Trovare una legge elettorale adatta al “premierato” sarà complicato per il governo
Un meccanismo che garantisca una maggioranza solida rischia di essere bocciato dalla Corte Costituzionale, ma è essenziale per rendere efficace la riforma
Martedì la commissione Affari costituzionali del Senato ha concluso l’analisi dell’articolo 3 del disegno di legge costituzionale presentato dal governo di Giorgia Meloni. La discussione e i voti di martedì sono stati un momento importante, seppure ancora preliminare, nel lungo processo di approvazione della riforma, perché hanno riguardato la parte decisiva del disegno di legge, quella che ridefinisce il ruolo del presidente del Consiglio. Se venisse approvata la riforma, il capo del governo non verrebbe più incaricato dal presidente della Repubblica sulla base del risultato elettorale e delle possibili maggioranze in parlamento, ma sarebbe eletto direttamente dai cittadini e dalle cittadine in concomitanza con le elezioni parlamentari per rinnovare Camera e Senato.
La discussione in commissione, a cui ha partecipato anche la ministra per le Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati, si è svolta in un clima abbastanza tranquillo. La maggioranza di destra ha tra le altre cose approvato un emendamento per modificare il testo originario dell’articolo 3, e ha così confermato la volontà di respingere tutti gli altri emendamenti – oltre 1.900 – presentati dalle opposizioni. Si è fatto però notare l’intervento del senatore leghista Paolo Tosato, che ha espresso perplessità su un aspetto specifico della riforma, peraltro contestato anche dalle opposizioni. Tosato ha detto che gli piacerebbe capire in che modo l’elezione diretta del presidente del Consiglio si coniugherà con una legge elettorale coerente con questo nuovo assetto costituzionale, e cioè una legge elettorale che garantisca al capo del governo una maggioranza stabile. È una questione dirimente per rendere efficace la riforma, e sta diventando uno dei temi principali di discussione.
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Il problema in sintesi è questo. La riforma prevede il premierato, cioè che il presidente del Consiglio venga indicato direttamente dagli elettori al momento del voto. Dal momento che l’Italia è una repubblica parlamentare, e dal momento che la riforma non modifica questo principio, per fare in modo che il presidente eletto abbia effettivamente una maggioranza parlamentare solida c’è bisogno di una legge elettorale adatta, che garantisca alla coalizione vincitrice un numero di seggi alla Camera e al Senato sufficienti per un governo stabile. Senza tale stabilità l’intera riforma, con il suo proposito di garantire la nascita di governi duraturi come espressione diretta della volontà popolare, risulterebbe vana. Ma che legge elettorale bisogna adottare per far sì che la riforma sia realmente efficace?
Nella versione originaria della riforma, l’articolo 3 stabiliva che a definire il sistema elettorale sarebbe stata una legge ordinaria, e fissava alcuni requisiti imprescindibili. Uno, in particolare: che alla coalizione del presidente del Consiglio eletto si dovesse riconoscere un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due camere. In base a questo principio, qualunque coalizione avesse preso più voti, anche solo un voto in più delle coalizioni avversarie, avrebbe avuto una larga maggioranza. Questo passaggio aveva suscitato polemiche e critiche di vari costituzionalisti e persino di esponenti di Fratelli d’Italia, come il senatore Marcello Pera. Nella nuova formulazione approvata al Senato resta lo stesso principio ma è stato eliminato il riferimento al 55 per cento. Ora il testo dice che alla coalizione vincente, collegata al presidente del Consiglio eletto, verrà «assegnato un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle camere […] nel rispetto del principio di rappresentatività».
Questa modifica, che è segno di un approccio più cauto adottato dalla ministra Alberti Casellati, riflette anche la preoccupazione del governo sui possibili giudizi della Corte Costituzionale. Già altre volte la Corte è intervenuta per bocciare una legge elettorale, visto che valuta la compatibilità delle leggi con la Costituzione.
In particolare ci sono due sentenze che vengono richiamate spesso nel dibattito politico intorno alla riforma costituzionale, e che lo stesso governo ha spiegato di aver tenuto in considerazione nella relazione introduttiva al disegno di legge sul premierato. La prima è sentenza del gennaio del 2014 che dichiarò incostituzionale una parte sostanziale del Porcellum (la legge elettorale scritta dal leghista Roberto Calderoli nel 2005) e la seconda è sentenza del febbraio del 2017 con cui la Corte dichiarò incostituzionali due parti dell’Italicum (la legge elettorale del governo di Matteo Renzi, del 2015).
Il Porcellum prevedeva che la lista elettorale arrivata prima, a prescindere dal numero di voti presi, ottenesse 340 seggi alla Camera e il 55 per cento dei seggi al Senato. Secondo la Corte, questo premio introduceva «una eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa» perché permetteva «ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi».
L’Italicum prevedeva invece due turni: se una lista elettorale otteneva almeno il 40 per cento al primo turno, otteneva automaticamente il 55 dei seggi nelle due camere; se nessuna delle liste arrivava al 40 per cento, allora le prime due andavano al ballottaggio, e chi prendeva più voti al secondo turno otteneva lo stesso il 55 per cento dei seggi. La Corte intervenne per bocciare questo secondo turno, mentre sul premio di maggioranza disse che il 55 per cento era un premio ragionevole per una lista che avesse ottenuto almeno il 40 per cento, mentre non lo era per chi al primo turno avesse preso magari il 25 o il 30 per cento, e al secondo turno il 40. Insomma, la Corte rilevò un «effetto distorsivo analogo» a quello già segnalato nel 2014 per il Porcellum.
Il principio ribadito in entrambe le sentenze era che un premio di maggioranza eccessivo avrebbe distorto la volontà popolare espressa con il voto: non era dunque possibile, secondo la Corte, che un partito o una coalizione ottenessero un premio troppo sproporzionato rispetto ai voti presi. L’Italia infatti ha vissuto dal 1948 fino al 1993 in un regime puramente proporzionale, in cui si privilegia la rappresentatività: con questo sistema il parlamento rispecchia in maniera più fedele i voti effettivamente presi dai partiti, ma allo stesso tempo è più difficile comporre una maggioranza solida.
Dal 1993 in poi sono stati fatti vari tentativi per introdurre nelle elezioni una componente maggioritaria, privilegiando dunque la governabilità pur senza rinunciare a un impianto più o meno proporzionale: la legge attualmente in vigore, cioè il cosiddetto Rosatellum (dal nome di Ettore Rosato, il deputato che l’ha proposta), prevede un sistema abbastanza cervellotico in base al quale poco più di un terzo dei seggi in parlamento viene assegnato con un sistema maggioritario, e il restante col proporzionale.
Ora il governo Meloni dovrà proporre una legge elettorale che da un lato non vanifichi l’intento ultimo della riforma che introduce il premierato, cioè avere un governo stabile guidato da un presidente eletto e sostenuto da una maggioranza solida; e dall’altro lato non venga bocciata dalla Corte Costituzionale, un’eventualità che di fatto annullerebbe il riassetto istituzionale ipotizzato.
Nei giorni scorsi sia la ministra Alberti Casellati sia il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Alberto Balboni di Fratelli d’Italia, hanno ribadito che della legge elettorale ci si occuperà dopo che la riforma avrà terminato la prima lettura nelle due camere, quindi con il testo definitivo. I disegni di legge costituzionali devono infatti essere approvati quattro volte, due in ciascuna camera. Nei primi due voti si può modificare il testo, negli ultimi si può votare solo a favore o contro. Attualmente il disegno di legge è all’esame della commissione Affari costituzionali del Senato, poi dovrà essere approvato dall’aula, quindi essere esaminato dalle commissioni della Camera e approvato anche lì dall’aula. Dopodiché ciascuna camera dovrà dare il voto di conferma, con un intervallo di almeno tre mesi tra un voto e l’altro. Sarà insomma un processo lungo.