In Corea del Sud la chirurgia estetica viene data per scontata
È «un modo come un altro per aumentare le chance di affermazione sociale», scrive l'autrice Elisa Shua Dusapin sul nuovo numero di The Passenger
Un tipico regalo che viene fatto alle giovani che compiono 18 anni in Corea del Sud è un intervento di chirurgia estetica alle palpebre. È un’operazione diffusissima e non è l’unica a cui molte persone coreane ricorrono nel corso della propria vita per migliorare il proprio aspetto. In Corea del Sud infatti la bellezza fisica è considerata un valore e un aspetto fondamentale su cui investire per affermarsi nella società e fare carriera: come la chirurgia estetica sia da tempo sdoganata lo si nota girando per le città, dove sono spesso pubblicizzati prodotti e interventi estetici, parlando con le persone e leggendo libri di autori sudcoreani.
L’autrice Elisa Shua Dusapin, che è cresciuta tra Francia, Corea e Svizzera, l’ha raccontato in uno degli articoli dell’ultimo numero di The Passenger, il libro-rivista della casa editrice Iperborea sui luoghi del mondo, dedicato alla Corea del Sud. Ne pubblichiamo un estratto.
***
Spesso i miei lettori occidentali rimangono sorpresi dalla scoperta di un fenomeno ormai scontato, ai miei occhi. Nel 2012 ho trascorso qualche mese all’Università Yonsei, a Seoul, per approfondire la conoscenza del coreano. È stato allora, girando per le strade ed entrando in contatto con gli studenti, che ho capito fino a che punto la chirurgia estetica fosse normale. In centro ci si aggira tra manichini di cartone che magnificano le doti di creme sbiancanti. Gli uomini si fanno consigliare dalle ragazze sui trucchi all’ultima moda, o su come imitare la barba di tre giorni. Annunci pubblicitari di chirurgia estetica, con foto di volti prima e dopo, tappezzano le pareti della metropolitana. Tutto normale, nel paese del k-pop, l’industria musicale coreana sponsorizzata dalle cliniche che da qualche anno sfornano cloni idolatrati dai giovani di tutto il mondo.
In Corea del Sud una persona è definita dalle sue origini: chi sei importa più di quel che fai. In altre parole, l’appartenenza sociale è cruciale. La tua famiglia d’origine, il nome dell’università che hai frequentato, contano moltissimo. C’è una concorrenza spietata per l’accesso ai migliori atenei, anche a dispetto dei costi elevati. È una delle ragioni per cui molte coppie scelgono di avere soltanto un figlio: per poter puntare tutto sulla sua educazione, nella speranza di assicurare a lui una posizione favorevole nella società, e a loro, in futuro, una pensione migliore. Sono disposti a pagare le operazioni chirurgiche perché sanno bene che si tratta di un modo come un altro per aumentare le chance di affermazione sociale, né più né meno di come ci si trucca o ci si veste bene per un colloquio di lavoro. Un’amica mi raccontava di essersi vista rifiutare un posto di rappresentante col pretesto che oggi la chirurgia è alla portata di ogni tasca. I potenziali capi le avevano rinfacciato i lineamenti naturali, tacciandola così, in un certo senso, di negligenza.
Nella letteratura coreana troviamo numerosi esempi di questo fenomeno. Nel racconto «La tua metamorfosi» (2012) di Kim Yi-hwan, il narratore delinea il suo ideale di corpo: «Vorrei avere un naso più lungo. E narici più sottili. Gli zigomi, quelli sono ok. Ma il mento è squadrato, forse dovrei farmelo un po’ più a punta?». Un’altra immagine la offre un racconto contenuto nella raccolta del 2007 uscita in Francia con il titolo La beauté me dédaigne («La bellezza mi disprezza»), di Eun Hee-kyung: «Dopo aver perso otto chili, ho capito che l’uomo nuovo si manifesta solo attraverso la dieta.»
Cheon Un-yeong, nel racconto «L’aiguille» («L’ago», 2001), rincara la dose: «Ho zigomi pronunciati, collo grasso, un po’ come la schiena, tondeggiante e con un accenno di gobba, un timbro di voce sgradevole all’udito, dita dei piedi grassocce […] sono l’incarnazione del concetto di bruttezza.»
Chiaramente questi canoni di bellezza – doppia palpebra, mento appuntito, naso affilato – sono frutto dell’occidentalizzazione. Quando avevo vent’anni, a Seoul una passante mi ha chiesto il nome del chirurgo che mi aveva ingrandito gli occhi. L’interesse si è presto tramutato in un’educata distanza appena le ho risposto che non avevo subito operazioni, ma che mia madre era sudcoreana, mio padre francese.
A questo punto il paradosso è completo: va benissimo avere doppie palpebre e naso affilato, a condizione di essere coreana. Cosa che non ero, agli occhi di quella donna. Le mie origini meticce fanno di me una straniera, come la narratrice franco-coreana di Inverno a Sokcho, con la differenza che lei non ha mai conosciuto l’Occidente, se non attraverso la letteratura.
Perché in fondo, qual è lo scopo, in Corea del Sud, una volta tolti i bendaggi? Il paese di mia madre, così fiero di sé e visceralmente nazionalista, per quale motivo si sforza di trasformare il proprio volto? Dobbiamo cercare ragioni profonde nel confucianesimo, che esorta all’armonia di corpo, cuore e spirito?
Nella società coreana la collettività conta più dell’individuo, educato a sottomettersi alle regole senza fare domande. Sono probabilmente questi valori ad aver reso possibile la formidabile rinascita economica della Corea del Sud negli anni Ottanta, che l’ha resa leader nel settore cosmetico e, ovviamente, tecnologico: il regno di Samsung e di Lg, delle megalopoli invase da megaschermi, proiettori, riverberi; per le strade, dalle facciate degli edifici, rimbalzano immagini di uomini e donne standardizzati, corpi atletici e slanciati, dalla pelle perfetta.
Il fatto è che oggi, in Corea del Sud, non basta più essere in armonia. Occorre essere momjjang – avere un corpo e un viso perfetti – per riuscire nella vita, cioè nel matrimonio e nel lavoro. La protagonista del racconto di Oh Jung-hi «Prime nevi» è trentenne, ancora nubile, e constata brutalmente di non corrispondere ai canoni di bellezza: «Avevo superato la soglia dei trent’anni, cominciavo a diventare grassa, e a cadere in depressione.» In Corea, in effetti, ho notato l’ossessione per l’alimentazione, l’equilibrio nutrizionale, e in parallelo il fenomeno del meokbang: dirette social di individui che si abbuffano di cibo spazzatura. Le seguono in migliaia, anzi, in milioni. Persone che si nutrono per procura, sfinite da una quotidianità di diete, di autocontrollo.
In «La tua metamorfosi» di Kim Yi- hwan, il protagonista ritrova l’amico tramutato in forma liquida, all’interno di un sacchetto di plastica. La ricerca della perfezione fisica l’aveva portato a far scomparire il proprio corpo. «Però avevi l’aria felice. […] Alla fin fine, ho pensato, la chirurgia estetica non è poi così male.»
Traduzione di Nicola Jacchia