A cosa ci serve dare un nome proprio agli oggetti?
È un meccanismo psicologico che può aiutare ad affezionarsi di più alle cose attribuendo loro maggiore valore, e quindi ad averne più cura
Il musicista e cantante blues B.B. King era particolarmente affezionato a una sua chitarra, una Gibson ES-335 nera, a cui aveva dato il nome di Lucille. Il nomignolo nacque all’inizio della sua carriera, durante un concerto in Arkansas, che fu interrotto da un incendio nel locale. Mentre tutti fuggivano all’esterno, King decise di tornare dentro per salvare la sua chitarra. Il giorno dopo venne a sapere che l’incendio era stato causato da una stufa a cherosene che si era rovesciata durante una lite tra due uomini. I due litigavano per una donna che si chiamava Lucille e King decise di dare lo stesso nome alla sua chitarra: «per ricordarmi di non fare più una cosa simile», raccontò in seguito.
La pratica di dare un nome di persona agli oggetti a cui siamo affezionati è molto diffusa. Secondo uno studio commissionato da una società assicurativa negli Stati Uniti nel 2013, quasi il 25% degli statunitensi avrebbe dato alla propria auto «un nome speciale», e lo stesso viene fatto con altri mezzi di trasporto personale, dispositivi elettronici e strumenti da lavoro, dai camion alle macchine da cucire.
Quella che sembrerebbe un’abitudine scherzosa secondo alcuni studi nasconde in realtà un meccanismo psicologico con cui diamo qualità umane agli oggetti che ci circondano. Il fenomeno non si limita ai nomi di persona, ovviamente: alcune ricerche hanno dimostrato che le persone tendono a fidarsi di più di macchinari dotati di caratteristiche antropomorfe, ovvero che ricordano la forma del corpo umano. Nel caso delle automobili in grado di guidarsi da sole, ad esempio, le persone si fidano di più di quelle dotate di volante (anche se non c’è un guidatore a manovrarlo) o di un’interfaccia vocale.
Nicholas Epley, autore del saggio Mindwise: How We Understand What Others Think, Believe, Feel, and Want, sostiene che gli esseri umani tendono ad antropomorfizzare anche oggetti che presentano caratteristiche simili a quelle umane, come nel caso dei fanali delle automobili, spesso progettati per assomigliare a occhi. In uno studio pubblicato nel 2016 dal Journal of Experimental Psychology: General, di cui Epley è stato co-autore, i partecipanti si sono dimostrati più propensi a credere che un testo generato al computer fosse stato scritto da un essere umano quando a leggerlo era un’altra persona rispetto a quando lo leggevano loro stessi.
Chiamare un oggetto con un nome di persona può avere diverse funzioni, tra tutte quella di renderlo più facile da riconoscere. Il linguista David Peterson, che ha lavorato alle lingue inventate della serie Il trono di spade, ha spiegato al sito The Cut che anche l’abitudine di dare nomi (spesso femminili) alle imbarcazioni nacque per motivi di comodità, per comunicare velocemente quale barca aveva bisogno d’assistenza in porto. Col tempo, però, dall’esigenza pratica è nata una tradizione – e una prassi – favorita anche dal legame affettivo che si crea tra una barca e il suo proprietario.
Secondo Peterson, quando si parla di oggetti personali c’è «una differenza tra il livello di importanza attribuito e quello di attaccamento emotivo». Questo spiega perché le persone tendono a dare un nome ad auto, moto e barche e non a oggetti comuni e d’uso quotidiano. Anche se il fattore economico ha sicuramente un peso – comprare una barca è un investimento diverso dall’acquistare una penna a sfera, per esempio – non sono sempre gli oggetti più costosi a essere chiamati per nome. E nemmeno quelli che usiamo di più, altrimenti sarebbe molto diffusa la pratica di dare nomignoli agli smartphone, che sono invece percepiti come facilmente sostituibili (a cicli di alcuni anni) e rimpiazzabili con modelli nuovi e migliori.
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La vera discriminante sembra quindi essere il fattore sociale, il rapporto con gli altri: «Se dai un nome a qualcosa, c’è la possibilità che qualcuno sentirà quel nome», ha concluso Peterson. Un nome è quindi fatto per essere condiviso con gli altri, motivo per cui talvolta viene proprio scritto sull’oggetto stesso, come nel caso delle imbarcazioni.
In un altro studio pubblicato nel 2018 dal Journal of Consumer Psychology, ai partecipanti venne chiesto di dare un nome a diversi oggetti d’ogni giorno, come tazze o pinzatrici, per poi confrontarli con sostituti senza nome. L’esperimento serviva a misurare il naming effect, l’effetto dato dal nominare qualcosa, e la sua capacità di aumentare il senso di «proprietà psicologica», uno stato in cui «un individuo percepisce un oggetto come di sua proprietà senza possederlo fisicamente o legalmente». Molti partecipanti finivano quindi per attribuire un valore più alto all’oggetto con nome, rendendo quest’ultimo meno soggetto a sostituzioni, un comportamento che l’Atlantic ha definito «l’opposto del consumo sconsiderato».
Soonkwan Hong, un docente della Michigan Tech University intervistato dall’Atlantic, ha spiegato che il comportamento dei consumatori può essere di due tipi: profano o sacro. Il primo caso riguarda gli acquisti di beni ordinari, mentre il secondo include i consumi influenzati dai nostri valori personali e a cui attribuiamo un significato profondo. Hong sostiene che più un oggetto è legato al nostro senso di sé, più tendiamo a vederlo come un singolo, un unico, e ad averne cura, sostituendolo meno facilmente. «È un modo di demercificare un bene», ha spiegato Hong, e quindi di privare un oggetto del suo stato di merce e della sua natura commerciale.