La direttiva europea sulle “case green”, spiegata bene
È stata approvata venerdì, e serve più che altro a migliorare l'efficienza energetica delle case che “green” non sono, pur tra molte incognite sui costi
Venerdì 12 aprile l’ECOFIN, cioè il Consiglio dei ministri europei dell’Economia e delle Finanze, ha approvato in via definitiva la direttiva sulla prestazione energetica degli immobili (Energy Performance of Buildings Directive, EPBD): hanno votato a favore 20 dei 27 Stati membri, una maggioranza più che sufficiente: l’Italia ha votato contro, insieme all’Ungheria; si sono invece astenute la Croazia, la Svezia, la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Polonia. La decisione dell’ECOFIN ha rappresentato l’ultimo e decisivo passaggio per l’approvazione di quella che in Italia è nota come “direttiva sulle case green”, e che ha origine in realtà da una proposta fatta dalla Commissione Europea nel dicembre del 2021, poi discussa e modificata in maniera significativa dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo.
L’obiettivo principale della direttiva, che si inserisce nel contesto del grande piano europeo per la transizione energetica chiamato Green Deal, è ridurre in maniera sostanziale il consumo energetico e le emissioni di gas inquinanti di case e palazzi entro il 2035, per poi puntare alla realizzazione di immobili che non producano emissioni inquinanti entro il 2050. Per fare questo è stato aggiornato l’insieme di norme europee del settore, definito nel 2018. La direttiva, nella sua parte più rilevante, prevede dunque una distinzione nel trattamento degli edifici residenziali, quelli dove la gente vive, e quelli non residenziali, cioè quelli destinati agli uffici o alle attività commerciali.
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Per quanto riguarda gli edifici residenziali, ogni Stato membro dell’Unione Europea dovrà impegnarsi a ridurre nel complesso il consumo medio di energia del 16 per cento entro il 2030, e di almeno il 20 per cento entro il 2035. Ipotizzando dunque che il consumo medio di tutti gli edifici residenziali italiani sia di 100 kilowattora per metro quadrato all’anno, entro il 2030 questo consumo dovrà scendere ad almeno 84 kilowattora, ed entro il 2035 dovrà ridursi ancora fino a 80 kilowattora. Questo risparmio energetico dovrà essere assicurato per almeno il 55 per cento dalla diminuzione del consumo medio di energia di almeno il 43 per cento delle case con le prestazioni energetiche peggiori, tra le quali vanno considerate anche quelle danneggiate da terremoti o altre calamità naturali. A queste abitazioni andranno dedicati dunque gli interventi di ristrutturazione più rilevanti.
Quanto agli edifici non residenziali, la direttiva prevede che entro il 2030 ne venga ristrutturato il 16 per cento, ed entro il 2033 il 26 per cento: questi interventi dovranno garantire che gli immobili ristrutturati rispettino nuove norme minime di prestazioni energetiche che andranno nel frattempo introdotte, e dunque in sostanza dovranno migliorare la categoria energetica con cui vengono classificati.
Se queste sono le norme relative agli edifici già esistenti, per quelli di nuova costruzione, sia residenziali sia non residenziali, la direttiva prevede che debbano essere a “emissioni zero” a partire dal primo gennaio 2028 per gli edifici di proprietà pubblica, e dal primo gennaio 2030 per quelli privati. Con edificio a emissioni zero la direttiva intende in realtà un edificio ad altissima prestazione energetica, che consuma una quantità di energia molto bassa interamente assicurata da fonti rinnovabili, presenti nell’edificio stesso o nel quartiere o nel vicinato.
Ci sono poi tutta una serie di esenzioni e di deroghe possibili per gli edifici di proprietà delle Forze Armate; per edifici che hanno funzione di luoghi di culto; per i fabbricati temporanei utilizzabili per non più di due anni; per i fabbricati la cui superficie utile sia inferiore ai 50 metri quadrati; per le seconde case utilizzate per meno di quattro mesi all’anno, o che hanno comunque un consumo energetico molto basso, non superiore al 25 per cento di quello che risulterebbe dall’utilizzo costante dell’immobile durante l’intero anno.
La direttiva europea non introduce obblighi per i singoli proprietari di case, né impone ai governi di adottare specifiche misure. Ciascuno Stato membro avrà ampia libertà nel definire le proprie politiche pubbliche necessarie per raggiungere gli obiettivi.
Questo aspetto è una delle modifiche più rilevanti introdotte dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo nel corso dell’esame della proposta della Commissione, che nella sua versione iniziale prevedeva obblighi più stringenti. In particolare, stabiliva che tutti gli edifici pubblici e non residenziali dovessero essere ristrutturati in maniera tale da potere essere migliorati almeno fino alla classe di prestazione energetica F entro il primo gennaio 2027, e almeno fino alla classe E entro il primo gennaio 2030, mentre gli edifici residenziali avrebbero dovuto ottenere almeno la certificazione di classe F entro il 2030 e di classe E entro il 2033.
Le categorie energetiche vengono definite in base a una classifica che va dalle case più efficienti (classe A, con un consumo di non oltre i 30 kilowattora annui per metro quadrato) a quelle meno efficienti (classe G, oltre i 160 kilowattora annui per metro quadrato). In Italia la stragrande maggioranza degli edifici ha bassissima efficienza energetica. Secondo le rilevazioni dell’ENEA (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie e l’energia sostenibile), per gli immobili che hanno ottenuto un APE, cioè un attestato di prestazione energetica con cui i periti ne valutano l’efficienza, quasi il 30 per cento è in classe G, cioè nella peggiore, e oltre il 22 per cento in classe F. Si tratta, nel complesso, di poco meno di 3 milioni di immobili certificati. Nel dicembre del 2021, il Corriere della Sera provò a capire quale fosse la situazione complessiva degli immobili in Italia, comprendendo anche quelli che non hanno un APE, che costituiscono la maggioranza: secondo questa stima gli edifici in classe F e G sarebbero circa 7,5 milioni, poco più del 60 per cento del totale.
Questi dati, e la conseguente prospettiva di dover finanziare la ristrutturazione di almeno 3 milioni di immobili, avevano indotto il governo italiano a criticare la proposta della Commissione Europea, che dopo un primo esame da parte del Parlamento è stata poi cambiata significativamente privandola di ogni riferimento diretto alle classi di efficienza energetica. Le perplessità dei partiti di destra che sostengono il governo di Giorgia Meloni si sono poi unite ad alcune polemiche legate anche alla campagna elettorale in vista delle elezioni europee di giugno.
Il 12 marzo, quando il Parlamento Europeo ha approvato il testo definitivo della direttiva con un voto a larga maggioranza (370 favorevoli, 199 contrari e 46 astenuti) poi confermato dall’ECOFIN, sia Lega che Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno votato contro, mostrando però alcune incoerenze. Forza Italia ha infatti votato in dissenso rispetto al partito europeo di cui fa parte, il Partito Popolare Europeo, che ha invece in larga parte giudicato positivamente il testo finale. La Lega ha votato contro nonostante una sua eurodeputata, Isabella Tovaglieri, fosse stata coinvolta nei negoziati per la modifica della direttiva e nel dicembre scorso avesse esultato per il compromesso raggiunto, definendolo «un successo contro gli obiettivi ideologici della sinistra».
Quanto alle opposizioni, Azione di Carlo Calenda ha votato contro la direttiva, in contrasto rispetto al gruppo dei liberali Renew di cui fa parte. Il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e Italia Viva hanno votato a favore, così come la grande maggioranza del gruppo dei Socialisti, dei Verdi e della Sinistra.
Venerdì il governo italiano, rappresentato all’ECOFIN dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ha confermato la sua contrarietà votando contro la versione definitiva, unico paese a farlo insieme all’Ungheria. Giorgetti ha motivato questa decisione sulla base delle incognite legate al finanziamento delle misure di ristrutturazione da fare. Ha definito in maniera un po’ ironica la direttiva «bellissima» e «ambiziosa», ma si è poi chiesto: «Chi paga?». «È giusto immaginare di rifare tutte le case “green”, ma ribadisco: chi paga? Le famiglie? Gli Stati? L’Europa? Non lo so».
In effetti non c’è ancora chiarezza sulle spese che dovranno essere sostenute per realizzare gli interventi di ristrutturazione, né come saranno finanziate nel dettaglio. Ci sono varie stime e previsioni, ma tutte piuttosto aleatorie e anche notevolmente discordanti l’una dall’altra. È verosimile che per l’Italia si tratterà di una spesa di alcune centinaia di miliardi, che potranno essere coperti almeno in parte con fondi europei.
In seguito alla proposta del dicembre del 2021, la Commissione Europea aveva elaborato un’analisi d’impatto economico della direttiva. Aveva calcolato che circa 30 milioni di immobili avrebbero dovuto essere oggetto di ristrutturazioni per passare dalla classe G alla F, e aveva previsto uno stanziamento non superiore ai 150 miliardi di euro di fondi europei entro il 2030. Erano derivanti da varie fonti: i Fondi di sviluppo e coesione destinati alle regioni più arretrate economicamente, che spesso gli Stati membri non riescono a spendere fino in fondo (un problema particolarmente concreto per l’Italia); i fondi del Recovery Plan e del RePowerEU, cioè il grande piano di riforme e investimenti lanciato dall’Unione nel 2020 dopo la pandemia; vari altri fondi ricompresi nel piano europeo del Green Deal. Inoltre, la Commissione prevedeva di utilizzare dal Fondo sociale per il clima, pensato proprio per mitigare l’impatto di questi piani di transizione ecologica sulle persone meno ricche, 72 miliardi tra il 2025 e il 2032 per aiutare i proprietari di case con prestazioni energetiche particolarmente basse.
Tutto ciò riguardava, però, la proposta di direttiva iniziale della Commissione. Dopo le modifiche apportate dal Parlamento e dal Consiglio Europeo, non è detto che il piano di spesa resti lo stesso. Per sapere il concreto impatto finanziario della direttiva bisognerà quindi attendere di conoscere i dettagli, ed è verosimile che a definirli sarà la prossima Commissione Europea che si insedierà in autunno, dopo le elezioni europee di giugno.