Perché Israele si è ritirato da Khan Yunis?
Il governo ha detto che servirà a far riposare le truppe in vista dell'invasione di Rafah, ma molti si chiedono se e quanto c'entrino le crescenti pressioni internazionali per un cessate il fuoco
Il 7 aprile, esattamente sei mesi dopo l’attacco di Hamas in territorio israeliano, Israele ha annunciato di aver ritirato quasi tutte le truppe che operavano nella zona di Khan Yunis, una delle città principali del sud della Striscia di Gaza, lasciando solo una brigata composta da alcune migliaia di soldati. In questo modo l’esercito israeliano ha diminuito considerevolmente la propria presenza nel sud della Striscia, dove ora non ci sono più truppe con un ruolo di combattimento attivo (mentre rimangono soldati con ruoli di sorveglianza e protezione).
L’annuncio è stato accolto con sollievo dai palestinesi che si erano rifugiati a Rafah, la città più a sud della Striscia, al confine con l’Egitto, l’unica che Israele non ha ancora invaso militarmente via terra (ma che ha regolarmente bombardato in questi mesi): ormai da settimane ci si aspettava che l’invasione fosse imminente, anche se c’erano dubbi su come sarebbe avvenuta visto che nell’area nel frattempo si erano rifugiati moltissimi civili. Dopo il ritiro dell’esercito israeliano molti di loro hanno già cominciato a tornare a Khan Yunis, dopo essere stati costretti a lasciarla settimane fa per via dei combattimenti.
Al momento non è chiaro cosa abbia spinto Israele a ritirare, almeno temporaneamente, le truppe: il governo ha spiegato che questo servirà per permettere ai soldati di riposarsi prima dell’inizio della prossima fase della guerra, che secondo i piani di Israele prevederebbe l’invasione via terra di Rafah. Sembra quindi difficile che il ritiro delle truppe da Khan Yunis rappresenti l’inizio di una ritirata completa di Israele dalla Striscia di Gaza, mentre è più verosimile che sia stato deciso per permettere alle persone che abitavano nella zona di farvi ritorno e svuotare, in questo modo, la città di Rafah in vista di una futura offensiva. Molti però si stanno chiedendo se su questo modo di agire abbiano influito, e quanto, le crescenti pressioni internazionali per un cessate il fuoco, soprattutto da parte degli Stati Uniti, il maggiore alleato di Israele.
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«Ovviamente Israele non sta dicendo che si sta ritirando da Gaza, chiudendo la porta e abbandonando ogni intenzione di tornare. Sta dicendo il contrario, ossia che manterrà libertà operativa» nella Striscia, ha detto al quotidiano statunitense Washington Post Eran Etzion, ex vicedirettore del Consiglio nazionale di sicurezza israeliano. Negli ultimi mesi inoltre è già successo che le truppe israeliane si ritirassero da una certa parte della Striscia, per poi tornarci: per esempio l’ospedale al Shifa, nel nord della Striscia e dove secondo Israele si nascondevano molti miliziani di Hamas, era stato assediato a novembre e poi di nuovo a marzo.
Iniziare un ritiro completo dalla Striscia sarebbe contraddittorio rispetto a molte delle cose dette finora da Netanyahu, che ha più volte ripetuto come l’obiettivo di Israele sia «distruggere» completamente Hamas. In questi sei mesi di guerra l’esercito ha raggiunto alcuni obiettivi, ma non è ancora riuscito a catturare o uccidere nessuno dei principali capi militari di Hamas presenti a Gaza e non ha nemmeno eliminato del tutto le capacità operative del gruppo. Israele non ha nemmeno riportato indietro tutte le oltre 250 persone prese in ostaggio da Hamas durante il feroce attacco del 7 ottobre (si ritiene che almeno alcune siano morte), cosa che sta creando vari problemi politici interni e che sta facendo calare molto il consenso del governo di Netanyahu tra l’elettorato israeliano.
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Inoltre vari ministri del governo di Netanyahu continuano a dirsi favorevoli a una prosecuzione senza compromessi della guerra nella Striscia di Gaza. Lunedì per esempio il ministro israeliano della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, un estremista di destra piuttosto influente, ha scritto su X (Twitter) che Netanyahu «non avrà il mandato per continuare a ricoprire la carica di primo ministro» di Israele se la guerra nella Striscia di Gaza non terminerà con «un attacco esteso a Rafah per sconfiggere Hamas».
Mentre Netanyahu fa i conti con crescenti pressioni interne per continuare la guerra, gran parte della comunità internazionale è invece contraria a un’invasione di Rafah a causa delle drammatiche conseguenze che questa avrebbe sulla popolazione civile. Molti si stanno chiedendo se la decisione di ritirare le truppe da Khan Yunis sia dipesa in qualche misura dalle pressioni che Israele sta subendo da mesi dagli Stati Uniti, un suo storico alleato che però ultimamente si sta mostrando sempre più insofferente verso le violenze compiute dai soldati israeliani contro i civili nella Striscia (almeno a parole). È un punto importante: se fosse così significherebbe che il governo israeliano potrebbe essere disposto a ridurre l’intensità dei combattimenti, pur continuando le operazioni belliche a Rafah.
Venerdì il presidente statunitense Joe Biden, che nelle prime fasi della guerra si era schierato fermamente con Netanyahu, ha detto che in futuro il sostegno degli Stati Uniti dipenderà dalla capacità di Israele di proteggere i civili e gli operatori umanitari nella Striscia. Il governo statunitense non ha specificato cosa potrebbe cambiare concretamente, ma per Israele la crescente disapprovazione del suo principale alleato è di certo un problema.
Finora queste pressioni esterne hanno portato Israele ad ammettere di aver ucciso sette operatori dell’ong World Central Kitchen che operavano nel nord della Striscia e a sospendere i militari ritenuti responsabili dell’attacco. Israele ha inoltre annunciato la riapertura del varco di Erez, che collega il territorio israeliano alla Striscia di Gaza, e l’utilizzo del porto di Ashdod per consentire l’arrivo di aiuti umanitari nel nord di Gaza e aumentare le consegne direttamente dalla Giordania. Il ritiro delle truppe da Khan Yunis potrebbe essere un ulteriore segnale dell’intenzione di Israele di diminuire l’intensità dei combattimenti, pur senza fermarli del tutto.
Infine, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, la decisione di ritirare gran parte delle truppe dal sud della Striscia di Gaza potrebbe anche segnare l’inizio di una nuova fase della guerra, caratterizzata non più da grandi operazioni militari ma da attacchi più piccoli e mirati. Questo scenario ridimensionerebbe decisamente l’intenzione dell’esercito israeliano di invadere Rafah, ribadita più volte dal governo.
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