Chi è e cosa pensa Nicolas Schmit
Il candidato dei socialisti alla presidenza della Commissione Europea è lussemburghese, ha ottenuto discreti risultati da commissario al Lavoro ed è un convinto sostenitore della cosiddetta “maggioranza Ursula”
di Valerio Valentini
Se gli si chiede della sua vita personale, Nicolas Schmit si irrigidisce sulla sedia. Cinque anni fa, quando presentò i documenti per formalizzare la sua candidatura come membro della Commissione Europea, dallo staff della presidente Ursula von der Leyen gli suggerirono di aggiungere nel fascicolo, oltre al curriculum con una lunga sfilza di incarichi istituzionali, qualche dettaglio su di sé e sulla sua famiglia. Lui prese un foglio e ci scrisse: «Sposato, quattro figli». «Non vedo perché i dettagli sulla mia vita privata debba condividerli con dei burocrati di Bruxelles», ricorda ora Schmit, lussemburghese nato nel 1953. Alla fine, nonostante quella sua riservatezza, venne nominato commissario al Lavoro.
«In realtà io l’ho conosciuto come un compagnone, piuttosto espansivo nonostante la fama di cui di solito godono i lussemburghesi», racconta Andrea Orlando, deputato del Partito Democratico che ha avuto modo di conoscere bene Schmit, e di lavorarci insieme, quando era ministro del Lavoro nel governo di Mario Draghi. In ogni caso Schmit non è sicuramente un trascinatore di folle, e forse non è un caso che il suo debutto in politica lo abbia fatto come ghostwriter di Gaston Thorn, primo ministro del Lussemburgo a metà anni Settanta e poi presidente della Commissione Europea tra il 1981 e il 1985. Aveva 25 anni ed era uno studente di storia a Sciences Po ad Aix-en Provence, nel sud della Francia.
A metà gennaio il Partito socialista europeo (PSE) trovò una prima intesa per indicarlo come Spitzenkandidat, cioè come candidato alla presidenza della Commissione in caso di vittoria dei partiti progressisti alle prossime elezioni europee di giugno (in tedesco Spitzenkandidat significa grosso modo “capolista” o “candidato di punta”). Quando si cominciò a parlare di Schmit come candidato del PSE, la rivista Politico – molto letta nella bolla di parlamentari e funzionari che a Bruxelles lavorano nelle istituzioni comunitarie – gli dedicò un titolo non proprio lusinghiero: «Nicolas who?» (“Nicolas chi?”). A rimarcare, cioè, la sua scarsa fama.
«Chiedetelo ai capi dei sindacati di un qualsiasi paese membro, o ai dirigenti di un qualunque settore industriale in giro per l’Europa, se sanno chi è», risponde Giacomo Filibeck, 46enne romano, dall’ottobre 2022 segretario generale del PSE. Al congresso del PSE che si è svolto a Roma il 2 marzo scorso Schmit è stato poi effettivamente eletto all’unanimità Spitzenkandidat socialista.
Tuttavia la speranza di Schmit di diventare davvero presidente della Commissione è labile. Un po’ perché, stando ai sondaggi, il PSE sembra destinato a raccogliere meno consensi del Partito popolare europeo (PPE), cioè l’unione dei partiti europeisti di centrodestra, e quindi è probabile che dovrà rinunciare ad avanzare pretese per quel ruolo, il più prestigioso, puntando magari a ottenere la presidenza del Consiglio Europeo o quella del Parlamento Europeo. E un po’ perché, più in generale, il sistema degli Spitzenkandidaten è farraginoso.
Adottato nel 2014 per far conoscere già in campagna elettorale i leader delle varie “famiglie” politiche dell’Unione, con l’obiettivo di garantire una maggiore investitura popolare al presidente della Commissione Europea, servì effettivamente a eleggere di Jean-Claude Juncker, lussemburghese pure lui, indicato dal PPE. Cinque anni dopo, però, qualcosa si inceppò: il PPE vinse di nuovo, ma anziché il candidato designato, il tedesco Manfred Weber, il Consiglio Europeo, cioè i vari capi di Stato e di governo dell’Unione, preferirono un’altra tedesca, von der Leyen. Dopodiché il Parlamento Europeo, che pure si era dichiarato contrario a sostenere figure che non fossero quelle degli Spitzenkandidaten, ne confermò l’elezione in una seduta travagliata e con appena 9 voti di margine.
Ma a prescindere da quale sarà l’esito delle elezioni di giugno e dalle successive decisioni dei leader europei, la scelta di Schmit da parte del PSE è un segnale politico eloquente, che dice molto del posizionamento dei partiti progressisti. «La sua candidatura si è imposta come naturale nel momento in cui abbiamo convenuto che il PSE dovesse tornare alla sua missione storica fondamentale, e cioè rafforzare le politiche sociali, garantire e potenziare i diritti dei lavoratori», dice Filibeck. Per questo motivo Schmit ha prevalso su Iratxe Garcia Perez, spagnola dei Paesi Baschi, capogruppo del PSE al Parlamento Europeo, di vent’anni più giovane. Garcia rappresenta una sinistra un po’ meno tradizionalista, più attenta ai diritti civili.
Il sostegno a Schmit dell’SPD tedesco, il partito socialdemocratico del cancelliere Olaf Scholz, ha avuto un contributo decisivo nella scelta. Ma oltre ai suoi buoni rapporti con la Germania, hanno contato anche i suoi discreti risultati come commissario al Lavoro.
Schmit è stato dirigente del Partito operaio socialista lussemburghese (LSAP) e ministro del Lavoro per nove anni con governi di diversi orientamenti, tra il 2009 e il 2018. È figlio unico di un falegname che quando aveva dodici anni vide le truppe naziste fucilare suo padre – nonno di Schmit – il primo giorno dell’invasione del Lussemburgo, il 10 maggio del 1940 a Differdange, una cittadina nel sud del paese.
Quando è diventato commissario europeo al Lavoro, vincendo la concorrenza del suo connazionale Etienne Schneider, Schmit si è dato l’obiettivo, dice, di «fare sì che le politiche sociali non stessero più ai margini dell’agenda dell’Unione Europea»: un impegno che si è concretizzato nel “Pilastro europeo dei diritti sociali dell’UE” firmato dai rappresentanti degli Stati membri a Porto, in Portogallo, il 7 maggio del 2021.
Di qui l’impegno per approvare una direttiva per regolarizzare il mondo del lavoro basato sulle piattaforme digitali, e aumentare le tutele di rider e fattorini impiegati in quel settore, su cui dopo una complicata trattativa si è arrivati a un’approvazione definitiva lo scorso 11 marzo.
Poi c’è stata, tra le altre cose, la direttiva sul salario minimo per sollecitare i paesi ad adottare misure che garantiscano una paga oraria dignitosa ai lavoratori, che fu approvata dall’Unione nel giugno del 2022 e che generò una certa polemica in Italia. «Non dirò che tutti gli Stati membri debbano avere un salario minimo legale: non è questa l’intenzione dell’Unione e di alcuni amici europei, come i danesi o gli svedesi», dice Schmit. Semmai la questione è un’altra, secondo lui: «Stabilire se la contrattazione collettiva da sola basta a garantire salari decenti. Nel caso dell’Italia, mi pare ci siano dei settori dove questo sistema non è basato su parametri equi, e credo che si possano introdurre delle forme di salario minimo legale in quei settori, senza indebolire in alcun modo la contrattazione collettiva».
Se chi non lo stima lo reputa poco capace di imporsi nei negoziati, chi invece lo apprezza si concentra sulla sua capacità di trovare delle mediazioni. Orlando ricorda per esempio come, insieme ai ministri di Germania, Spagna e Belgio, si fosse creato un solido blocco con cui si riusciva spesso a superare le resistenze di altri paesi, anche grazie alla capacità di Schmit nel costruire relazioni.
«Più che come politico, esordii come diplomatico», racconta. Allievo di Stéphane Hessel, diplomatico di grande fama tedesco ma naturalizzato francese, nella carriera di Schmit – che ha avuto vari incarichi dirigenziali al ministero degli Esteri lussemburghese – l’interesse per l’Unione Europea è stato piuttosto precoce e costante. All’Europa, e alle norme sul libero scambio tra gli Stati membri, dedicò la sua tesi di laurea a metà degli anni Settanta. Oltre un decennio più tardi venne nominato al Consiglio di Stato lussemburghese ed entrò a far parte di una commissione che si occupò di scrivere il trattato di Maastricht, uno dei più importanti della storia europea, che dal 1993 regola il funzionamento delle istituzioni.
«Fu un lavoro delicato e complesso, ma devo dire che le trattative che si fanno oggi su questi temi sono ancora più difficili», dice. Trent’anni dopo, è convinto che servano alcune modifiche al trattato. «Con l’Unione che si è allargata così significativamente, e che si appresta a essere formata da 30 Stati membri, c’è bisogno di aggiornare le regole. Le riforme dei trattati sono dunque necessarie: abbiamo bisogno di aggiustamenti specifici e puntuali. Per esempio superare il voto all’unanimità nel Consiglio Europeo, per cui basta che un solo paese ponga il veto e tutto si blocca». È un argomento su cui torna spesso anche il presidente della Repubblica italiano, Sergio Mattarella.
Per Schimt l’Unione Europea non può permettersi di essere troppo lenta: «Mikhail Gorbaciov, l’ex leader dell’Unione Sovietica, diceva che la vita punisce chi arriva in ritardo». Si dice spesso che l’Unione Europea fa i suoi maggiori progressi quando si trova ad affrontare una crisi, ed è stata sicuramente notevole la reazione dell’Unione alla crisi economica provocata dalla pandemia. Sono stati adottati il NextGenerationEu, il grande piano d’investimenti comuni da 750 miliardi di cui l’Italia beneficia per oltre 194 miliardi, e lo SURE, lo strumento di sostegno contro la disoccupazione, a cui ha lavorato lo stesso Schmit in collaborazione col commissario europeo agli Affari economici, l’italiano Paolo Gentiloni.
Tuttavia su difesa e politica estera comune l’Unione non ha dimostrato altrettanta prontezza: due anni dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, e con una nuova guerra tra Hamas e Israele che va avanti da quasi sei mesi, è stato fatto poco. «Certo, abbiamo introdotto alcuni strumenti utili per finanziare il sostegno dell’Ucraina. Ma in altri settori non siamo stati abbastanza risoluti nel prendere decisioni», dice Schmit. «L’Unione Europea ha garantito la pace e la sicurezza dei suoi cittadini per più di mezzo secolo, ma non possiamo solo guardarci indietro».
Secondo Schmit servirebbe una capacità fiscale comune. «Troppo spesso l’Europa si interroga su quello che deve fare, ipotizza grandi progetti, riforme e modifiche dei regolamenti, senza considerare la questione fondamentale: per fare cose concrete servono fondi comuni, perché i bilanci dei singoli Stati non bastano», dice. «Qualsiasi grande obiettivo è inutile, se non è sostenuto da sostanziosi investimenti dell’Unione».
Vale anche per la difesa comune, su cui si dice d’accordo con la tesi del commissario al Commercio, il francese Thierry Breton, sulla necessità di un fondo comune: «Che poi sia di cento miliardi, di più o di meno, lo si vedrà». E vale, per esempio, anche per un altro grande obiettivo dell’Unione, cioè la transizione ecologica. «Sento spesso dire che il problema del Green Deal è che è caratterizzato da troppe regole che ostacolano l’industria. Vogliamo rivedere alcune di quelle delle regole? Benissimo. Ma dobbiamo soprattutto fare investimenti pubblici consistenti, specie se pensiamo a cosa ha fatto un nostro concorrente sul mercato mondiale, gli Stati Uniti, che ha lanciato un programma contro l’inflazione e a favore delle tecnologie ecologiche da 370 miliardi di dollari».
Sulle alleanze politiche che seguiranno le elezioni di giugno, Schimt ha idee semplici: continuare con l’ampia maggioranza definita «Ursula» sui giornali italiani, e che lui definisce invece «maggioranza pro-UE». È quella di adesso, basata sull’accordo tra Popolari, Socialisti, Verdi e Liberali. In queste settimane c’è stato un dibattito sull’opportunità di replicarla anche nella prossima legislatura, dibattito che secondo Schmit si risolve con una domanda: «Si vuole un’Unione Europea che progredisca, oppure no? Si vuole un’Unione che sia più integrata, che rafforzi la sua rilevanza nel mondo, oppure no? Insomma, che Europa vogliamo?».
Domande retoriche, per Schmit. «Se vogliamo un’Europa che ribadisca i suoi valori democratici, difesi in maniera molto attiva da questa Commissione, allora è di fatto impossibile allearsi con partiti che negano alcuni di questi fondamentali valori democratici, che non hanno una posizione chiara nei confronti dei regimi fascisti del passato. Pensiamo davvero che possiamo fare alleanze con questi partiti, come l’ungherese Fidesz di Viktor Orbán o come il PIS polacco, e costruire una società europea più aperta e più democratica? Certo che non possiamo. Per questo credo che l’unico modo per garantire il progresso dell’Unione sia ribadire questa “maggioranza pro-UE”».
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Eppure, nel Partito Popolare Europeo c’è chi non esclude un’intesa maggiore coi partiti nazionalisti e sovranisti di estrema destra. «Se nel PPE pensano di poter fare accordi con partiti che mettono in discussione il Green Deal, l’uguaglianza di genere, lo stato di diritto, la difesa delle minoranze, direi che si prefigura una scelta molto distante dai principi fondanti del popolarismo europeo. I partiti che aderiscono al PPE sono già in coalizione di governo con l’estrema destra in Finlandia, in Svezia, in Italia».
Non è chiaro se per Schmit anche il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, che guida il gruppo dei Conservatori e riformisti europei (ECR), vada incluso tra i partiti contrari a molti dei principi fondamentali dell’Unione. «Il problema che ho, confesso, è che se sento i discorsi con cui Meloni ha fatto campagna elettorale per arrivare al governo, trovo una retorica fortemente antieuropea, ultranazionalista e un po’ bizzarra», dice. «Ora vedo che si è moderata, non c’è dubbio. Ma non so: qual è la vera Meloni? Per sapere cosa pensa davvero, su quali delle sue dichiarazioni devo basarmi? Mi è già capitato di dire che mi sembra un lupo travestito da pecora. La verità è che non ho piena fiducia sulle intenzioni e sui programmi del suo partito».