostrate in questi mesi particolarmente ostili ai giornalisti.
I generali al Burhan e Hemedti sono stati finora anche poco disponibili ad ascoltare le pressioni internazionali per una soluzione diplomatica della guerra. Gli ultimi negoziati ufficiali, a Gedda (Arabia Saudita), sono falliti alcuni mesi fa. Nei prossimi giorni dovrebbero riprendere proprio nella città saudita, ma al momento con poche speranze di una svolta positiva.