Nella moda trovare chi sa cucire è diventata un’impresa
Ma anche chi sa creare i prototipi o i cartamodelli, per ragioni soprattutto culturali che hanno portato a una svalutazione dei mestieri tecnici
Francesco Maglia è un imprenditore che ha poco più di trent’anni. Gestisce l’azienda di famiglia che si chiama proprio come lui, Francesco Maglia, e che produce ombrelli di lusso. È a Milano da 170 anni e ora ha sette dipendenti, tra cui una sarta che ci lavora da 41 anni: arrivò in azienda quando ne aveva 18, portata da suo padre che era già sarto. Tra un anno e mezzo andrà in pensione, e Maglia iniziò a cercare qualcuno che la sostituisse già nel 2021, con quattro anni di anticipo, perché per imparare questo mestiere servono anni di formazione e di pratica. Ce ne ha poi messi due per trovare la persona adatta.
«Mio padre mi raccontava sempre che negli anni Ottanta avevano un’agenda con centocinquanta nomi di sarti e sarte su Milano e quasi cinquecento che arrivavano fin da Novara», dice Maglia. Erano professionisti e professioniste specializzate nella creazione della fodera dell’ombrello, e che potevano chiamare per aiutarli con gli ordini grossi, per i quali serviva una mano in più.
Di quell’agenda non è rimasto quasi niente, non solo perché quel tipo di lavoro a chiamata non è più possibile, visto che le normative del lavoro nel frattempo sono cambiate e si sono evolute, ma anche perché non c’è proprio più un bacino così ampio di professionisti da cui attingere. In pochissimi ormai sanno usare una macchina da cucire, o cucire a mano con la giusta abilità e velocità. Non è un problema solo di Maglia, ma di tutto il settore italiano della moda e dell’artigianato: ci sono sempre meno persone in grado di fare lavori tecnici, come sarti, modellisti e prototipisti, che sono essenziali per la realizzazione dei capi, per la loro qualità e la vestibilità. Le ragioni di questa scarsità sono un po’ culturali e un po’ generazionali, ma c’entra anche come si sono evoluti i processi produttivi.
Oggi i mestieri più popolari nella moda sono il designer, gli addetti al marketing o alla comunicazione, o al limite l’influencer. Altri mestieri si sono andati un po’ perdendo, dimenticati anche da chi vorrebbe lavorare nel settore: col risultato che ci sono più persone che l’abbigliamento lo vogliono disegnare e raccontare di quelle che quei capi li possono realizzare fisicamente. Questa carenza ormai strutturale non riguarda tanto i mestieri per la produzione dei capi in vendita – un processo più industrializzato e spesso appaltato a società esterne o estere – quanto quei lavori che servono alla realizzazione dei prototipi e dei campionari all’interno delle aziende di moda.
Per esempio il prototipista è il ruolo responsabile della realizzazione dei capi a partire dai disegni degli stilisti, che deve avere non solo una grande conoscenza dei materiali, ma anche delle tecniche di cucito e della modellistica. Il modellista si occupa invece della realizzazione tecnica dei cartamodelli, quei ritagli in carta delle parti di tessuto che andranno assemblate per ottenere il capo finito: è ciò che poi rende possibile non solo la realizzazione del prototipo, ma anche la produzione finale. Al sarto poi è richiesto l’assemblaggio del capo: nel caso lavori nella prototipia si occuperà della realizzazione completa del prototipo, in tutte le sue parti; nel caso lavori nel processo produttivo più industriale si occuperà di una o più parti della lavorazione.
Tutti e tre questi mestieri, sebbene tecnici, sono però una parte importante del processo di creazione. «Un capo vive nel momento in cui un disegno viene associato a un tessuto e a una costruzione, altrimenti rimane un disegno, uno schizzo», dice Massimiliano Giornetti, direttore del Polimoda di Firenze e per anni direttore creativo di Salvatore Ferragamo: senza bravi prototipisti, modellisti e sarti, i disegni resterebbero disegni e non diventerebbero mai un prodotto finito.
Nonostante la loro rilevanza, sono mestieri che risentono della generale svalutazione culturale delle professioni tecniche, che in particolare nelle società occidentali porta le persone a scegliere percorsi formativi e di carriera più legati all’intelletto che alla manualità.
«Dagli anni Ottanta, ossia da quando in Italia abbiamo cominciato a raggiungere una certa soglia del benessere, l’ambizione delle famiglie è stata di portare i propri figli dentro a questo benessere» dice Giornetti. «Quindi a studiare, a qualificarsi con un titolo che arriva da un’università, a raggiungere posizioni manageriali. C’è proprio un divario tra quello che i giovani sognano di riuscire a ottenere nel settore della moda e quella che è la richiesta stessa del mercato. Quindi vediamo che alcuni corsi sono sovraffollati e altri fanno quasi fatica a partire». In sintesi, c’è tanta richiesta per i corsi più concettuali e molta meno per quelli più pratici.
«La verità è che vorremmo che fossero sempre i figli degli altri a diventare operai o sarte» ha detto un anno fa al Sole 24 Ore Brunello Cucinelli, presidente e direttore creativo dell’omonimo marchio, che ha sempre spinto molto sulla necessità di valorizzare di più queste professioni e pagarle meglio, raccontando anche meglio quanto sono importanti.
«È un tema culturale generale, che non riguarda soltanto le professioni della moda ma tutto il lavoro di fabbrica, il lavoro che un tempo veniva definito operaio», dice Carlo Mascellani, responsabile relazioni industriali e formazione di Sistema Moda Italia, l’associazione di categoria delle imprese della moda. I mestieri tecnici sono meno attrattivi e conosciuti di un tempo, e nella moda questa tendenza è stata aggravata da anni di crisi del settore, che ha scoraggiato i lavoratori ad avvicinarcisi in generale: «I licenziamenti e le chiusure di attività industriali di tante imprese ci sono stati, e hanno pesato nella percezione della vitalità e delle prospettive di questo tipo di industria», dice Mascellani.
C’è anche una questione generazionale. Un tempo i figli delle artigiane e degli artigiani, delle sarte e dei sarti, seguivano i percorsi dei genitori, crescevano nelle botteghe e il cosiddetto know-how, le conoscenze tecniche, si tramandavano così. Col tempo questo ricambio si è perso.
Matteo Secoli è presidente dell’Istituto Secoli, una delle più importanti scuole di tecnica della moda in Italia. Secondo Secoli ci sono anche altre ragioni per cui i mestieri tecnici della moda sono stati sempre più dimenticati da chi deve scegliere un percorso, ragioni che hanno più a che fare con i meccanismi produttivi delle aziende di moda. «Queste figure nascevano dal basso, ed erano tipicamente quelle persone entrate molto giovani in fabbrica. Tra queste quelle più brillanti andavano avanti a formarsi: c’era quello che diventava prototipista, quello che diventava modellista, quello che faceva il tecnico in produzione», dice Secoli. Ma questo sistema si è inceppato nel momento in cui gran parte della produzione è stata delocalizzata all’estero. In più i mestieri sono cambiati per via della meccanizzazione e del progresso tecnologico, sono diventati più complessi, per cui se anche oggi si ripristinasse questo meccanismo dal basso non sarebbe neanche più sufficiente a creare professionisti in grado di lavorare con le nuove tecnologie e i nuovi materiali: è necessaria una formazione più ampia e approfondita.
Anche per questo, secondo Secoli, le aziende devono riuscire a proporre prospettive di carriera allettanti per chi intende farli, in linea con una cultura del lavoro diversa rispetto al passato. Ci stanno riuscendo le grandi aziende, che riescono più facilmente a creare «dei percorsi interessanti di crescita professionale ed economica» grazie a strutture consolidate di reperimento del personale; stanno facendo invece più fatica le aziende piccole e familiari, quelle che compongono gran parte del settore in Italia e che non sempre hanno la sensibilità o la possibilità di farlo.
Prospettive di carriera migliori significa anche condizioni economiche migliori: gli stipendi bassi e le scarse possibilità di crescita nelle aziende in passato furono tra i motivi per cui questi mestieri venivano evitati. Un sarto o un modellista che inizia la sua carriera può passare dal guadagnare 1.700 euro lordi al mese fino a quasi 2.300 nel caso diventi quadro, cioè la qualifica subito sotto i dirigenti.
Questi però sono i livelli minimi previsti dai contratti collettivi nazionali del settore, e in passato erano anche più bassi: nella realtà oggi le aziende nella maggior parte dei casi pagano questi lavoratori molto di più, proprio perché non se ne trovano. Ma promettere di pagare di più questi lavoratori non basta, e il settore sta cercando di agire anche in altri modi per tentare di cambiare la percezione.
Innanzitutto tramite le scuole. Mascellani dice che il settore ha avviato progetti che raccontano i mestieri tra ragazzi anche molto giovani, già nelle scuole medie. La scelta di formarsi su queste tecniche, infatti, può essere fatta già in questa fase, scegliendo per esempio come percorso un istituto tecnico o professionale, che dà una formazione che può essere poi completata con l’iscrizione a un istituto di formazione tecnica superiore (come gli ITS), o a una scuola o un’università di moda.
Il direttore del Polimoda Giornetti racconta che durante gli orientamenti con le famiglie la scuola che dirige cerca di attrarre gli iscritti verso corsi più tecnici, raccontando le potenzialità nel mercato del lavoro. «Ma a quel punto ci stiamo rivolgendo a studenti già grandi, che stanno finendo le scuole superiori e che una scelta l’hanno già fatta».
Un altro modo con cui le aziende del settore stanno tentando di attrarre personale tecnico è tramite i corsi o le cosiddette academy aziendali: sono scuole all’interno delle aziende stesse o progetti esterni ma finanziati dalle società, che propongono una formazione specifica per questi mestieri allo scopo di inserire poi i partecipanti in azienda.
In Italia ce ne sono qualche decina. Da una parte servono a garantire alle aziende lavoratori formati, dall’altra indirizzare professionalmente i giovani in territori magari lontani dalle università e dalle scuole di settore. Studiare nelle scuole di moda nelle grandi città ha un costo che non tutte le famiglie possono permettersi e, secondo Giornetti, questi progetti paralleli hanno l’importante ruolo sociale di «portare la formazione dove altrimenti non arriverebbe, ed essere anche parte di una certa forma di riscatto sociale» per gli abitanti di quei territori.