Anche il linguaggio dei videogiochi ha le sue “frasi fatte”
Barili esplosivi e polli arrosto sono alcuni elementi che esistono da decenni e svolgono una funzione chiara a tutti, ma ci sono luoghi comuni più controversi
di Alessandro Zampini
Lo scorso febbraio è uscito Final Fantasy VII Rebirth dell’editore giapponese Square Enix, seconda parte di una trilogia che ammoderna e amplia Final Fantasy VII, videogioco amatissimo uscito la prima volta nel 1997 su PlayStation. Creare nuovi giochi partendo da opere già pubblicate e apprezzate è una tendenza ormai consolidata, e da questo punto di vista Final Fantasy VII Rebirth è un esempio perfetto: il gioco infatti utilizza in maniera fedele l’universo, i personaggi e anche la storia dell’originale, ma li contestualizza in un sistema tecnologico e ludico moderno, in modo che possa essere apprezzato anche da chi ha iniziato a giocare più tardi o non ha mai giocato all’originale. Questo aspetto dell’operazione è stato quello più riuscito: la critica e il pubblico hanno molto apprezzato il modo in cui Square Enix è riuscita a trasformare un gioco dalle meccaniche estremamente datate (l’originale aveva un combattimento a turni e schermate diverse per ogni momento di gioco) in qualcosa di moderno e godibile per tutti, rendendo così il gioco attuale.
Nonostante questo, a ridosso dell’uscita si è sviluppata una piccola ma significativa polemica intorno a uno specifico elemento di design: la vernice gialla, un elemento spesso usato nei giochi a mondo aperto, o in quelli in cui c’è una forte componente esplorativa, come indicazione visiva per le pareti su cui ci si può arrampicare o per le scale che si possono percorrere. Questo tipo di segnalazione è relativamente recente e si è diffusa negli ultimi anni in risposta alla grafica sempre più realistica e alle ambientazioni ricche di oggetti e dettagli, che hanno spinto gli sviluppatori a guidare maggiormente il giocatore verso i punti di interesse, in maniera non tanto dissimile da quello che fanno i registi dei film quando scelgono di inquadrare con insistenza oggetti o personaggi in modo che lo spettatore li noti.
La ricerca di un linguaggio comune tra chi sviluppa un videogioco e chi lo gioca esiste da sempre, e la vernice gialla è solo una delle ultime espressioni entrate a far parte di questo linguaggio. Un linguaggio, tra l’altro, che cambia anche in funzione delle maggiori richieste di inclusione e opzioni legate all’accessibilità da parte dei giocatori: in questo esempio i colori accesi aiutano molto i giocatori con problemi di vista. Oggi chi gioca ai videogiochi dà per scontato che raccogliere un pollo arrosto su un piatto o un cuore per strada restituisca parte della propria energia, o che saltare su un cubo con un punto di domanda garantisca un potenziamento casuale, ma queste non sono altro che convenzioni che si sono affermate nel corso degli anni e che sono state accettate da giocatori e sviluppatori.
Secondo Ugo Laviano, Lead Game Designer di Ubisoft Milan (lo studio degli apprezzati Mario + Rabbids Kingdom Battle e Sparks of Hope), questi elementi «rendono più facile la comunicazione di un mondo e delle sue regole tra il designer e il giocatore» e, una volta accettati e fatti propri, entrano a far parte di un linguaggio utilizzato tanto dagli sviluppatori quanto dai giocatori. «Certe regole grammaticali», dice sempre Laviano, «sono utili e rimaste fisse non solo per pigrizia e banalità, ma anche per praticità e ripetuto e comprovato successo».
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Come spesso accade nelle lingue, infatti, anche in quella dei videogiochi esistono “frasi fatte” ed espressioni artificiose che si sono affermate negli anni, ma che quando sono nate rispondevano a un’esigenza tecnologica o narrativa ben precisa. I muri invisibili e i gradini che non si possono salire sono degli esempi di elementi di design nati per venire incontro a una esigenza tecnica specifica, cioè non fare andare il giocatore in un posto nel quale non può ancora andare. Però hanno funzionato talmente bene che sono talvolta presenti anche nei giochi moderni, pur non essendocene più bisogno dal punto di vista tecnico.
Gli elementi che impediscono l’interazione del giocatore con una parte dell’ambiente di gioco, come per esempio i gradini che non si possono salire, sono uno dei modi che gli sviluppatori hanno trovato per non dover realizzare (a costi decisamente più alti) livelli troppo complessi: è infatti estremamente più facile ed economico rendere un gradino insormontabile piuttosto che sviluppare un burrone o delle macerie, e il risultato finale per il giocatore è lo stesso.
Quello che cambia però è il senso di immersione del giocatore: per Laviano «più si riesce a comunicare una funzione con una forma intuitiva, più la comunicazione tra gioco e giocatore è diretta e priva di frizioni». Il gradino non superabile diventa così un controsenso perché nonostante inviti il giocatore a salirlo, non gli permette poi davvero di farlo. Invece, l’utilizzo del famoso pollo arrosto, più che coprire una limitazione tecnica come quella dei gradini, assolve a un’esigenza comunicativa: il pollo infatti, rappresentando il cibo, è immediatamente associabile al concetto del recupero dell’energia. Ha funzionato così bene che da allora non è quasi mai stato messo in discussione.
Tra tutti questi elementi quello però forse più famoso è il barile esplosivo. Il suo aspetto è quello che ci si aspetterebbe da un oggetto di questo tipo: un cilindro di acciaio alto poco meno di un metro che contiene centinaia di litri di combustibile, dipinto solitamente di rosso (ma ce ne sono diverse versioni) e pronto a esplodere al primo colpo ricevuto. I barili sono presenti nei videogiochi sin dai tempi di Donkey Kong (Nintendo, 1981), ma è alla fine degli anni Ottanta che iniziarono effettivamente a esplodere.
In quegli anni erano estremamente popolari i giochi di tipo beat ‘em up, quelli cioè in cui si deve seguire un percorso prestabilito picchiando (o sparando a) tutti i nemici che si incontrano nel tragitto, e molti di questi giochi avevano un’ambientazione di tipo militare. P.O.W.: Prisoners of War, (SNK, 1988) e Rambo III (Taito, 1989) sono probabilmente i primi giochi in cui il barile diventò un elemento di design con il quale si poteva interagire, ma fu grazie all’enorme successo di Doom e Doom II (id Software, 1993 e 1994) che questo elemento diventò una presenza costante di ogni sparatutto. I primi due videogiochi della serie Doom, infatti, sono stati tra i più influenti titoli di sempre: in uno spazio di tempo brevissimo codificarono il genere degli sparatutto in prima persona rendendolo di fatto quello dominante ancora oggi.
Secondo Laviano, i barili esplosivi sono sì un ingrediente di cui magari si è abusato, ma anche qualcosa di estremamente comodo e riconoscibile. «Sono le proprietà di questo ingrediente a renderlo così goloso», dice infatti Laviano. «È veramente duttile, riconoscibile e secondo me è un “verbo” universale ed eterno proprio per le sue qualità e per quante variabili riesce a mettere in gioco con la sua sola presenza». I barili possono infatti essere colpiti per provocare un danno a distanza alle strutture o ai nemici, e possono anche essere utilizzati per modificare la composizione di un livello.
A differenza della letteratura però, dove le frasi fatte e le formulazioni pigre possono essere sostituite da una scrittura più efficace, nei videogiochi non sempre questo è possibile perché c’è una componente interattiva che altri medium non hanno. Secondo Laviano è proprio la dinamica che si instaura tra lo sviluppatore, il giocatore e il personaggio che viene controllato a essere profondamente diversa tra quella che c’è tra uno scrittore, un lettore e il protagonista del libro: «un lettore non si troverà mai di fronte alla dissonanza di un protagonista che non riesce a salire un gradino per carenze dello scrittore», dice infatti Laviano, «perché non gli sarà mai offerto il controllo».
La presenza di cliché non è però limitata al solo aspetto tecnico e di design del gioco, ma anche al modo in cui questo viene narrato. La principessa da salvare è forse una delle convenzioni narrative di cui più si è abusato (sin da quando Mario ha salvato la principessa Peach per la prima volta), così come il protagonista che all’inizio del gioco perde la memoria o l’antagonista principale che sconfigge l’eroe nelle primissime fasi del gioco per spogliarlo di poteri e averi. La scrittura di molte produzioni è ancora sciatta e incapace di costruire personaggi credibili con cui empatizzare e anche in questo caso uno dei problemi più grandi risiede nel fatto che in molti videogiochi la storia e i dialoghi sono un semplice pretesto per giustificarne la parte ludica, e per questo non vengono realizzate con la stessa cura e le stesse risorse.
Secondo Fortuna Imperatore, la sviluppatrice di Freud’s Bones, un videogioco su Sigmund Freud e sulla psicanalisi, il problema delle storie di gran parte dei videogiochi non è tanto nella mancanza di volontà o di risorse per raccontarle bene, quanto nella scarsa presenza di autorialità e creatività. Questa mancanza sarebbe la conseguenza, sempre secondo Imperatore, dell’eccessivo attaccamento di molti designer e sviluppatori ai miti e alle storie (e a come queste venivano raccontate) degli anni Ottanta e Novanta, che venendo continuamente riproposte non permettono un adeguato ricambio.
Damsel in Distress, cioè “damigella in pericolo”, è stato il primo luogo comune affrontato da Anita Sarkeesian nel suo progetto Feminist Frequency. Sarkeesian, anche per questo è stata una delle donne più colpite dal Gamergate, una campagna d’odio estremamente violenta contro molte donne all’interno del mondo dei videogiochi.
Alcune delle serie più famose infatti continuano a utilizzare gli stessi espedienti narrativi dei loro primi capitoli, usciti in alcuni casi anche trent’anni fa: nella serie Final Fantasy, per esempio, il protagonista è sempre un giovane prescelto che insieme a un gruppo di amici deve salvare il mondo mentre affronta un percorso di crescita personale; in The Legend of Zelda in quasi ogni capitolo un eroe muto si risveglia per salvare il mondo da un nemico specifico con l’aiuto di una principessa; in Assassin’s Creed si devono rivivere le storie dei propri antenati impegnati ad assassinare i loro nemici in diverse epoche e ambientazioni.
Uno degli espedienti più ricorrenti è quello reso famoso dal videogioco Metroid di Nintendo (e successivamente ripreso da tantissimi altri) in cui, nelle fasi iniziali, il protagonista è armato di tutto punto e in possesso di tutte le abilità, che gli vengono però sottratte dopo l’incontro con un nemico. Quel nemico, e anche questa è una convenzione di cui spesso si abusa, è lo stesso che poi si incontra di nuovo come avversario finale.
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Secondo Imperatore i giochi in cui è presente questo tipo di incipit sono quelli in cui la componente predominante non è quella narrativa, ma quella ludica: «che il tutto si ambienti in una enorme mappa stile Metroid, esplorabile in talune zone solo dopo aver rinvenuto potenziamenti o dopo aver battuto mini boss [dei nemici che compaiono normalmente alla fine di un livello] o che si proceda in un’avventura tipo Zelda, la storia verrà sempre usata come una goccia di benzina, ma mai come un vero serbatoio. L’engagement proviene dal gameplay». Secondo Laviano il valore di questo espediente risiede nella capacità di ingolosire il giocatore: in un videogioco solitamente si parte da una situazione in cui si è deboli, male attrezzati e con poche abilità per poi crescere nel corso del tempo e dei livelli, senza però mai sapere quale sia il punto di arrivo finale. «La fase iniziale», dice infatti Laviano, «diventa un qualcosa che ti fa “sbirciare” il finale che verrà e che grazie a quanto ti presenta e ti fa assaggiare, ti aiuta a capire il succo e il bello di quel gioco».
Se il linguaggio legato agli elementi di gioco evolve con lentezza e fatica, negli ultimi anni molti editori e sviluppatori hanno dimostrato una sensibilità crescente verso temi di attualità come la rappresentazione delle minoranze, l’utilizzo di un linguaggio adatto al contesto in cui è ambientato il gioco e in generale a una maggiore, e migliore, rappresentazione delle donne. Nonostante il cambiamento fosse in atto già da qualche anno, è con il Gamergate che ha subito una evidente accelerata. Fu un’intensa campagna di insulti, minacce e molestie contro le donne nel mondo dei videogiochi, che iniziò su internet ma poi finì anche altrove. Partì il 15 agosto del 2014 con un post sul blog dell’ex fidanzato della sviluppatrice Zoë Quinn, nel quale venivano raccontati dettagli della loro relazione, pubblicati estratti di messaggi e mail, e lasciato intendere che lei potesse avere avuto una relazione con un giornalista di settore. Questa notizia falsa generò un movimento reazionario e misogino che prese di mira diverse sviluppatrici e che si trasformò poi in altro, saldandosi ai movimenti dell’estrema destra americana.
Da allora, anche in reazione al Gamergate, tantissime produzioni hanno iniziato a essere più attente al modo in cui scrivono le proprie storie e a come caratterizzano i propri personaggi. Un po’ come sta succedendo nel cinema e nella televisione, le donne hanno iniziato a essere le protagoniste delle storie e non solo le “damigelle da salvare” o la quota femminile all’interno di un gruppo tendenzialmente maschile. Nella serie Horizon, sviluppata da Guerrilla Entertainment e pubblicata da Sony, la protagonista Aloy non è ipersessualizzata ma è una donna dall’aspetto comune, con la carnagione chiara, i capelli rossi e le lentiggini che quando va al sole si scotta la pelle. Inoltre, la sua evoluzione è coerente con il suo passato e le relazioni che stabilisce all’interno degli altri personaggi della storia la aiutano a crescere emotivamente senza limitarsi a esistere esclusivamente per far avanzare le missioni.
The Last Of Us Parte 2 fa anche di più. Ellie, il personaggio principale, è una delle poche sopravvissute a una pandemia causata da un fungo parassita di tipo Cordyceps che ha quasi annientato la civiltà umana. Ė una ragazzina lesbica e a tratti spietata che compie azioni a volte indicibili dalle quali è difficile dissociarsi moralmente, avendole compiute in prima persona tramite l’interazione con il controller. Nel gioco sono inoltre presenti diversi personaggi con una grande varietà di generi e orientamenti sessuali, inseriti in maniera del tutto organica nella vicenda, la cui complessità arricchisce la storia e la rende più adatta a un mondo in cui le strutture sociali stanno profondamente cambiando.
E ancora: in Celeste (Maddy Makes Games, 2018) e Gris (Nomada Studio, 2018), due giochi indie di un certo successo, si affrontano l’ansia e l’elaborazione del lutto; Venba (Visai Games, 2023), uscito a luglio dello scorso anno, racconta le difficoltà di una famiglia di origini Tamil che emigra in Canada; Hellblade: Senua’s Sacrifice (Ninja Theory, 2017), pur non riuscendoci del tutto, tratta il tema della psicosi e della salute mentale. Secondo Imperatore uno dei principali motivi per cui tanti sviluppatori non riescono a ideare un linguaggio nuovo (che si tratti della narrazione o del gameplay) ha a che fare con il timore di come il pubblico e la critica possano valutare il prodotto: «sono certa che questo sia legato molto al tipo di utente che è nato col videogioco e che fa fatica a provare qualcosa di sbilenco, di complesso, e cerca ancora ossessivamente una conferma e un rifugio nel gioco». «Serve autorialità e coraggio», conclude Imperatore, «esporsi alla critica non deve essere un incubo, è una fase necessaria affinché i gusti migliorino».