L’incredibile Hercule Florence

«Nel frontespizio di "Photographie où Imprimerie à la lumière", quella parola mai usata e così importante appare accanto ad un’altra parola, “découverte”, “scoperta”, che in un secondo tempo è stata cancellata con una riga orizzontale. Leggere per prima quel manoscritto e trascriverlo, ripercorrere il viaggio in Amazzonia, partecipare ai drammi e ai tormenti di Hercule Florence, ai suoi ragionamenti che scorrono come un flusso di coscienza, poter essere parte di quel momento storico, vedere come nasce un’idea, come si forma un’intuizione geniale originata dal bisogno, mi ha calato in una dimensione di privilegio assoluto»

Hercule Florence, "Photographie ou Imprimerie à la lumière", 1833, manoscritto a inchiostro su carta, 31 x 21,2 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)
Hercule Florence, "Photographie ou Imprimerie à la lumière", 1833, manoscritto a inchiostro su carta, 31 x 21,2 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

Lavorare su Hercule Florence ha avuto grandi ripercussioni sul mio lavoro, ma è stata anche un’avventura molto faticosa, e non mi sarei mai decisa a scriverne di nuovo se lo scorso 28 febbraio non avessi ricevuto un messaggio: «Cara Linda, oggi è il duecentoventesimo compleanno di Hercule. Sarebbe bello raccontare le recenti novità e diffonderle anche in Italia. Un pensiero affettuoso, A». A era Antonio Florence, un diretto discendente di Hercule.

Quando, nel 2012, il Nouveau Musée National de Monaco (NMNM) mi invitò a fare ricerca sulla figura di Hercule Florence, si sapeva molto poco di lui. Nelle storie della fotografia non compare quasi mai. Io sapevo che era annoverato dallo storico Geoffrey Batchen tra i ventotto “protofotografi” che, più o meno nello stesso periodo, avevano inventato processi per fissare le immagini nella camera oscura, senza riuscire a ottenere un’immagine permanente. Si sapeva anche che Florence aveva trascorso la sua vita in Brasile, ma aveva passaporto monegasco e per questo motivo il principato voleva dedicargli una mostra, anche perché un’altra discendente di Florence aveva rivelato l’esistenza di un fondo di opere su di lui.

Avrei lavorato a fianco del curatore del museo, Cristiano Raimondi, abituato a lavorare a progetti di artisti su artisti. Mi sarei imbarcata in un’impresa che sarebbe durata cinque anni, mi avrebbe portato a toccare molte volte il tropico del Capricorno, a imparare il portoghese, a trascrivere manoscritti, a digitalizzare 3876 documenti e a innamorarmi del fantasma tormentato di un pioniere della fotografia dimenticato dalla storia.

I pochissimi testi su Florence erano in portoghese, ed erano scritti da una sola persona, Boris Kossoy, che aveva dedicato quarant’anni della sua vita a convincere gli storici europei che in Brasile era accaduta una vicenda analoga a quelle di Niépce, Daguerre, Talbot, passati alla storia come gli inventori della fotografia. Tuttavia i suoi lavori non erano tradotti, e nonostante Kossoy fosse un accademico riconosciuto e i suoi scritti avessero indubbia qualità scientifica, il nome di Hercule Florence non era mai stato preso sul serio in Europa.

«La fotografia ha avuto molti padri»; «la sua scoperta era nell’aria»: lo si legge ovunque. Definire che cosa fosse quest’‘aria’, però, non è una faccenda semplice, continua a essere oggetto di speculazione filosofica e storica, da cui il Brasile è, o meglio era, escluso. Ancora lo scorso anno, un autorevole storico della fotografia tedesco è venuto a trovarmi in studio a Milano e, con un sorriso in cerca complicità, mi ha chiesto: «Allora, questo Florence è esistito davvero o è tutta un’invenzione?»

Hercule Florence nacque nel 1804 a Nizza, ma la sua famiglia si trasferì a Monaco tre anni dopo, in seguito alla prematura morte del padre. Nel 1823 a diciannove anni, fresco di studi di cartografia militare, ambizioso, smanioso di conoscere il mondo e innamorato del personaggio letterario di Robinson Crusoe, si imbarcò sulla fregata francese Marie Thérèse con il progetto di circumnavigare il globo. L’anno successivo, all’attracco nella baia di Rio de Janeiro, incantato dal paesaggio, decise di fermarsi e per un anno lavorò come commesso in una stamperia. Poi il 7 luglio 1825 lesse un annuncio sul quotidiano Diário do Rio de Janeiro: «Un naturalista che ha in programma un viaggio nell’interno del Brasile cerca un compagno di viaggio: un pittore che si intenda anche di disegno».

Florence rispose e nel settembre dello stesso anno fu ingaggiato come disegnatore nella imponente spedizione in Mato Grosso guidata da Georg Heinrich von Langsdorff, grande naturalista ed esploratore tedesco naturalizzato russo. La spedizione, che aveva intenti scientifici ed era finanziata dallo zar Alessandro I di Russia, e avallata dall’imperatore brasiliano Pedro I, è oggi nota come “spedizione Langsdorff”. Intendeva toccare le province di Minas Gerais, Mato Grosso e Grão Parà, in altre parole attraversare la regione centrale dell’America del Sud, che non era mai stata descritta né mappata. È una delle esplorazioni meglio preparate e più complete tra quelle che si svolsero nel Brasile del XIX secolo. Vi parteciparono naturalisti, astronomi, cartografi e grandi scienziati. Sarebbe rimasta nella memoria per i suoi esiti disastrosi.

Spedizione Langsdorff (1821 – 1829), Rappresentazione cartografica contemporanea (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

Tra il 1825 e il 1829 i membri della spedizione Langsdorff, molti dei quali abituati a frequentare la corte dello zar, percorsero migliaia di chilometri a piedi e in canoa, attraversarono la foresta pluviale, guadarono fiumi, rimasero incagliati per giorni nel fango e sfidarono ogni tipo di avversità naturale in un ambiente insalubre e pericoloso. Raccolsero informazioni sulla natura e sulle popolazioni amazzoniche, ma le condizioni di viaggio difficilissime, i conflitti personali, «ferite e dolori insopportabili», e persino la morte di uno dei membri del gruppo, fecero concludere prematuramente la spedizione.

Hercule Florence, Langsdorff, n.d. Acquerello su carta, 19,4 x 16,2 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

All’epoca, in questo tipo di imprese e convogli scientifici, lo studio del percorso e il viaggio stesso erano quasi dei pretesti. Tornare e pubblicare le proprie scoperte per attirarsi fama e gloria era tra le motivazioni principali, anche per Langsdorff, che era già uno scienziato di fama mondiale. Per ironia della sorte, fu costretto a lasciare il viaggio e i suoi progetti incompiuti perché perse irreversibilmente la lucidità a causa delle febbri malariche. I membri della spedizione si separarono e nulla fu pubblicato delle loro ricerche. Il materiale raccolto, che avrebbe arricchito di molto il sapere del XIX secolo, cadde nell’oblio negli archivi dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo dove rimase per più di un secolo fino a quando, attraverso un lungo intreccio di ritrovamenti, il diario di Hercule Florence fu riconosciuto come l’unico resoconto completo di quell’impresa imponente e dimenticata.

Hercule Florence, L’Inventeur au Brésil, ou Recherches et Découvertes d’un Européen, pendant 26 ans de résidence dans cet Empire, Voyage Fluvial, du Tiété à l’Amazone, 1856. Manoscritto a inchiostro su carta, 31,8 x 22,4 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

Il compito di Florence e degli altri due disegnatori al seguito, Johann Moritz Rugendas e Aimée Adrien Taunay, era documentare e catalogare ogni aspetto del paesaggio. L’intento catalogatorio apparteneva a uno spirito settecentesco, ma era ancora attuale: Florence era ben consapevole che i suoi disegni sarebbero stati fondamentali per consegnare alla memoria il nuovo mondo. Sarebbe stata una delle ultime volte che il disegno avrebbe avuto questo compito: qualche decennio più tardi la fotografia lo avrebbe soppiantato.

Hercule Florence, Untitled (Canoa de Guatòs, ao por-do-sol), c. 1835 Acquerello e china su carta, 32 x 43,5 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

I bellissimi disegni di Hercule Florence raccontano di frutti, fiori e animali mai visti prima, delle condizioni di vita e difficoltà quotidiane della spedizione, di tribù native che non avevano mai avuto contatti con l’esterno, come i Bororo, documentati per la prima volta proprio dai disegni di Florence (sarebbe stato Claude Lévi-Strauss, padre dell’antropologia strutturale, cent’anni dopo, a immortalarli con l’apparecchio fotografico. Nella differenza dei media, le analogie nel modo di rappresentare “l’altro” sono impressionanti).

Da sinistra a destra:
Hercule Florence, Fleur du Embira uçù, in Expédition au Brésil de la mission russe du Commandant Langsdorff, 1824-1829, Album di schizzi all’acquerello (p.70), 25,5 x 21,3 cm (Courtesy Bibliothèque nationale de France, Paris)
Hercule Florence, Magonia Pubescens, in Expédition au Brésil de la mission russe du Commandant Langsdorff, 1824-1829, Album di schizzi all’acquerello (p.121), 25,5 x 21,3 cm (Courtesy Bibliothèque nationale de France, Paris)
Hercule Florence, Coralina, in Expédition au Brésil de la mission russe du Commandant Langsdorff, 1824-1829, Album di schizzi all’acquerello (p.29), 25,5 x 21,3 cm, (Courtesy Bibliothèque nationale de France, Paris)

A sinistra: Hercule Florence, Boróró, n.d. Matita su carta, 11,5 x 9,1 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)
A destra: Claude Lévi-Strauss, Jeune fille Bororo (Femme en gros plan, de face), fotografia scattata durante la missione di Dina e Claude Lévi-Strauss in Brasile e Paraguay, Novembre 1935 – Marzo 1936 Stampa su carta baritata montata su cartoncino, 22,5 x 29.3 cm (Courtesy Musée du quai Branly – Jacques Chirac, Paris)

Il disegno di Florence è il più possibile verosimile, aderente alla realtà al punto da esserne un ricalco. Utilizzava infatti una camera oscura, strumento già in uso dalla metà del ‘700, per ricalcare su un vetro opalino i contorni di ciò che è riflesso dallo specchio collocato al suo interno. Il disegno era quindi un tentativo di imparzialità, oggettività “scientifica”. Per inquadrare la personalità di Florence, va aggiunto che si sentiva evidentemente parte ben integrata di un gruppo di umanisti e intellettuali, se nel disegnare un pesce che credeva sconosciuto, gli diede il nome di “Sternarchus Florencii”.

Hercule Florence, Sternarchus Florencii, Porto Feliz. Mai 1826. Hercule Florence fecit, 1826, Acquerello su carta, 15,6 x 34 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

L’esperienza della spedizione in Amazzonia resterà fondante per le sue ricerche future. Il germe dell’idea di riprodurre la natura attraverso un mezzo meccanico nacque proprio in quei quattro anni perché Florence avvertiva la necessità di un procedimento che velocizzasse le fasi più rigorose del disegno, la parte di lavoro più “noioso e ripetitivo”, facilitando il suo lavoro di “copista” del mondo.

Hercule Florence, Untitled (Encampment by Moonlight), n.d. Acquerello su carta, 30,8 x 42,8 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

Suddivise la natura in due categorie: l’organico e l’inorganico. Intendendo con il termine inorganico ciò che è fermo, che semplicemente “sta”. Il paesaggio inorganico, noioso da copiare più volte, avrebbe potuto essere fissato, così sognava Florence, meccanicamente, per il tramite della camera oscura. Tutto ciò che è organico, invece, ossia ciò che è vitale e in movimento, avrebbe dovuto essere sovrapposto all’inorganico manualmente, in un secondo tempo.

Durante la spedizione Langsdorff, Florence non fu colpito soltanto da ciò che vedeva, ma anche dalla potenza dei versi degli animali che udiva in Amazzonia. Ne isolò i suoni trascrivendoli sul pentagramma, allegando al disegno una didascalia estesa, che descrive l’animale e la posizione geografica del suo avvistamento. Fu la sua prima invenzione, un metodo per individuare le specie attraverso il suono, e Florence la chiamò Zoophonie. Naturalmente, la notazione musicale era un sistema inadatto a descrivere le complesse frequenze emesse dagli animali, ma era un sistema, il primo, tanto che Florence è considerato dai biologi il padre riconosciuto di una disciplina che sarebbe nata cent’anni più tardi, la bioacustica. Il manoscritto più bello su questo argomento si intitola “O Echo dos Animaes Irracionaes”: Florence definiva il suono degli animali un’eco, un riverbero di esseri “organici” e “irrazionali”. Alcune pagine paiono spartiti di John Cage.

Hercule Florence, Systema da arte de escrever a voz dos animaes in O Echo dos animaes irracionaes, manoscritto a inchiostro su carta, 31,6 x 22,3 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

Nel corso del viaggio Hercule Florence documentò ogni cosa. Fu l’unico a tenere un diario fino alla fine della spedizione, poiché il disegnatore più talentuoso, Rugendas, abbandonò la carovana dopo un anno e l’altro, il suo amico Taunay, morì annegato nel rio Guaporé (il suo diario gli fu sfilato dal taschino dopo la morte, il resoconto costato tanta fatica mostra solo macchie di inchiostro. Un cimelio di struggente bellezza, restaurato e custodito oggi dal Museo Paulista di San Paolo. Langsdorff, come si diceva, uscì di senno, quindi neanche lui fu in grado di scrivere. Il materiale spedito in Russia non fu mai organizzato, catalogato o pubblicato. Per un lungo periodo di tempo, le uniche tracce di questa epica spedizione furono quelle lasciate da un giovane sconosciuto che aveva risposto a un annuncio sul giornale nel 1825.

Aimé-Adrien Taunay, Carnet de voyage, c. 1824, volume rilegato con disegni e manoscritti a inchiostro e matita su carta, 15,2 x 10 cm (Courtesy Museu Paulista – Universidade de São Paulo)

Alla fine del 1829, Florence si stabilì a São Carlos, un piccolo centro a ottanta chilometri da São Paulo, che oggi si chiama Campinas e conta quasi due milioni di abitanti. Si sposò con Marìa Angelica de Vasconcellos, e grazie alla sua dote iniziò la seconda parte della sua vita da proprietario terriero, coltivatore di caffè e inventore. Non fu particolarmente ricco (avrebbe avuto due matrimoni e venti figli da mantenere), ebbe una vita faticosa e poco tempo per le sue invenzioni. Lamentava continuamente un senso di isolamento culturale, la mancanza di strumenti scientifici e di pubblicazioni per aggiornarsi. Approfondì vari metodi di riproduzione meccanica dei documenti, come ad esempio la poligraphie, un sistema calcografico portatile al quale lavorò per molti anni. Era ossessionato dall’idea di perdere i documenti della spedizione e gli studi che lo avevano condotto a ideare nuovi macchinari, nonché dal desiderio di diffonderle.

Dal 1830, grazie al farmacista Joaquim Correa de Melo, l’unico suo amico acculturato, Hercule Florence venne a conoscenza del nitrato d’argento, un sale che annerisce alla luce. Iniziò a sperimentare e trovò due vie: una la chiamò “fixation de l’image dans la chambre obscure”, l’altra, con l’aiuto di de Melo, che conosceva il greco antico, la intitolò “photographie”. Spiegò che questa parola deriva proprio dalla «base où repose le procédé»: la luce. In greco la parola “φῶς” (phaos/phōs) la cui radice corrisponde a quella del verbo phainō che significa “mostrare”, “rendere manifesto”, indica la luce che permette di vedere ma anche quella che emana dalla verità della conoscenza. Il titolo del manoscritto scritto da Hercule Florence e datato 22 ottobre 1833 è: “Photographie ou Imprimerie à la lumière”. Fu la prima volta che la parola apparve nella storia, ma ancora oggi nei manuali è scritto a torto che il termine fu coniato da John Herschel nel 1839.

Dal primo procedimento, fixation de l’image dans la chambre obscure, Florence raccontò di aver ottenuto tre immagini: la prima era una vista dalla sua finestra sui banani (la finestra: una ricorrenza nelle “prime fotografie”, quella di Niépce a Le Gras, quella di Talbot a Lackock Abbey, quella di Daguerre sul Boulevard du Temple). Osservò che «i toni sono invertiti: le foglie dei banani sono bianche, mentre il cielo è scuro». La seconda prova era una statua. La terza (la più sorprendente) la prigione di Campinas, dove «la guardia, che camminava costantemente avanti e indietro», non compariva nell’immagine. Il tempo di posa, infatti, era così lungo che rimaneva impresso solo ciò che restava fermo. Un grande problema di questo medium, agli albori. Di questi esemplari non rimane nulla: Florence poté assistere soltanto al loro completo annerimento. Dell’altro procedimento invece, la photographie, che era simile al cliché verre, destinato a riprodurre disegni e documenti, restano quattro esemplari, tre etichette per farmacia e un diploma massonico, fissati utilizzando l’urina. Uno è nella collezione dell’Instituto Moreira Salles di Rio de Janeiro, che lo custodisce al buio completo, a -40°, come una reliquia, e lo definisce «il primo esemplare fotografico delle Americhe». Il plurale, in questo caso, è molto importante.

Hercule Florence, Photographie (drawing of the camera obscura), inchiostro ferro-gallico su carta, c. 20,6 x 19,1 cm, parte di L’ami des arts (Courtesy Collection Instituto Hercule Florence, São Paulo)

Nei trent’anni successivi alla spedizione Langsdorff, Florence produsse una quantità impressionante di manoscritti dedicati al suo viaggio in Amazzonia e alle sue invenzioni, i cui titoli bastano a raccontare la storia epica di un uomo isolato ma in costante ricerca: L’amico delle arti, Il nuovo Robinson, L’artista abbandonato a sé stesso… In uno di questi, L’inventeur au Brésil, 11eme cahier, datato 1861, Florence racconta un episodio cruciale: «Era il 1839, ero nella fazenda di Antonio Manuel Teixera al chiaro di luna, parlavo con un suo ospite, una persona piacevole e colta. ‘Avete sentito della bella scoperta appena avvenuta in Francia?’ No, risposi. ‘Ah, è ammirevole! Un pittore di Parigi ha trovato il modo di fissare le immagini nella camera oscura. L’ho letto nel Jornal do Commercio. Mi disse che la scoperta era sicura poiché Monsieur Arago l’aveva presentata all’Accademia delle Scienze e l’inventore aveva ottenuto un vitalizio. […] Ho sentito un colpo al cuore, nel sangue, nel midollo delle ossa, in tutto il mio essere. […] Non ero più la stessa persona di prima […] Anch’io sono riuscito in maniera diversa a ottenere qualcosa di simile al dagherrotipo e dal 1831, dal mio esilio, ho fatto queste prove, anche davanti a svariati testimoni […]  Ci vuole forza d’animo per gettare nove anni di sacrifici al vento e non meritare neanche una piccola dose di immortalità […] Dopo quel giorno, non mi sono mai più occupato della fotografia».

Hercule Florence, Epreuve N.°2 (photographie), set di etichette per bottiglie di chimici, c. 1833,  fotografia, 22 x19,8 cm
(Courtesy Instituto Moreira Salles Collection, Rio de Janeiro)

Nel 1840 i francesi portarono in Brasile l’equipaggiamento per la dagherrotipia, e furono anche eseguite dimostrazioni pubbliche, una dinanzi all’imperatore Pedro II. Negli scritti di Florence non abbiamo trovato traccia del suo incontro con la dagherrotipia, ma tra le scoperte più sorprendenti avvenute durante le ricerche per la mostra di Monaco Hercule Florence, Le Nouveau Robinson, che aprì nel 2017, infatti c’è un dagherrotipo colorato a mano, sconosciuto fino ad allora, che ritrae proprio Hercule Florence in un’età tra i trentacinque e i quarant’anni. Le date coincidono. Questo “miroir qui garde toutes les empreintes”, “specchio che conserva tutte le impronte”, è carico di significato simbolico: pur avendo sofferto enormemente per non essere stato riconosciuto, Hercule Florence non aveva potuto resistere alla tentazione di vedere il suo volto immortalato sulla lastra specchiante di Daguerre.

Anonimo, Untitled (daguerreotype portrait of Hercule Florence), dagherrotipo, 11,8 x 9,5 cm (Courtesy Nouveau Musée National de Monaco)

Nel luglio del 2022, dopo la mostra al NMNM e dopo la pandemia, il Getty Conservation Institute insieme all’Università di Évora, in Portogallo, hanno iniziato una ricerca per analizzare chimicamente tre esemplari fotografici di Florence. Le analisi hanno confermato la presenza di picchi di argento e, cosa sorprendente, anche di cloruro aurico, facendo di Florence il primo a utilizzare l’oro in fotografia. La relazione tecnica si conclude con queste parole: «Indipendentemente dal fatto che questi oggetti vengano descritti come fotografie o precursori della fotografia, essi rappresentano un punto di svolta cruciale nel concepimento dell’idea di catturare immagini dalla natura […] Comunque si voglia definire una fotografia, sembra che non ci siano molti dubbi sul fatto che Hercule Florence sia riuscito a registrare immagini per mezzo dell’azione della luce e di una superficie sensibilizzata chimicamente […] e sia stato in grado di farle sopravvivere fino ai giorni nostri […]». Nell’estate 2023 l’Instituto Moreira Salles, il più grande centro culturale privato votato alla collezione e alla conservazione della fotografia in Sud America, ha acquisito l’intero fondo di opere e manoscritti sui quali abbiamo lavorato per la mostra. Sono queste «le recenti novità» a cui accennava Antoine Florence, il pronipote, nella sua email.

Nel frontespizio di Photographie où Imprimerie à la lumière, quella parola nuova e così importante appare accanto ad un’altra parola, “découverte”, “scoperta”, che in un secondo tempo è stata cancellata con una riga orizzontale. Leggere per prima quel manoscritto e trascriverlo, partecipare ai drammi e ai tormenti di Hercule Florence, ai suoi ragionamenti che scorrono come un flusso di coscienza, poter essere parte di quel momento storico, di quel pensiero, di come nasce un’idea, di come si forma un’intuizione geniale originata dal bisogno, mi ha calato in una dimensione di privilegio assoluto.

Le vicissitudini esistenziali costrinsero Florence a gestire fino alla fine dei suoi giorni la piantagione di caffè Soledade e a rimanere legato, di fatto, a un’economia agricola e schiavista, rinunciando in gran parte alle sue ambizioni di inventore e umanista. La lontananza dai circoli accademici e l’assenza di confronto con un contesto culturale aggiornato contrastavano con il suo legame profondo con la cultura europea. Eppure, proprio in quella latitudine geografica, in quel momento storico e in quella vicenda umana, il suo lascito principale sta in un preciso sguardo che converge sulla natura, sulla cultura e sulla scienza, non dissonante da quello europeo degli stessi anni. Anche in questo senso, il suo caso è davvero eccezionale.

– Leggi anche: Le “madri nascoste” nelle fotografie di famiglia

Linda Fregni Nagler
Linda Fregni Nagler

È nata a Stoccolma e vive a Milano. È un'artista che lavora con il medium fotografico e il suo approccio riassume la figura dell’artista tradizionalmente inteso, quella del collezionista e quella del ricercatore. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive, fra queste la 55° Biennale di Venezia; in musei in Italia (MAXXI Roma; Fondazione Olivetti Roma; Triennale Milano; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) e all’estero (Moderna Museet Stockholm; Centre National d’Art Contemporain de Grenoble; Nouveau Musée National de Monaco; ZKM | Zentrum für Kunst und Medientechnologie, Karlsruhe; Museum für Kunst und Gewerbe, Hamburg). Insegna fotografia all’Accademia Carrara di Bergamo e all’università IULM di Milano. Ha pubblicato monografie con MACK books (London) e con Humboldt books (Milano).

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