Come se ne andò Kurt Cobain
Rinnegando il successo di “Nevermind” e scrivendo a modo suo “In Utero”, pochi mesi prima della sua morte il 5 aprile di 30 anni fa
Quando Kurt Cobain morì, il 5 aprile di trent’anni fa, il grunge era diventato un fenomeno di costume così grande e redditizio da contraddire gli stessi principi su cui era stato fondato. Questa musica aveva iniziato a diffondersi verso la metà degli anni Ottanta nei dintorni di Seattle, la città più popolosa dello stato di Washington, grazie allo spazio che etichette sperimentali come C/Z e Sub Pop Records concessero a gruppi locali come Mudhoney, Screaming Trees e Soundgarden.
L’idea di fondo del grunge era distruggere le derive commerciali ed edonistiche che caratterizzavano i gruppi rock che andavano per la maggiore in quegli anni, per ritornare alla filosofia do it yourself tipica del punk, fondata sul concetto di autoproduzione, sul disprezzo dei virtuosismi e sull’idea che chiunque potesse mettere su una band e iniziare a suonare.
Per tutti questi motivi, nei suoi primi anni il grunge sembrava destinato a rimanere una musica “sotterranea”: veniva ascoltato in un’area geografica piuttosto circoscritta (Seattle e dintorni, per l’appunto), le canzoni circolavano su cassette registrate in maniera rudimentale, la musica era costruita su pochi accordi e i testi, basati in tutti i casi su una disperazione piuttosto ostentata, sembravano poco adatti per il grande pubblico.
La percezione del grunge cambiò proprio grazie al contributo fondamentale di Cobain, che agli inizi degli anni Novanta divenne uno dei musicisti più famosi e acclamati al mondo. La sua notorietà crebbe in particolare a partire dal 1991, quando fu pubblicato il secondo album dei Nirvana, la band che aveva fondato nel 1987 insieme al bassista Krist Novoselic: si intitolava Nevermind, e anche se fu registrato con una certa fretta e con un batterista recuperato all’ultimo momento (Dave Grohl, oggi cantante dei Foo Fighters) ottenne sin da subito un successo enorme.
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Prima di allora i Nirvana si erano fatti conoscere nel circuito underground di Seattle con Bleach (1989), il loro disco di esordio, recensito positivamente dalle riviste musicali più attente alle novità che arrivavano dal rock alternativo – in particolare quelle britanniche, come NME e Melody Maker, che seguivano con un certo interesse le pubblicazioni di Sub Pop Records – ma poco considerato dal mercato. Conteneva pezzi che oggi sono considerati dei classici dei Nirvana, come “About a girl” e “School”, ma non riuscì a uscire dalla bolla del grunge anche per via dell’assenza di un canale di distribuzione adeguato.
Con l’uscita del secondo album, lo status dei Nirvana cambiò radicalmente: divennero un gruppo dal seguito enorme, paragonabile a quello delle popstar che andavano per la maggiore all’epoca. Inizialmente Nevermind fu spinto ai primi posti delle classifiche dei dischi più venduti da “Smells Like Teen Spirit”, il primo singolo dell’album, che divenne un tormentone anche grazie al suo video ufficiale (quello in cui Cobain, Grohl e Novoselic suonano in un set che ricorda la palestra di una scuola), mandato in onda a rotazione su MTV e ricordato ancora oggi come uno dei più rappresentativi degli anni Novanta.
“Smells Like Teen Spirit” fu soltanto uno dei fattori che contribuirono alla fama mondiale di Nevermind. Oltre a contenere almeno altre tre canzoni solide e nello stile del primo singolo (“Come as You Are”, “Lithium” e “In Bloom”), il disco entrò nell’immaginario collettivo anche grazie a una delle copertine più iconiche della storia della musica rock: quella che ritrae un neonato (Spencer Elden, che una volta trentenne provò a fare causa per sfruttamento alla band) immerso in una piscina, davanti a una banconota appesa a un amo.
L’altro motivo del successo dei Nirvana fu la mitologia che pubblico e stampa costruirono attorno a Cobain: la sua bellezza, il suo fare schivo e riservato, la sua scarsa disponibilità a farsi intervistare e la travagliata relazione sentimentale con la cantante e attrice Courtney Love, che divenne pubblica pochi mesi dopo la pubblicazione di Nevermind, lo resero un personaggio interessante da raccontare anche al di fuori della nicchia delle riviste specializzate.
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L’altro fattore che portava spesso Cobain al centro dell’attenzione mediatica era la sua dipendenza dall’eroina, una sostanza che occupò una parte enorme della sua carriera: già prima dell’uscita di Nevermind, la sua inaffidabilità e la sua tendenza agli eccessi diventarono proverbiali nell’ambiente, e spesso rischiarono di compromettere i rapporti interni alla band, come raccontato in qualche occasione da Novoselic.
Anche se Nevermind viene considerato da diversi critici come l’ultimo album che cambiò realmente qualcosa nella storia del rock, Cobain finì per odiarlo. Negli ultimi anni della sua vita lo criticò spessissimo, lamentandosi in particolare del lavoro di Butch Vig, il produttore del disco, che a suo dire lo avrebbe indirizzato verso dei suoni eccessivamente pop (anche se Nevermind fu infine perfezionato da Andy Wallace, che due anni prima aveva curato Seasons in the Abyss degli Slayer). «Ripensando alla produzione di Nevermind, adesso ne sono imbarazzato. È più vicino a un disco dei Motley Crue [una band metal molto commerciale] che a un disco punk rock», disse in un’intervista al giornalista Michael Azerrad per il libro Come as You Are: The Story of Nirvana (1993).
Cobain mostrava una certa ritrosia anche quando gli veniva chiesto di dire qualcosa su “Smells Like Teen Spirit”, la sua canzone più famosa, che dopo l’uscita dell’album suonò dal vivo sempre più raramente. Intervistato da Rolling Stone nel gennaio 1994, tre mesi prima della sua morte, disse che “Smells Like Teen Spirit” aveva ottenuto successo soltanto perché «la gente ha visto il video su MTV un milione di volte», al punto che «gli è stato piantato nel cervello». Disse anche che “Smells Like Teen Spirit” oscurò alcune canzoni di Nevermind che reputava molto più valide e significative, come per esempio “Drain You”.
Per evitare di essere associato a un tipo di musica a suo avviso frivola e commerciale, Cobain decise che il terzo album dei Nirvana avrebbe dovuto assecondare il meno possibile i gusti e le aspettative del pubblico. Lo concepì come un album estremamente personale, in cui raccontare una parte della sua vita privata – il matrimonio con Courtney Love, il difficile rapporto con suo padre – e omaggiare alcuni dei suoi dischi preferiti, come Surfer Rosa dei Pixies e Pod delle Breeders. Erano stati entrambi supervisionati da Steve Albini, chitarrista e produttore di enorme culto, che tra gli anni Ottanta e Novanta si fece conoscere con due band noise rock parecchio influenti (Big Black, Rapeman) e per alcune peculiarità del suo processo di missaggio.
Come ha ricordato lo storico d’arte Christian Caliandro, Albini definiva i dischi che curava “performance-based records”: mentre la maggior parte dei produttori del tempo registrava i vari musicisti separatamente e univa tutte le tracce in un secondo momento, la tecnica di Albini consisteva nel registrare il gruppo mentre suonava insieme e nel catturare il riverbero in modo naturale, attraverso decine di microfoni che venivano posizionati in diverse parti della stanza. Aveva insomma la fama di un produttore che tendeva a interferire pochissimo nel processo di registrazione (lui stesso preferiva definirsi un ingegnere del suono) e che riusciva a riprodurre su disco il vero suono delle band, quello dei concerti.
In una famosa lettera che mandò ai Nirvana nel 1992, chiedendo a Cobain, Grohl e Novoselic di diventare il produttore del loro nuovo disco, scrisse:
Molti produttori e ingegneri del suono contemporanei concepiscono il disco come un “progetto”, e la band come uno dei tanti elementi parte di questo progetto. Inoltre, molti pensano alla registrazione come a una stratificazione di suoni, ognuno dei quali attentamente controllato dal momento in cui viene prodotto fino al mixaggio finale. Il mio approccio è totalmente diverso.
Per me la band viene al primo posto: la considero un’entità creativa che esprime sia la propria personalità sia il proprio stile, ma anche un’entità sociale di persone che vivono nel mondo per 24 ore ogni giorno. Non credo sia mio compito dirvi cosa fare o suggerirvi come suonare. Sono favorevole a dire la mia (se penso per esempio che la band stia facendo un ottimo lavoro oppure, al contrario, che stia sbagliando qualcosa – del resto è parte del mio compito), ma se una band decide che una certa cosa vada fatta, la eseguo.
Le registrazioni del nuovo disco, che Cobain chiamò In Utero (quasi a volere sottolineare un ritorno al suono delle origini, simboleggiato dalla metafora del grembo materno) furono completate in un paio di settimane, tra il 12 e il 26 febbraio 1993, nei Pachyderm Studios di Cannon Falls, in Minnesota. Alcune canzoni mantennero la dinamica lento-veloce-lento che aveva caratterizzato i brani più famosi dei Nirvana, mentre altre recuperarono dal passato alcuni stilemi piuttosto insoliti, perlomeno per un gruppo associato al grunge: ne è un esempio il riff di chitarra di “Dumb”, che la critica del tempo definì “beatlesiano”.
L’altro cambiamento riguardò la scrittura di Cobain, che pur rimanendo caratterizzata dalla stessa disperazione di fondo divenne meno ermetica e inaccessibile. Il primo verso di “Serve the Servants” (“la rabbia giovanile ha pagato bene, ma ora mi sento annoiato e vecchio”), la canzone che apriva il disco, distruggeva l’immagine che pubblico e stampa avevano cucito addosso ai Nirvana. Il riff di chitarra di “Rape Me” invece faceva il verso a quello di “Smells Like Teen Spirit”, ma a differenza di quest’ultima, il cui testo era volutamente nonsense e costruito utilizzando la tecnica dadaista del cut-up, raccontava in maniera molto cruda lo stupro subito da una ragazza. Il singolo del disco, quello che avrebbe dovuto trainarlo in classifica, fu invece “Heart-Shaped Box”, che nel titolo riprendeva uno dei primi oggetti che gli erano stati regalati da Courtney Love, nel frattempo diventata sua moglie.
Come Nevermind, anche In Utero confermò quanto Cobain fosse un autore di canzoni formidabile, nonostante una parte di critica lo definisse un dilettante sprovvisto delle basi teoriche necessarie per occuparsi di musica. In realtà, anche se adottava un approccio piuttosto anarchico alla scrittura delle canzoni, oggi la sua attività da compositore è molto apprezzata.
Per esempio, su Stereogum Vivek Maddala ha scritto che lo stile di Cobain «consisteva nel creare significato e coerenza senza fare affidamento su convenzioni musicali consolidate», rifiutando in particolare i principi dell’armonia funzionale, ossia l’idea secondo cui gli accordi in una data tonalità abbiano dei compiti predefiniti da svolgere. Cobain si discostò da questo canone, utilizzando successioni di accordi che sembravano non avere assolutamente nulla in comune e ricavandone risultati convincenti e orecchiabili: insomma, si lasciava convincere dalla resa del suono, senza prestare troppa attenzione alle convenzioni e agli schematismi con cui si era soliti pensare la musica rock in quegli anni.
Una parte di pubblico avversava Cobain anche per il suo modo di suonare la chitarra, in particolare i puristi della tecnica e dei virtuosismi. Questo perché costruiva dei riff molto semplici e replicabili da chiunque, anche da chitarristi alle primissime armi, discostandosi molto dallo stile funambolico dei guitar hero che avevano dominato il rock mainstream negli anni Ottanta. Per questo motivo, quando riviste come Rolling Stone lo piazzavano alle prime posizioni delle loro discusse classifiche sui chitarristi più importanti di sempre, le persone impallinate con la difficoltà di esecuzione degli assoli non la prendevano benissimo.
La maggior parte della stampa specializzata parlò benissimo di In Utero e apprezzò il cambio di direzione di Cobain: Christopher John Farley scrisse su Time che «nonostante i timori di alcuni fan della musica alternativa, i Nirvana non sono diventati mainstream, anche se questo nuovo album potrebbe costringere di nuovo il mainstream a diventare Nirvana», mentre David Fricke scrisse su Rolling Stone che il disco «è un sacco di cose: brillante, corrosivo, rabbioso e premuroso». La critica britannica, notoriamente più severa e meno incline ad accogliere con entusiasmo la musica prodotta dai gruppi che andavano per la maggiore oltreoceano, fu invece un po’ più scettica. Su NME John Mulvey scrisse per esempio che «come testimonianza di una mente in continuo mutamento – esitante, insoddisfatta, incapace di venire a patti con la sanità mentale – Kurt dovrebbe essere orgoglioso dell’album. Come seguito di uno dei migliori dischi degli ultimi dieci anni, semplicemente non ci siamo».
Poco più di due mesi dopo l’uscita di In Utero, i Nirvana si esibirono nel loro concerto più famoso in assoluto, l’Unplugged in New York organizzato da MTV, ricordato ancora oggi per la peculiare scaletta proposta da Cobain, che non sfruttò l’occasione per promuovere le canzoni del nuovo disco. I Nirvana suonarono infatti otto dei loro pezzi meno famosi e sei cover, tutte – a eccezione di “The Man Who Sold the World” di David Bowie – di gruppi e autori mezzi sconosciuti o dimenticati, tra cui “Jesus Doesn’t Want Me For A Sunbeam”, un antico inno cristiano riarrangiato dai Vaselines.
Oggi In Utero è un disco generalmente molto apprezzato, e viene spesso descritto come una sorta di testamento artistico di Cobain, che morì pochi mesi dopo la pubblicazione dell’album. Il suo corpo fu trovato l’8 aprile 1994 nella sua casa vicino al lago Washington, nei dintorni di Seattle: la polizia stabilì che si era suicidato tre giorni prima, sparandosi un colpo di fucile. Aveva 27 anni. Nei suoi ultimi mesi di vita, Cobain finì spesso in Italia. Alla fine di febbraio 1994 i Nirvana suonarono alcuni dei loro ultimissimi concerti, al PalaTrussardi di Milano, al Palasport di Modena e al Palaghiaccio di Marino, fuori Roma. In quel passaggio in Italia si esibirono anche al programma televisivo Tunnel, e fu una delle loro ultime performance dal vivo registrate: suonarono “Serve the Servants” e “Dumb”.
I Nirvana venivano da un tour promozionale che aveva già subito rallentamenti o interruzioni a causa dei suoi frequenti problemi di Cobain con le droghe. Dopo le date in Italia ne fecero ancora una in Slovenia e un’altra a Monaco, in Germania, ma poi a Cobain furono diagnosticate una laringite e una bronchite. Per curarsi andò a Roma, dove fu raggiunto dalla moglie Courtney Love. A Roma Cobain ebbe un’overdose da eroina e fu ricoverato al policlinico Umberto I. Poi si riprese e tornò negli Stati Uniti.
Il 18 marzo 1994 Courtney Love telefonò alla polizia dopo che Cobain, al termine di un litigio nella loro casa vicino al lago Washington, si era chiuso in bagno con una pistola, minacciando di uccidersi. Alla fine di marzo accettò di sottoporsi a un programma di recupero per tossicodipendenti all’Exodus Medical Center di Los Angeles, in California, da cui però scappò dopo solo due giorni per andare a Seattle.
L’8 aprile 1994 un elettricista arrivò a casa di Cobain per installare un sistema di sicurezza. Fu lui a trovare il cadavere: disse di avere inizialmente pensato che Cobain dormisse, prima di notare la presenza del fucile.
La morte di Cobain suscitò una diffusa commozione, non soltanto nel mondo della musica. Nel 2013, intervistato dal New Yorker, Alan Rusbridger, ai tempi direttore del Guardian, raccontò come e perché il suo giornale trattò la notizia. All’epoca Rusbridger era stato messo a capo di una nuova sezione fissa del quotidiano, e di lì a poco sarebbe diventato direttore. «I colleghi più attempati – ha raccontato Rusbridger – vennero da me a chiedermi “ma perché ce ne stiamo occupando?”, e io risposi “perché le nostre figlie stanno piangendo, ecco perché”».
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