Da dove vengono le espressioni come «cacicchi e capibastone»
In politica si usano per riferirsi con una connotazione negativa ai leader locali di un partito: ricorrono nelle cronache di questi giorni in relazione alle polemiche tra PD e M5S
Sabato scorso, intervenendo alla trasmissione Accordi e Disaccordi sul Nove, il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha criticato Elly Schlein, sostenendo che non fosse riuscita a mantenere l’impegno che aveva preso quando era diventata segretaria del Partito Democratico: eliminare «cacicchi» e «capibastone». L’accusa di Conte, che si inserisce nella polemica interna al centrosinistra provocata dalle inchieste giudiziarie a Bari in cui sono coinvolti anche esponenti del PD locale, rievoca uno degli slogan con cui Schlein si era rivolta all’assemblea nazionale del PD nel marzo del 2023, poche settimane dopo la sua vittoria alle primarie: «Non vogliamo più vedere capibastone e cacicchi vari».
Sono due espressioni, cacicchi e capibastone, con cui nel gergo giornalistico e politico comunemente ci si riferisce a quegli esponenti locali di un partito che controllano in maniera clientelare e opaca i voti, la politica e gli affari sui loro territori. Quando si parla del PD possono indicare, con connotazione spregiativa, anche i capi delle varie correnti, cioè i raggruppamenti di parlamentari, militanti e dirigenti locali che aderiscono a una delle varie organizzazioni o associazioni di cui si compone il partito, e che si riconoscono appunto nella guida di un capocorrente.
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Cacicco è il termine più esotico. Deriva infatti da cacique, parola di origine cubana con cui i conquistadores spagnoli a partire dal 1500 si riferivano ai vari capitribù o ai re delle popolazioni indigene dell’America centrale e meridionale. Ispirandosi a loro, naturalisti e ornitologi cominciarono a chiamare così una specie di uccelli dell’America tropicale, simili a dei pappagalli, che erano in grado di accoppiarsi anche con venti diverse femmine ogni anno, un po’ come si credeva facessero appunto i capitribù indios.
In politica il termine fu sdoganato dall’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema nel dicembre del 1997. Lo usò per criticare l’iniziativa di un gruppo di sindaci che stavano lavorando alla nascita di un movimento politico guidato da alcuni amministratori locali che potesse rinnovare il centrosinistra. I protagonisti del progetto erano in particolare i sindaci di Catania, Enzo Bianco, di Roma, Francesco Rutelli, di Napoli, Antonio Bassolino, e di Venezia, Massimo Cacciari. D’Alema, allora segretario del Partito Democratico della Sinistra (PDS), considerava sbagliata quell’idea. E di ritorno da un viaggio in Messico, intervenendo a un’iniziativa sindacale a Roma, il 13 dicembre disse: «La nuova anomalia del nostro paese potrebbe essere rappresentata dal fatto che invece di avere uno dei partiti socialisti, riformatori, noi abbiamo due accampamenti. Quelli che nella tradizione messicana si chiamerebbero i cacique». Le sue parole vennero poi rese ancora più sprezzanti da alcuni giornali, che nei giorni seguenti sintetizzarono dicendo che D’Alema aveva liquidato l’ipotetico «partito dei sindaci» come «un accampamento di cacicchi».
Il termine era piuttosto inusuale nella polemica politica, e infatti in quei giorni i quotidiani si sentirono in dovere di spiegarlo, raccontandone sia l’origine sia il suo senso applicato alla politica («caciquismo è un termine spagnolo con il quale si intende una politica fondata sul potere personale», scrisse il Corriere della Sera il 14 dicembre).
Non era tuttavia la prima volta che si utilizzava quel termine con quell’accezione. Nel 1994, per esempio, l’economista Giulio Sapelli, nel suo libro Cleptocrazia dedicato alle inchieste sulla corruzione in politica dell’inizio degli anni Novanta e note come Tangentopoli, scrisse che tra i responsabili del degrado dei partiti c’erano appunto i «cacicchi locali». Ma ancora prima Valdo Spini, importante esponente del Partito Socialista Italiano (PSI) a Firenze, più volte parlamentare e ministro, nell’aprile del 1989 aveva commentato le diatribe interne al PSI dicendo che «il nostro non è un caso di lotta fra cacicchi locali». Fu comunque D’Alema ad affermare l’uso della parola, divenuto negli anni piuttosto ricorrente.
Capibastone deriva invece dal gergo mafioso. Nel lessico della ’ndrangheta calabrese, infatti, secondo la ritualità tradizionale ancora molto rispettata fino a qualche anno fa, il capo di una famiglia presiede le riunioni dei vari esponenti del clan locale tenendo in mano un bastone, che ha un po’ il valore di uno scettro regale: un simbolo di comando. Non a caso il termine ha sempre indicato, in politica, fenomeni deteriori e spesso torbidi. Durante una segreteria regionale lombarda della Democrazia Cristiana, nel settembre del 1983, i dirigenti locali del partito accusarono quelli nazionali di assecondare «una logica da capibastone» nella definizione delle gerarchie interne.
Ma la parola iniziò a essere applicata alla politica in maniera più sistematica all’inizio degli anni Novanta, ovvero nel passaggio tra la cosiddetta Prima Repubblica e la seconda, quando cioè il vecchio sistema dei partiti che aveva governato la politica italiana per quasi mezzo secolo si dissolse a seguito delle inchieste della magistratura sulla corruzione. In quel contesto, i capibastone divennero un bersaglio tipico della retorica contro i partiti dell’epoca, giudicati troppo potenti e accusati di sentirsi immuni e al di sopra delle regole.
Dopo la vittoria dei Sì al referendum del 9 giugno 1991, quello che rafforzò l’impianto maggioritario della legge elettorale italiana ma che divenne per molti aspetti il segnale della sfiducia conclamata degli elettori italiani nei confronti dei partiti tradizionali, il segretario del PDS Achille Occhetto utilizzò questo termine per criticare il segretario del PSI Bettino Craxi. Quest’ultimo aveva criticato l’iniziativa di quel referendum promosso da Mario Segni, e aveva invitato a boicottarlo suggerendo spiritosamente agli italiani di andare al mare. La vittoria dei Sì fu dunque anche una sconfitta di Craxi. Occhetto lo accusò di aver sbagliato nello schierarsi «con i capibastone e con chi voleva mantenere il vecchio sistema».
Ma cacicchi e capibastone non sono gli unici termini curiosi che nel lessico della politica vengono usati per descrivere logiche elettorali e correntizie poco nobili. Talvolta con questa stessa accezione negativa si utilizza ras, una parola che originariamente indicava gli alti dignitari nella gerarchia statale dell’impero d’Etiopia, e che venne poi usata dai contestatori del regime fascista di Benito Mussolini per indicare i gerarchi nelle varie città italiane. Per questa via la parola s’è poi affermata in anni più recenti per descrivere i notabili locali dei partiti, che vengono anche indicati – soprattutto dai giornali – con l’espressione signori (o padroni) delle tessere.
In quest’ultimo caso, il riferimento è al fatto che gli esponenti più importanti dei partiti erano spesso quelli che controllavano le adesioni ai partiti: lo facevano riuscendo a convincere centinaia o migliaia di persone a iscriversi in maniera più o meno lecita, ma spesso fittizia, nei momenti più delicati della vita di un movimento politico, per esempio prima dei congressi. Siccome in quei casi ogni iscritto vale un voto, fare iscrivere molte persone a ridosso di un’elezione per decidere il segretario locale o nazionale di un partito significava indirizzare l’esito della votazione. Chi era in grado di farlo si guadagnava prestigio e una reputazione poco lusinghiera: ma sono dinamiche che oggi hanno una rilevanza un po’ minore per via della perdita di radicamento territoriale dei partiti e dei loro esponenti, e che sono concentrate per lo più in alcune regioni del Sud.