Stellantis sta lasciando nei guai decine di aziende
A Torino si producono sempre meno auto, e le aziende fornitrici dello stabilimento di Mirafiori sono le prime a soffrire la crisi tra fallimenti, cassa integrazione e scarse prospettive per gli operai
di Isaia Invernizzi
Gli operai della Lear di Grugliasco – la sede torinese di una multinazionale americana che produce sedili per le auto di Stellantis – dicono che prima o poi tutti i capannoni della zona faranno la stessa fine: dopo aver sfruttato il più possibile gli ammortizzatori sociali dovranno chiudere perché non c’è lavoro. Alcune aziende fornitrici di Stellantis sono già fallite, altre come la Lear hanno ridotto la produzione in modo drastico e messo i lavoratori in cassa integrazione.
Le ditte che dipendono direttamente dallo stabilimento torinese di Mirafiori, uno dei più grandi d’Europa, furono aperte quando l’allora FIAT aveva bisogno di componenti per centinaia di migliaia di auto prodotte ogni anno, mentre ora non hanno più molta ragione di esistere perché Stellantis fa sempre meno auto: nel 2023 a Torino ne sono state costruite solo 78mila e quest’anno ai ritmi attuali non si arriverà a 50mila.
I tremila dipendenti di Mirafiori saranno in cassa integrazione fino a maggio, e già mesi fa Stellantis aveva ridotto o azzerato le commesse alle imprese fornitrici di sedili, tettucci, filtri dell’aria, filtri dell’olio e centinaia di altri componenti. È quello che nell’industria viene chiamato indotto. Alla Lear, dove lavorano 410 persone, la cassa integrazione potrà andare avanti fino alla fine dell’anno, poi rimarranno solo i licenziamenti. «È una crisi terribile. Noi ci siamo arrivati prima perché utilizziamo ammortizzatori sociali da più tempo, ma qui intorno toccherà a tutti», dice Mimmo Ciano, lavoratore della Lear e sindacalista della FIM CISL. «Il problema non è la transizione energetica, perché anche nelle auto elettriche vanno messi i sedili: Stellantis a Torino non fa auto elettriche, ma nemmeno diesel. Qui non fa più auto, e basta».
Stellantis nacque nel gennaio del 2021 dalla fusione di PSA, l’azienda francese che produce Peugeot e Citroën, e FCA, l’azienda italo-americana nata a sua volta dalla fusione di FIAT e Chrysler. La fusione è stata la risposta dell’azienda alla crisi del modello produttivo della FIAT, sempre meno competitivo e centrale nell’economia italiana: nel 1990 in Italia venivano costruiti 2 milioni di auto, nel 2000 erano circa 1,7 milioni, nel 2010 scesero a 850mila, nel 2022 a 500mila. A Torino, la città simbolo della FIAT, si è passati dal milione di auto prodotte ogni anno tra gli anni Sessanta e Settanta al record negativo di 22mila raggiunto nel 2019.
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Il calo è stato più marcato rispetto agli altri paesi europei perché in Italia prima FIAT e poi Stellantis hanno sempre avuto il monopolio della produzione di auto, mentre in Germania, Francia e Spagna ci sono più aziende e quindi più concorrenza.
Negli anni Settanta e Ottanta, mentre negli altri paesi europei e negli Stati Uniti i governi favorivano investimenti di produttori stranieri, in Italia la FIAT acquisì tutti i concorrenti: Ferrari, Maserati, Lancia e l’ultima, l’Alfa Romeo, nel 1986. Negli anni Novanta FIAT cambiò modello di produzione, si affidò quasi totalmente alle aziende fornitrici, a cui commissionò quasi l’80 per cento dei componenti che prima venivano costruiti nei suoi stabilimenti e da allora vennero solo assemblati. In questo modo incoraggiò l’arrivo in Italia di multinazionali dei componenti che comprarono a loro volta molte piccole aziende italiane aperte nei decenni precedenti vicino agli stabilimenti.
Il modello divenne più verticale. FIAT iniziò a trattare grosse commesse con gruppi di grandi o medie dimensioni che si servivano dei fornitori locali, più piccoli e specializzati. Insieme alla produzione, tuttavia, si liberò man mano anche di molte competenze, un errore ripetuto più volte negli anni successivi.
Nel 2004 la FIAT affrontò una grave crisi economica da cui si risollevò grazie alla strategia messa a punto dall’amministratore delegato Sergio Marchionne, che puntò su modelli economicamente più sostenibili e redditizi. I fornitori si adeguarono concedendo un taglio dei costi dal 3 al 4 per cento: la riduzione delle spese consentì a FIAT di ritrovare almeno in parte la competitività perduta, fino alla fusione con Chrysler.
Nelle intenzioni di Marchionne l’Italia sarebbe diventata il polo dell’auto di lusso, ma FIAT non si avvicinò mai agli obiettivi e soprattutto non venne mai mantenuta la promessa di tornare a produrre 1,4 milioni di auto ogni anno. A Torino rimase la progettazione delle auto di piccole dimensioni destinate prevalentemente al mercato europeo, mentre Detroit – sede di Chrysler – puntò su quelle di grandi dimensioni.
Nel 2018, poco prima della fusione con il gruppo francese PSA, FCA vendette Magneti Marelli al gruppo giapponese CK Holdings (controllato dal fondo americano KKR) per 5,8 miliardi di euro. Magneti Marelli, che ora si chiama solo Marelli, comprata dalla FIAT nel 1967, era forse la più importante tra le sue aziende fornitrici: da sempre gli ingegneri di Magneti Marelli progettavano ammortizzatori e batterie in collaborazione con i progettisti delle auto. Negli ultimi anni Marelli ha ridotto gli investimenti in Italia.
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La vendita di Magneti Marelli fu un chiaro segnale della volontà di esternalizzare tutto quanto era possibile, compresi i reparti più strategici di ricerca e sviluppo di Torino dove lavoravano progettisti, ingegneri e designer. Al contrario, negli stessi anni PSA investì nella progettazione delle auto più di tutti i suoi concorrenti e si presentò alla fusione con FCA con la chiara intenzione di assorbire le attività di ricerca e sviluppo a Parigi a scapito di Torino.
Francesco Zirpoli, professore di Economia e gestione dell’innovazione dell’università Ca’ Foscari di Venezia e direttore scientifico del Center for Automotive and Mobility Innovation (CAMI), dice che tutto questo ha fatto venire meno due fondamenti del sistema di forniture costruito nei decenni precedenti: oltre al calo delle auto prodotte negli stabilimenti italiani, ora nessun fornitore può sviluppare componenti in Italia perché la progettazione è stata spostata a Parigi. «Semplicemente i fornitori internazionali come Lear non hanno più interesse a stare in Italia», dice Zirpoli. «Gli italiani, a eccezione di Brembo [uno dei produttori di freni più importanti al mondo, ndr] sono rimasti di piccole dimensioni: alcuni hanno trovato altri clienti, ma hanno comunque mantenuto una stretta dipendenza da Stellantis e non sono riusciti a crescere».
La Delgrosso è tra questi. Aperta nel 1951 nella zona industriale di Nichelino, a sud di Torino, per decenni ha rifornito FIAT e poi Stellantis di filtri per l’aria. Dai suoi due capannoni ne uscivano migliaia ogni giorno da montare su auto e camion. Fino allo scorso anno fatturava dai 15 ai 20 milioni di euro all’anno, l’8 marzo scorso è stata dichiarata fallita. I suoi 108 lavoratori sono rimasti senza stipendio e devono ancora ricevere un terzo della tredicesima del 2023, due terzi dello stipendio di gennaio, gli stipendi completi di febbraio e marzo.
Il calo delle forniture dovuto alla scarsa produzione di Stellantis ha reso insostenibili i già pesanti debiti accumulati dall’azienda negli ultimi anni. Carlo Silvestro, autista della Delgrosso da 26 anni e sindacalista della FIOM CGIL, dice che le cose sono cambiate dal 2019: «Prima facevo sei o sette viaggi al giorno per consegnare filtri allo stabilimento di Stellantis, gli operai mi prendevano in giro perché ero sempre lì. Uno dei nostri due capannoni era dedicato esclusivamente a Stellantis: è stato il primo a chiudere».
Sul cancello della Delgrosso sono rimasti alcuni striscioni dei presìdi organizzati dai sindacati negli ultimi mesi. Le strade della zona industriale di Nichelino, dove fino a 10 anni fa i lavoratori facevano fatica a trovare un parcheggio, sono vuote. Passa qualche camion, una volta ogni tanto.
La scorsa settimana la Regione Piemonte ha stanziato un fondo da 800mila euro per sostenere i lavoratori rimasti senza ammortizzatori sociali, come i 108 della Delgrosso. I sindacati hanno chiesto un sostegno economico anche ai comuni: Nichelino ha messo 16mila euro per non far pagare ai lavoratori le rette degli asili nido e delle mense. «Ci dobbiamo inventare questi aiuti», dice Claudio Siviero, sindacalista della FIOM CGIL. «Ci appelliamo alle istituzioni altrimenti qui si spegne tutto perché Stellantis ha fatto una scelta precisa: non produrre più auto a Torino».
Lungo corso Allamano e nelle strade interne della zona industriale di Grugliasco molte altre aziende sono in crisi. Proma, che produce scocche e strutture dei sedili, ha detto di voler chiudere lo stabilimento di Grugliasco e spostare i 110 lavoratori nel polo di Bruino, a circa venti chilometri da Torino.
La riduzione delle auto prodotte a Mirafiori sta creando molte difficoltà anche alla Marelli Automotive Lighting, alla Denso di Poirino, alla PrimoTECS di Avigliana e alla SKF, azienda svedese che produce cuscinetti a sfera con più stabilimenti in provincia di Torino. La Te Connectivity, fornitrice di cablature per auto e componenti per elettrodomestici, chiuderà lo stabilimento di Collegno dove lavoravano 220 persone. Insieme a queste aziende dovranno chiudere anche decine di fornitori di materiale grezzo, di piccole lavorazioni, manifatture e artigiani che dipendevano quasi totalmente dal lavoro appaltato dagli stabilimenti medi e grandi.
Anche chi era convinto che gli allarmi dei lavoratori fossero esagerati ha dovuto ricredersi dopo la messa in vendita dello stabilimento AGAP, acronimo di Avvocato Giovanni Agnelli Plant, aperto da Stellantis a Grugliasco nel 2013 e messo in vendita lo scorso autunno. Nei suoi 115mila metri quadri si producevano la Maserati Quattroporte e la Maserati Ghibli. Nel 2017 dallo stabilimento uscirono 55mila auto, nel 2023 si è arrivati appena a ottomila. Sono rimaste le insegne di Stellantis, ma i cancelli sono chiusi e dentro non c’è nessuno. A poche centinaia di metri, sempre su corso Allamano, c’è l’ingresso della Lear.
Nell’ultimo incontro organizzato al ministero delle Imprese e del Made in Italy, lo scorso 26 marzo, ai sindacalisti della Lear è stato presentato un consulente che avrà il compito di cercare chi comprerà l’azienda o almeno una parte.
Lear vorrebbe mantenere l’impianto di Grugliasco per fornire a Mirafiori i sedili per le Maserati, una commessa che garantirebbe il posto solo a una trentina dei 410 lavoratori. Nel frattempo molte persone stanno partecipando a corsi di formazione per cercare un nuovo posto di lavoro. «Nonostante le promesse siamo difficilmente ricollocabili perché molti di noi, tra cui molte donne, hanno più di 50 anni», dice Sara D’Imperio, lavoratrice della Lear. «La situazione è molto pesante anche perché “l’effetto Stellantis” si vede in molte altre aziende. C’è un generale senso di incertezza che a Torino coinvolge tutti i lavoratori di questo settore. Qui chiude tutto».
Nell’ultimo anno fuori dai cancelli della Lear sono stati organizzati presìdi e manifestazioni. Venerdì scorso lavoratrici e lavoratori si sono ritrovati in un circolo sociale di Collegno per una cena a base di ceci e lenticchie donate da un’azienda agricola per sostenere la lotta sindacale. Sono state raccolte offerte per finanziare i prossimi appuntamenti, ma per molti è stata più un’occasione per rivedere i colleghi dopo mesi passati a casa per via della cassa integrazione. Il prossimo incontro al ministero è in programma il 13 maggio.
Nel dibattito sul futuro della produzione di auto in Italia spesso si sente dire che questa crisi era inevitabile, che Stellantis può fare a meno di molti fornitori e che negli stabilimenti servono meno lavoratori perché le auto elettriche sono più semplici da costruire. In realtà, secondo uno studio dell’università Ca’ Foscari di Venezia, già ora la maggior parte dei fornitori italiani produce componenti adatti alla produzione di auto elettriche: su 2.400 fornitori censiti in Italia, solo 93 producono componenti dedicati esclusivamente ai “vecchi” motori endotermici, cioè i motori a combustione interna.
Nelle aziende fornitrici, dunque, una transizione energetica c’è in parte già stata. «Il tema vero è che Torino ha perso la sua centralità nella progettazione», sostiene Francesco Zirpoli dell’università Ca’ Foscari. «E in più l’esistenza di un unico produttore di auto ha scoraggiato altri fornitori a investire in Italia perché i reparti di ricerca e sviluppo di Stellantis non sono più qui».
Mercoledì 10 aprile l’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares, che non ha partecipato agli ultimi incontri con il governo, incontrerà i sindacati a Mirafiori prima dell’inaugurazione di un nuovo reparto dove si produrranno cambi per le auto ibride. Entro la metà del 2025 in questo reparto lavoreranno 550 persone spostate da altri settori di Mirafiori dove è rimasta la produzione – limitata, e per giunta ridotta del 50% rispetto al 2023 – della 500 elettrica e di due modelli di Maserati, la GranTurismo e la GranCabrio.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, insieme al presidente del Piemonte Alberto Cirio e al sindaco di Torino Stefano Lo Russo, hanno chiesto a Stellantis di portare a Mirafiori la produzione di un nuovo modello – per esempio nuove versioni della 500 – per tornare a costruire almeno 200mila auto all’anno. Lo stesso chiedono da mesi i sindacati. «Tornare al milione di auto prodotte in tutta Italia può lenire i drammi occupazionali, ma non risolve l’anomalia di un paese industrializzato come l’Italia che si sta trasformando in un paese di semiperiferia, dove ci sono solo stabilimenti produttivi e non progettazione», continua Zirpoli.
Negli ultimi mesi i sindacati hanno sollecitato l’apertura a un produttore straniero, una soluzione che consentirebbe di creare più concorrenza in Italia. A febbraio il ministro Urso ha detto che l’arrivo di un secondo produttore è un progetto a cui il governo sta lavorando da mesi. Si era parlato di una trattativa con BYD, azienda cinese produttrice di auto elettriche, ma non se n’è fatto nulla.
Tutti gli esperti del settore sostengono che per favorire l’arrivo di un nuovo produttore in Italia serva una nuova politica industriale, in particolare un sostegno pubblico alle imprese dell’indotto che dimostrano di saper fare innovazione, e non solo incentivi per l’acquisto di auto o i cosiddetti aiuti “a pioggia”, cioè indiscriminati e non in grado di contribuire a rianimare il sistema senza una visione precisa. In questo modo, con la creazione di nuovi poli di eccellenza, forse si potrà recuperare il tempo perso sullo sviluppo di veicoli elettrici e dei loro componenti.
La richiesta di favorire una nuova politica industriale sarà uno dei temi centrali dello sciopero e della manifestazione in programma venerdì 12 aprile a Torino. Gli operai di Mirafiori, quelli delle aziende dell’indotto, ma anche i quadri e gli impiegati, le associazioni e gli studenti sfileranno per le strade di Torino per chiedere quattro cose a Stellantis: l’assegnazione a Mirafiori di nuovi modelli di auto; l’assunzione di giovani lavoratrici e lavoratori; l’integrazione di componenti per auto elettriche e a idrogeno; il potenziamento della progettazione e della ricerca. La manifestazione si intitola “Il rilancio di Torino parte da Mirafiori”.