La diplomazia dell’insulto di Javier Milei
Negli ultimi tempi il presidente argentino ha litigato con toni assai coloriti e violenti con molti leader di sinistra della regione, che molto spesso hanno ricambiato gli insulti
Nella storia della diplomazia latinoamericana ci sono stati vari episodi, alcuni piuttosto noti, di insulti tra presidenti di diversi paesi: uno dei più conosciuti risale agli anni Ottanta, quando Fidel Castro, l’allora leader di Cuba, disse che il presidente statunitense Ronald Reagan era «un pazzo, un imbecille e un debole». Negli ultimi tempi questi insulti sono diventati ancora più coloriti e frequenti. Vari leader e diplomatici si sono dati del «fascista», «terrorista», «asino», membro del «club del pene piccolo»: il tutto in pubblico, e anzi attaccandosi con sempre maggior forza nel tentativo di ottenere visibilità.
In un suo articolo recente il Wall Street Journal ha raccontato che la gran parte di questa animosità è stata dovuta all’ingresso nel dibattito politico di Javier Milei, il presidente dell’Argentina. Milei fu eletto nel dicembre del 2023, ma per oltre un anno, per tutto il corso della campagna elettorale nel paese, aveva rivolto insulti e commenti eccessivi a vari leader internazionali. In generale negli ultimi anni in vari paesi della regione sono stati eletti leader dalla retorica poco avvezza ai convenevoli, che hanno contribuito ai recenti giri di insulti.
Hanno contribuito all’aggressività tra leader anche le divisioni politiche. In America Latina si è ormai creato un blocco di stati governati da forze politiche di sinistra che sono piuttosto solidali tra loro: tra questi ci sono Andrés Manuel López Obrador, il presidente del Messico; Gustavo Petro, presidente della Colombia; Gabriel Boric, presidente del Cile; e Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile. Dall’altro lato, Milei in pochi mesi si è fatto promotore di un blocco di leader decisamente di destra, al punto che l’Economist ha di recente parlato di una nuova «estrema destra» latina: tra questi ci sono Nayib Bukele, presidente di El Salvador; José Antonio Kast, candidato della destra arrivato al ballottaggio alle ultime elezioni presidenziali in Cile; e l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro.
Oltre alle divisioni ideologiche, c’è anche il fatto che in molti paesi dell’America Latina il dibattito politico è estremamente polarizzato: molti leader, per ragioni indipendenti l’uno dall’altro, hanno adottato retoriche estreme e divisive che poi hanno finito per riflettersi in diplomazia.
Succede anzitutto con Javier Milei – che non a caso è coinvolto nella stragrande maggioranza di queste dispute – il quale ha fatto dell’aggressività e degli insulti uno dei suoi tratti più riconoscibili. Milei definisce i suoi oppositori di sinistra in Argentina «parassiti inutili» ed «escrementi umani», e parte di questa retorica si è trasferita anche al di fuori del suo paese.
La retorica di Milei ha trovato negli altri leader regionali degli interlocutori pronti a rispondergli a tono. Il presidente messicano López Obrador, per esempio, pur essendo un politico molto più misurato di Milei, è sempre stato abituato a esprimersi in maniera assai diretta: tutti i giorni tiene una conferenza stampa trasmessa in televisione e diffusa sui social media in cui denuncia con veemenza i suoi nemici, attacca gli avversari e a volte se la prende con i giornalisti presenti, anche piuttosto duramente. Anche Gustavo Petro, il presidente della Colombia, ha una retorica spesso molto aspra.
Queste dinamiche sono poi favorite dai social media: alcune di queste dispute sono cominciate sui media tradizionali, ma quasi tutte si sono poi sviluppate su X (l’ex Twitter), dove le discussioni e i litigi sono diventati pubblici e in alcuni casi anche molto famosi e commentati. Questo perché, litigando con i loro colleghi internazionali, molto spesso i leader latinoamericani cercano di accreditarsi presso il proprio pubblico nazionale.
Dinamiche simili avvengono anche in Europa, dove capita spesso che i leader discutano in pubblico o sui social media. La differenza principale sta nella retorica, che in America Latina è molto più aggressiva sia per la differente polarizzazione politica sia, soprattutto, per la presenza di Milei.
Qualche settimana fa, durante un’intervista, Milei ha detto che «non ci si può aspettare molto» da Gustavo Petro, il presidente colombiano, perché è «un assassino terrorista». Petro, che in gioventù aveva partecipato a un movimento di guerriglia socialista (pur non usando mai le armi, e soprattutto non avendo mai ucciso nessuno), ha risposto per vie ufficiali: ha fatto espellere l’ambasciatore e tutti i diplomatici argentini in Colombia. Qualche giorno dopo però le cose si sono placate e i due paesi hanno ripristinato le loro relazioni diplomatiche.
Petro stesso è abbastanza abituato a questo tipo di baruffe retoriche: prima che diventasse presidente aveva paragonato Milei ad Adolf Hitler, e nei mesi scorsi aveva avuto uno scontro pubblico con Nayib Bukele quando aveva detto che le prigioni di El Salvador erano come «campi di concentramento». Bukele aveva poi risposto con una certa soddisfazione quando il figlio di Petro era stato coinvolto in un caso di riciclaggio di denaro.
Nella stessa intervista in cui dava a Petro dell’«assassino terrorista», Milei ha detto anche che il presidente del Messico, López Obrador, è un «ignorante». Milei aveva già insultato López Obrador durante la campagna elettorale argentina, quando aveva detto che il presidente messicano faceva parte del «club del pene piccolo», riferendosi alle persone che sono invidiose di lui e delle sue politiche economiche. Il presidente messicano ha risposto dandogli del «fascista conservatore».
C’è poi tutta una categoria di dispute in cui è coinvolto Nicolás Maduro, il presidente autoritario del Venezuela. Anzitutto con Milei: quando il presidente argentino vinse le elezioni, Maduro disse che aveva vinto «l’estrema destra neonazista». Più di recente gli aveva dato del «pazzo» e del «bandito», dopo che un tribunale argentino aveva deciso di sequestrare e consegnare agli Stati Uniti un aereo venezuelano atterrato in Argentina e sospettato di aver violato alcune sanzioni. «Hanno rubato il nostro aereo!», aveva detto Maduro.
Il governo venezuelano, che almeno in teoria sarebbe di sinistra, ha però avuto da ridire anche con i leader della sinistra democratica. Di recente il regime di Maduro ha messo in atto varie misure per impedire alla principale leader dell’opposizione di candidarsi alle elezioni di luglio. Quando Petro e Lula – due leader di sinistra, teoricamente più vicini al Venezuela – hanno espresso preoccupazioni per il processo elettorale, Jorge Rodríguez, il presidente dell’Assemblea nazionale del Venezuela, ha risposto: «Ficcatevi le vostre opinioni dove sapete».