Storia della mia rabbia
«Perché alcuni, come Sinner, riescono a trattenerla, domarla, addirittura recitarla, mentre altri si fanno travolgere e rovinare la vita? Guardando Sinner agli Australian Open mi sono detto che in fondo io conosco benissimo quel meccanismo: lo utilizzo spesso nel mio lavoro d’attore. C'è sempre della verità in chi recita, la rabbia di Sinner è recitata ma mica finta. Il problema è che è difficile ricordarsi di Sinner e degli esercizi di Jack Nicholson per "Shining" quando si è parecchio incazzati»
Il 26 gennaio scorso il tennista italiano Jannik Sinner ha battuto in semifinale agli Australian Open e per 3 a 1 il numero uno al mondo: Novak Djokovic. Per chi si ritrovasse a leggere questo articolo appena tornato da Marte, Jannik Sinner è il tennista italiano più vincente della storia, ha recentemente raggiunto il secondo posto nel ranking ATP, la classifica mondiale dei tennisti professionisti ed è internazionalmente riconosciuto oltre che per i meriti sportivi per una grande modestia, una certa galanteria e una calma assoluta. Durante il match con Djokovic c’è stato un momento di frustrazione del campione italiano quando ha perso l’unico set della partita. Evidentemente sconvolto dal furore, ha fatto qualcosa di imperdonabile: con una delle sue due borracce di plastica ha dato un colpettino leggero all’altra, facendola rotolare lentamente per terra. Un microscopico gesto di rabbia, nel quale si poteva comunque leggere la sua reale frustrazione. O forse, a guardar bene quel video, un gesto di rabbia simulata, come una piccola messa in scena. Una rabbia recitata ma vera; fidatevi di me: chi recita bene, dice sempre la verità.
La mattina della stessa giornata in cui ho visto quel video, mi ero svegliato male; capita. E dopo il traffico per andare a scuola, il traffico per tornare, la pioggia a dirotto e i pensieri alle bollette, alle scadenze, alle mille cavolate della vita, ero rientrato in casa con i nervi a fior di pelle. Anche la gatta doveva essere nervosa: mi ero dimenticato di lasciarle la finestra aperta e quella aveva infatti deciso di usare la mia dieffenbachia come cesso, per spargere poi il tutto sul parquet. Ovviamente me ne sono accorto dopo aver calpestato quella fanghiglia puzzolente con entrambi i piedi, già liberi dalle scarpe e guarniti solo dai calzini. Non ci ho visto più: ho raccolto il vaso e l’ho scaraventato a terra peggiorando lo stato del salotto, ferendo la mia pianta preferita e rovinandomi il resto della giornata. Più tardi, quando ancora ragionavo su quanto fossi un cretino, ho visto il video di Sinner e ho cominciato a domandarmi quale differenza ci fosse tra la mia esternazione rabbiosa e quella del tennista.
La rabbia, devo ammetterlo, è una costante abbastanza fissa della mia vita, tanto che qualche anno fa ho anche pensato di scrivere una raccolta di racconti comici che collezionasse una decina delle mie figuracce peggiori causate da attacchi d’ira: ho evitato di scriverla per imbarazzo. Perché è proprio questa una caratteristica della rabbia: ti rende cieco, non ti fa più sentire la presenza degli altri, ti fa sfidare pericoli dai quali in situazioni di calma ti terresti alla larga e ti rende ridicolo davanti a perfetti sconosciuti. La rabbia, la mia almeno, può essere infame e pericolosa. A volte resta silente, anche per mesi. Poi, di solito con l’avvicinarsi dell’inverno, comincia a farsi sentire come una specie di stanchezza; ti avverte. Sta lì, pronta, mimetizzata nella boscaglia nutrendosi di mille piccoli nervosismi partoriti da quella stessa stanchezza: una forchetta che cade a terra mentre lavi i piatti, le chiavi della macchina che non si trovano proprio quando hai una fretta del diavolo, l’acqua calda che finisce proprio mentre sei tutto insaponato. Lei è lì, prende appunti.
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Poi un giorno magari sei nel traffico di Palermo e qualcuno ti manda a quel paese al semaforo: lì la rabbia, ormai sazia e forte, si impadronisce di te, allora tu scali la marcia facendo stridere le gomme, senza sentire tua moglie che seduta accanto a te ti sta già supplicando di restare calmo. Ma davanti a te ora c’è solo quel neonazista, che ti ha superato da destra con il macchinone, perché è un neonazista, uno stronzo, un criminale. Allora arrivi all’altezza della sua macchina e scendi dalla tua, con le vene al collo, sbraitando come un pazzo e facendo girare tutti nell’arco di due chilometri, senza pensare, tra l’altro, che se sei alto quasi due metri e ti agiti in quel modo a qualcuno, magari, fai anche paura. E poi solo un «Amore ti prego!» urlato un po’ più forte da tua moglie ti fa rendere conto che il nazista è solo un povero impiegato, magari stanco e nervoso anche lui per gli stessi motivi per cui sei stanco e nervoso tu, e ti fa rientrare in macchina con la coda fra le gambe, il fiato corto, la faccia rossa di vergogna, la sensazione di voler chiedere aiuto e ti fa ricordare chi sei, quello in cui credi, cosa pensi della violenza, cosa pensi di chi scende dalle macchine per fare a botte o anche solo per far paura, alla tua età di padre di famiglia.
Ma cos’è la rabbia? Cosa succede nel corpo di chi la prova? Perché agisce in maniera diversa sulle persone? Perché alcuni, come Sinner (ho guardato tutta la partita registrata per vedere se anche nella finale di Miami avesse, chessò, sbuffato, ma niente è solo stato il solito incredibile campione), riescono a trattenerla, domarla, gestirla, addirittura recitarla, mentre altri dalla rabbia si fanno travolgere e rovinare la qualità della vita? E “travolgere” è la parola che meglio rappresenta come mi sento quando la rabbia mi coglie. Perché mi è successo tante volte di agire senza capire più niente e mettere in scena comportamenti che sempre generano conseguenze interne come il rimorso, la vergogna, il senso di colpa, l’autoflagellazione ed esterne come il deterioramento di relazioni sociali grandi o piccole, il giudizio degli altri, la condanna pubblica. Per non parlare del rischio di trovare prima o poi qualcuno che reagisca in maniera meno civile e compunta dell’impiegato in mezzo al traffico.
La rabbia, lo abbiamo imparato guardando quel capolavoro che è Inside Out della Pixar, fa parte delle cinque emozioni primarie che, oltre questa, sono: tristezza, gioia, disgusto, paura. Sono primarie perché innate e universali: le proviamo tutti, le proviamo da sempre e le proviamo da sempre nello stesso modo. Le emozioni primarie ci proteggono, ci consentono di decodificare la realtà: se sono un uomo dell’età della pietra e annusando provo disgusto, magari evito di avvelenarmi mangiando della carne marcia, se provo un filo di paura a vedere una tigre preistorica coi denti a sciabola che staziona davanti alla mia caverna, forse evito di uscire per un paio d’ore, se infine mi rendo conto che c’è una minaccia esterna, grazie alla rabbia magari capisco che ho bisogno di difendermi e se questa rabbia la canalizzo bene magari capisco anche come. Questo significa che so riconoscere la realtà esterna rispetto alla mia realtà interna emotiva. Riesco a vedere chiara la differenza tra le due cose, quindi modulo la mia emozione in funzione dello stimolo esterno.
Per questo motivo, forse, la rabbia di Sinner la intendo simulata. Non è buttata al vento, urlata, non ha bisogno di farsi notare. Sinner evidentemente canalizza la sua rabbia; sembra riconoscerla come emozione primaria. Gli è utile per vedere il momento di crisi e capire da cosa è causato, gli consente di cercare soluzioni. È sicuramente una parte del suo allenamento quella di imparare a controllare le proprie pulsioni ed è sicuramente fondamentale. Guardando Sinner mi sono detto che in fondo io conosco benissimo quel meccanismo: lo utilizzo spesso nel mio lavoro d’attore.
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Quando sei chiuso dentro la gabbia di un personaggio, spetta a te provare a muoverti dentro di lui con paradossale libertà. E oltre al copione, le indicazioni del regista, una certa tecnica, il bagaglio più importante al quale un attore può attingere sono le proprie emozioni. Mai o quasi mai però le emozioni che ci portiamo sul set da casa sono le stesse che ci serviranno in quella giornata di lavoro, allora non ci resta che prenderle e canalizzarle, utilizzarle, forse in qualche modo trasformarle e metterle da qualche parte dentro il personaggio che stiamo interpretando. Io non ho fatto accademie, ho studiato recitazione poco e solo dopo aver iniziato a recitare sul set. Sono stato fortunato, in qualche modo, certo. Fatto sta che io non utilizzo particolari tecniche, non cerco di diventare il personaggio che sto interpretando, cerco appunto di portare dentro di lui una parte di me.
C’è da sempre tra gli attori italiani una diatriba che possiamo chiamare la questione “Mastroianni-Volonté”, e che deriva dal metodo Strasberg a cui si sono formati molti dei più importanti attori americani del secondo Novecento, da Marlon Brando a James Dean ad Al Pacino, da Anne Bancroft a Shelley Winters a Jane Fonda. Senza scendere troppo in dettaglio: l’idea di Lee Strasberg e Stella Adler, che a sua volta derivava dalla scuola dell’attore russo Konstantin Stanislavski, era che chiunque potesse diventare davvero qualcun altro, ospitando e ricreando in sé le sue emozioni. Sicuramente tutti hanno presente quanto Volonté fosse tecnico nelle sue interpretazioni pur splendide: negli accenti, nella postura, nella trasfigurazione fisica. Volonté diventava altro. Mastroianni, al contrario, portava sul set la sua naturalezza, leggeva il copione solo una volta e poi lo dimenticava, forse sbagliava qualche accento, ma vedevi il suo cuore nei suoi personaggi, la sua anima e forse pure un po’ la sua testa, il suo pensiero. Entrambi, innegabilmente, pur recitando, dicevano sempre la verità.
Io, con le dovutissime differenze, cerco di fare come Mastroianni, più per ignoranza credo, per mancanza di una tecnica affilata ma anche per una questione di gusto, in fondo. Forse è per questo che non so gestire la mia rabbia? Come mi comporto io, e come fanno gli altri, quando ci si deve incazzare per finta? Quando si è colti da una furia cieca nel corpo succede una trasformazione. Immaginiamo il corpo come un’orchestra, fatta di muscoli, nervi, cellule che suonano dirette dalle emozioni. Ecco, quando a dirigere l’orchestra ci si mette la rabbia, allora la musica si fa più intensa, più frenetica. Aumenta quindi la frequenza cardiaca, le mani sudano e si serrano a pugno, i muscoli si irrigidiscono, come se fossero pronti all’azione, come se ci si preparasse a una battaglia. Esiste un famoso documentario girato da Vivian Kubrick, all’epoca diciassettenne, sul set di Shining, capolavoro del padre Stanley. In una scena si vede Jack Nicholson saltellare, iperventilare e prepararsi alla scena in cui sfonda la porta del bagno con l’accetta. Senza voler togliere sacralità alla sua preparazione, in fondo quello che Nicholson fa in quel momento è questo: sta accelerando la frequenza cardiaca, sta cambiando il suo corpo. Perché sa che se il corpo cambia e si trasforma, tutto cambia.
Anche se non sono Jack Nicholson e non mi è mai capitato di dover recitare qualcuno che insegue sua moglie e suo figlio con un’accetta, quello che faccio io quando devo recitare la rabbia è più o meno creare il ricordo della mia rabbia vera, nascosta, suscitare il ricordo della mia trasformazione fisica. Comincio a respirare un po’ più forte, faccio sì che la frequenza cardiaca aumenti un pochino e poi lascio fare al mio corpo: fidarsi della memoria del corpo, per me, sul set, è sempre una grande risorsa. Quando ho con me tutti gli strumenti necessari a recitare la rabbia, comincio a utilizzarli a seconda della scena: ho la benzina nel serbatoio, posso usarla tutta insieme in una accelerazione oppure dosarla a seconda della necessità. Quando però il regista darà lo stop, nello stesso modo in cui ho utilizzato quella benzina, posso decidere di non utilizzarla più, posso girare una scena successiva in cui magari devo essere allegro e felice e posso pure andare a pranzo con gli altri durante la pausa senza rovinarmi il resto della giornata.
Per questo sono convinto che ci sia sempre della verità in chi recita, per questo penso che la rabbia di Sinner sia recitata ma mica finta. Sinner sul campo da gioco usa la rabbia, non ne viene usato. Guardandolo, ho capito che è una cosa che so fare pure io, e che me lo devo ricordare la prossima volta che qualcuno mi manda affanculo al semaforo. È da tempo che lavoro sulla gestione della mia rabbia, eppure non ci avevo mai pensato. Guardare quel video è stata una folgorazione. Il problema è che è difficile ricordarsi di Sinner e di Jack Nicholson quando si è parecchio incazzati. Ognuno trova la sua chiave, il suo modo. Personalmente, la psicoterapia mi sembra quello migliore per decodificare, per non farmi travolgere, per parlarne ad alta voce senza giudicarmi, e forse per guardare in faccia davvero la mia rabbia. Da qualche tempo, da quando ho cominciato a ragionarci su, ho spaccato solo altri due vasi.
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