Non sappiamo ancora se la privatizzazione di Poste Italiane conviene
Finora il governo non ha dato informazioni chiare sull'operazione: la vendita di alcune quote servirà a ridurre il debito pubblico, ma porterà allo Stato anche minori dividendi
Mercoledì le commissioni Trasporti e Bilancio della Camera hanno dato il proprio parere favorevole al decreto con cui il governo ha deciso di vendere una parte delle quote azionarie di Poste Italiane possedute dal ministero dell’Economia. Il provvedimento era un decreto del presidente del Consiglio (DPCM) ed era stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 25 gennaio scorso: dopo aver ottenuto il parere favorevole di tutte le commissioni competenti alla Camera e al Senato, dovrà tornare in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva.
L’obiettivo della misura è essenzialmente ridurre il debito pubblico tramite i guadagni della vendita delle quote di Poste Italiane detenute dallo Stato. Fa parte di un più ampio piano di privatizzazioni di alcune società pubbliche con cui il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni intendono ricavare complessivamente circa 20 miliardi di euro entro il 2026. Nonostante l’approvazione del DPCM su Poste Italiane sia ormai in una fase piuttosto avanzata, però, negli scorsi giorni il governo ha dimostrato di non avere ancora ben chiaro quanto pensa di ricavare dall’operazione, rifiutandosi inoltre di dare indicazioni esatte sulle previsioni di riduzione del debito pubblico e degli interessi connessi che ogni anno il ministero dell’Economia deve pagare.
Poste Italiane è una società pubblica, controllata dallo Stato per il 64 per cento del suo capitale sociale. Il ministero dell’Economia (MEF) ha attualmente una partecipazione diretta del 29,26 per cento e una quota indiretta del 35 per cento tramite Cassa depositi e prestiti (CDP), la società pubblica che gestisce i risparmi postali degli italiani e che è controllata dal ministero stesso. Fino a pochi anni fa il MEF deteneva quote di Poste Italiane ben più alte. Ancora nel 2015 la controllava interamente, ma il governo di Matteo Renzi decise di venderne circa il 35 per cento, ricavando poco più di 3 miliardi di euro che contribuirono alla riduzione del debito pubblico (lo Stato è obbligato per legge a usare i soldi delle privatizzazioni per la riduzione del debito). Nel 2016, poi, lo stesso governo decise di trasferire a CDP un altro 35 per cento del capitale della società: in quanto controllata dal ministero, comunque, CDP è obbligata per legge a seguire le sue direttive nella gestione delle proprie quote in altre società, com’è nel caso di Poste.
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Ora il decreto del governo di Meloni prevede un’ulteriore vendita delle quote, però con una clausola secondo cui la partecipazione dello Stato al capitale di Poste Italiane non deve scendere al di sotto del 35 per cento complessivo, comprendendo in questa cifra sia le quote detenute direttamente dal MEF, sia quelle detenute indirettamente attraverso CDP. In teoria, dunque, il MEF potrebbe vendere tutte le sue quote e garantire comunque un sostanziale controllo pubblico di Poste Italiane tramite la partecipazione di CDP.
Il 27 marzo scorso, spiegando il contenuto del decreto alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, il ministro Giorgetti aveva evitato di indicare con esattezza quali fossero le aspettative del governo sui ricavi derivanti dall’operazione. Giorgetti aveva spiegato che le risorse «dipenderanno dall’ammontare della quota che sarà collocata sul mercato», cioè quante delle sue azioni lo Stato deciderà di privatizzare: un’ovvietà. Al momento in ogni caso non si sa a quanto corrisponda questa quota. Se si vendesse l’intera partecipazione direttamente detenuta dal MEF, cioè il 29,6 per cento, il ricavato calcolato «sulla base dei più recenti dati di mercato disponibili potrebbe ammontare a circa 4,4 miliardi», aveva detto Giorgetti. Ma è un’ipotesi piuttosto remota: i funzionari del ministero lasciano intendere che verrà messa sul mercato una quota inferiore.
Resta comunque difficile stimare una percentuale esatta che mostri la convenienza immediata dell’operazione. Lo Stato guadagnerà perché il MEF potrà emettere meno titoli di Stato, cioè si indebiterà meno, per finanziare le spese necessarie al funzionamento delle amministrazioni pubbliche, e in questo modo risparmierà in termini di interessi passivi. Ogni anno infatti l’Italia fa centinaia di miliardi di euro di debito per il funzionamento della pubblica amministrazione: nel 2024, in linea con quanto già successo nel 2023, le emissioni di titoli di Stato saranno pari a circa 360 miliardi di euro, che si aggiungono all’enorme debito pubblico già accumulato (2.863 miliardi alla fine del 2023, secondo Banca d’Italia). Per ripagare queste emissioni lo Stato spende circa 80 miliardi di euro all’anno di interessi: una cifra molto alta, e che secondo le previsioni del ministero dell’Economia è destinata a salire ancora di qui al 2026.
Fare meno debito significa dunque dover pagare minori interessi. Stando ai calcoli forniti dal ministro Giorgetti il 27 marzo scorso, questo risparmio sarà di «circa 200 milioni annui». Il calcolo sulla convenienza dell’operazione in programma con Poste Italiane però non si esaurisce qui. Il ministero dell’Economia infatti ogni anno incassa dei dividendi di Poste Italiane, cioè quella quota di utili che l’azienda distribuisce ai propri azionisti in maniera proporzionale alla loro partecipazione al capitale sociale: sono insomma ciò che gli azionisti incassano a fine anno dato che possiedono un pezzo dell’azienda, attraverso le loro azioni. Vendendo una parte consistente delle sue quote di Poste Italiane, il ministero dell’Economia incasserà meno dividendi.
Giorgetti ha detto che nel 2023 il ministero ha ricavato 259 milioni di euro dai dividendi che derivano dalla quota di Poste Italiane che potenzialmente potrebbe vendere, cioè poco meno del 30 per cento (il resto, come dicevamo, non può venderlo perché non può scendere sotto al 35 per cento di partecipazione). Secondo le previsioni inserite nel piano industriale di Poste, questo ricavo potrebbe crescere fino a circa 320 milioni di euro nel 2024. Sul piano strettamente contabile, quindi, l’operazione sarà in perdita: il confronto tra mancati dividendi e minori interessi passivi sul debito farà mancare allo Stato «poco meno di 100 milioni annui», ha detto Giorgetti.
Nonostante questa perdita, ci sono comunque ragioni per sostenere la bontà dell’operazione. La riduzione del debito pubblico, che è il principale problema della finanza pubblica italiana, sarebbe un segnale positivo che i mercati e gli investitori internazionali valuterebbero positivamente. Il piano di privatizzazioni da circa 20 miliardi di euro in tre anni è un obiettivo estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile che il governo si è dato, ma è da questo che dipende la possibilità di non far salire il debito pubblico nei prossimi tre anni. L’apertura al mercato di una società pubblica può avere inoltre buone ricadute sull’efficienza aziendale e di competitività.
Le uniche cifre sull’operazione, peraltro comunicate in modo un po’ approssimativo nel corso di un’audizione, sono quelle di Giorgetti. Non c’è una relazione tecnica con stime più precise o quantomeno ufficiali, come spesso avviene per provvedimenti economici così importanti. Mercoledì alcuni deputati di opposizione hanno chiesto al governo previsioni più definite durante la riunione della commissione Bilancio, ma il sottosegretario all’Economia Federico Freni, della Lega, ha evitato di darle.
Sollecitato da Luigi Marattin di Italia Viva e da Maria Cecilia Guerra del Partito Democratico, Freni ha risposto che per ora «non è possibile quantificare il risparmio atteso in termini di minore spesa per interessi passivi», perché molto dipenderà dal tasso d’interesse a cui verranno venduti i titoli di Stato al momento della loro emissione. Marattin ha risposto polemicamente dicendo che questo tipo di previsioni è esattamente quello su cui si basano i principali studi che il ministero dell’Economia elabora, come ad esempio il Documento di economia e finanza (DEF) che il governo si appresta ad approvare e a inviare al parlamento entro il 10 aprile. Secondo le opposizioni il governo si rifiuta di indicare cifre dettagliate per non ammettere che, al momento, l’operazione è in perdita.