L’importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul clima, spiegata
Il tribunale europeo ha dato ragione a un'associazione di anziane donne svizzere che si ritenevano danneggiate per le politiche sul clima del loro paese: cosa ci possiamo portare a casa da tutto questo?
Martedì la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), importante tribunale internazionale che però non ha a che fare con l’Unione Europea, ha stabilito che uno stato aveva violato i diritti umani dei ricorrenti perché non aveva fatto abbastanza per contrastare il cambiamento climatico: è stata la prima volta che un tribunale internazionale ha detto che uno stato è obbligato a raggiungere gli obiettivi sul clima stabiliti dai trattati internazionali. La Corte si è espressa su tre diversi casi che riguardavano gli interventi degli stati contro il riscaldamento globale, dando ragione in particolare a un gruppo di anziane signore svizzere riunite in un’associazione, Anziane per il clima, che avevano accusato la Svizzera di avere violato i loro diritti venendo meno agli impegni presi per contrastare il cambiamento climatico.
La sentenza non avrà conseguenze pratiche immediate: l’Ufficio federale di giustizia svizzero ha detto che la studierà per stabilire quali azioni debbano essere prese dalla Svizzera per il futuro e intanto la Corte ha ordinato allo stato svizzero di pagare 80mila euro per coprire le spese legali dell’associazione. I paesi che riconoscono la Corte europea per i diritti dell’uomo sono impegnati a dare esecuzione alle sue decisioni, ma la Corte lascia generalmente loro ampia libertà nella scelta delle misure con cui farlo. Nonostante questo, la decisione è stata comunque definita «storica». Non solo è la prima in cui il tribunale internazionale dà ragione ai ricorrenti sul cambiamento climatico, ma influenzerà anche gli approcci adottati da altri tribunali internazionali e dai tribunali nazionali dei singoli paesi europei su casi analoghi, che negli ultimi anni sono diventati piuttosto frequenti come forma di attivismo climatico.
Nonostante per certi versi sia ancora presto per avere un quadro esaustivo delle implicazioni della sentenza della Corte, su alcuni blog specialistici curati da esperti di diritto internazionale e di diritto ambientale si è già cominciato a parlarne e a mettere in fila alcune osservazioni.
Sintetizzando molto: la prima è che la CEDU ha stabilito di potersi esprimere su casi che riguardano il cambiamento climatico, ed è quindi possibile che in futuro aumenti il numero di cause sul clima contro gli stati europei. La seconda è che, pur dando ragione al gruppo di donne anziane svizzere, la CEDU non è arrivata a dire come la Svizzera avrebbe dovuto contrastare il cambiamento climatico, riconoscendo che suggerire soluzioni politiche non è una cosa di sua competenza.
La terza è che la CEDU ha stabilito dei limiti rispetto alle cause che riguardano il clima: ha chiarito come anche in futuro sarà molto difficile che accetti ricorsi di questo tipo presentati da singoli cittadini, mentre è stata più permissiva con le associazioni. La quarta è che ha ribadito che le cause non possano essere intentate contro stati diversi da quello in cui si trovano i ricorrenti, che tendenzialmente è il paese in cui vivono. In questo senso, la Corte non ha ritenuto che le particolari caratteristiche del cambiamento climatico giustificassero una modifica della sua giurisprudenza su questo punto, come speravano invece i ricorrenti.
I tribunali internazionali come la CEDU sono quelli a cui ci si può rivolgere se si ritiene di aver subito una violazione dei propri diritti da parte di uno o più stati e si sono esaurite tutte le possibilità messe a disposizione dal proprio sistema giudiziario nazionale. I ricorsi possono essere presentati da cittadini singoli o da stati, ma possono essere rivolti solo contro gli stati.
In particolare, la CEDU ha sede a Strasburgo, in Francia, ed è l’organo incaricato di stabilire quando viene violata la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, il trattato europeo più importante per il riconoscimento dei diritti umani, in particolare civili e politici, scritto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La Convenzione fu elaborata all’interno del Consiglio d’Europa, un’istituzione nata nel 1949 per promuovere la democrazia e i diritti umani e che oggi conta 46 stati membri, tra cui i 27 dell’Unione Europea (il Consiglio d’Europa non c’entra nulla con l’Unione Europea). Le sue sentenze sono assai importanti perché vincolano gli stati condannati e di fatto influenzano anche gli orientamenti dei tribunali e delle autorità nazionali dei paesi che hanno firmato la Convenzione (tra cui l’Italia).
Nella Convenzione non ci sono articoli specifici che riguardano l’ambiente, ma ci sono in particolare due articoli che da anni vengono tirati in ballo nelle cause che riguardano casi di inquinamento o altri problemi ambientali.
Sono l’articolo 2, quello sul «diritto alla vita», e l’articolo 8, quello sul «diritto al rispetto della vita privata e familiare», che dice che «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza». A partire da una sentenza del 1994, la CEDU considera il diritto di vivere in un ambiente salubre, dignitoso e pacifico come parte del diritto al rispetto della vita privata e familiare, interpretando in modo ampio il concetto di “domicilio”.
Nel caso della causa avanzata dall’associazione “Anziane per il clima”, le ricorrenti accusavano lo stato svizzero di non aver fatto abbastanza per mitigare gli effetti del cambiamento climatico come l’aumento della frequenza delle ondate di calore, che sono particolarmente rischiose per la salute delle donne anziane. I tribunali svizzeri avevano respinto le loro richieste; così si erano rivolte alla CEDU perché ordinasse alla Svizzera di impegnarsi di più per mantenere l’aumento delle temperature medie globali rispetto all’epoca pre-industriale sotto 1,5 °C, l’obiettivo più ambizioso fissato dall’Accordo sul clima di Parigi del 2015.
A stabilire la sentenza è stata la Grande Camera, la composizione con cui la CEDU si esprime nei casi che per qualche ragione vengono considerati eccezionali, come quelli che sollevano «gravi problemi di interpretazione della Convenzione». La Grande Camera è composta da 17 giudici e la sentenza in questione è stata votata quasi all’unanimità. Solo il giudice britannico Tim Eicke, secondo cui la CEDU non è fatta per esprimersi su questioni ambientali, era contrario. La sentenza è definitiva, il governo svizzero non può fare appello.
La Corte ha giudicato che contrastare gli effetti del cambiamento climatico rientri tra i doveri degli stati per garantire il «diritto al rispetto della vita privata e familiare». Ha riconosciuto che la Svizzera non ha onorato questo dovere perché non ha ancora quantificato come ridurrà le proprie emissioni di gas serra nazionali, e perché in passato non aveva rispettato alcuni impegni che si era presa in questo senso. La sentenza infatti, facendo riferimento ad alcuni trattati internazionali tra cui l’Accordo di Parigi, dice che gli stati membri della CEDU devono «raggiungere la neutralità carbonica [cioè la condizione in cui si rimuovono dall’atmosfera tanti gas serra quanti se ne emettono] entro i prossimi tre decenni in linea di principio». Allo stesso tempo non ha indicato misure precise al governo svizzero, proprio perché farlo sarebbe andato oltre le sue competenze.
Nonostante la sentenza riguardi solo il caso specifico esaminato dalla Corte e quindi solo la Svizzera, la decisione della CEDU finirà inevitabilmente per influenzare i tribunali e i governi degli altri paesi firmatari della Convenzione e probabilmente altri tribunali internazionali.
Secondo le prime analisi di giuristi di vari paesi, un altro aspetto degno di nota della sentenza della CEDU riguarda una questione procedurale. La Corte ha ammesso come ricorrente legittima per il caso solo l’associazione “Anziane per il clima”, e non le quattro cittadine svizzere che avevano presentato lo stesso ricorso a titolo personale. È una questione un po’ tecnica ma rilevante.
Detto in termini semplici, per avanzare un ricorso legittimo i singoli individui devono essere “vittime” del comportamento che denunciano (secondo quanto stabilito dall’articolo 34 della Convenzione), e nel caso del cambiamento climatico questo richiederebbe portare evidenze scientifiche di essere stati direttamente e personalmente danneggiati dagli effetti del cambiamento climatico, una cosa assai complicata. La Corte ha però stabilito che se a fare ricorso sono le associazioni, a queste ultime non viene richiesto di dimostrare che i loro membri, o le persone a nome delle quali hanno presentato il ricorso, abbiano lo status di “vittima”: devono piuttosto dimostrare di avere altri requisiti, che nel caso dell’associazione “Anziane per il clima” erano rispettati. Questo è già un aspetto importante da sottolineare: la decisione della Corte di ammettere ricorsi delle associazioni in materia di cambiamento climatico è stata di per sé molto significativa, anche perché in passato il tribunale aveva invece adottato un approccio particolarmente restrittivo verso le associazioni ambientaliste.
Ad ogni modo, la Corte ha detto che non poteva accogliere il ricorso delle singole quattro donne anziane svizzere, che non avevano dimostrato di avere lo status di “vittime”. Ha inoltre specificato la necessità di mantenere l’asticella del danno causato molto alta, nei casi che riguardano il cambiamento climatico, perché altrimenti il numero di persone che potrebbe presentarsi di fronte alla Corte lamentando di avere subìto danni per le mancanze dei propri governi rispetto al clima diventerebbe enorme. Il senso è: tutti noi potremmo lamentarci di fronte alla Corte di danni subiti per il cambiamento climatico e l’inazione dei nostri governi; la Corte voleva quindi evitare una actio popularis, un’azione popolare, cioè quella che può essere portata avanti da chiunque a tutela di un interesse diffuso, e non di una propria situazione giuridica.
Oltre alla sentenza sul caso delle “Anziane per il clima”, sarà significativo per futuri ricorsi in tribunale legati al cambiamento climatico anche il fatto che la Corte abbia respinto gli altri due casi su cui si è espressa martedì. Vale in particolare per quello più ambizioso e discusso sui media: sei giovani portoghesi che avevano accusato 33 stati europei di aver violato i loro diritti umani non intervenendo di più contro il cambiamento climatico, perché il loro stile di vita e la loro salute sono stati minacciati dalle ondate di calore e dagli incendi boschivi che negli ultimi anni ci sono stati in Portogallo. Questo caso non è stato giudicato ammissibile dalla Corte per due ragioni.
La prima è che i giovani portoghesi non avevano esaurito tutte le loro possibilità di azione legale in Portogallo, condizione necessaria a livello procedurale per rivolgersi alla CEDU.
La seconda, quella che potrebbe avere maggiori conseguenze su altri casi analoghi, è che per la CEDU i giovani non avevano il diritto di fare causa ad altri paesi che non fossero il Portogallo. Secondo la Corte, se avesse deciso diversamente avrebbe di fatto concesso a chiunque nel mondo di fare causa a uno stato membro della CEDU per ragioni analoghe, dato che il cambiamento climatico riguarda l’intero pianeta ed è causato praticamente da tutti i paesi del mondo. La sentenza dice espressamente che accettare il ricorso avrebbe «reso la Convenzione un trattato globale sul cambiamento climatico».
Nel suo commento alle decisioni della Corte sul blog dello European Journal of International Law Marko Milanovic, professore di diritto internazionale all’Università di Reading, nel Regno Unito, ha definito l’esito della causa portoghese «sinceramente deludente ma del tutto prevedibile»: «Era uno di quei casi i cui i problemi strutturali sono tali da portare inevitabilmente al fallimento, al punto che portare avanti questa causa è stato potenzialmente controproducente per altri casi. (…) Era troppo ambizioso, troppo affrettato».