Come funzionerebbe l’immunità da parlamentare europea per Ilaria Salis
Il Partito Democratico sta pensando seriamente di candidarla per fare in modo che venga rilasciata, secondo una procedura simile a quella che venne seguita per Enzo Tortora nel 1984
Da settimane i dirigenti del Partito Democratico discutono dell’opportunità di candidare alle prossime elezioni europee di giugno Ilaria Salis, l’insegnante italiana e militante di estrema sinistra di 39 anni detenuta in Ungheria dal 13 febbraio 2023, con l’accusa di avere aggredito tre manifestanti neonazisti durante un raduno di estrema destra a Budapest. Dell’ipotesi si parla almeno dal 14 febbraio, quando durante una fiaccolata in solidarietà di Salis a Largo di Torre Argentina, a Roma, alcuni parlamentari molto vicini alla segretaria del PD Elly Schlein la confermarono dicendo però che era in uno stadio molto preliminare.
Allora i parlamentari dissero che era ancora prematuro parlarne, mentre ora, quaranta giorni dopo, l’ipotesi sembra avere preso consistenza e diversi giornali la presentano come di un’idea che Schlein sta prendendo in considerazione seriamente, e di cui avrebbe parlato giovedì anche al presidente del PD Stefano Bonaccini durante un incontro organizzato proprio per discutere delle candidature alle europee.
Alla base di questo progetto, non ancora certo, c’è la volontà di fare ottenere a Salis l’immunità parlamentare che le verrebbe riconosciuta qualora fosse eletta al Parlamento Europeo, immunità che determinerebbe la sua scarcerazione. Il riconoscimento dell’immunità parlamentare, secondo il PD, sembra essere l’unica concreta possibilità per garantire a Salis una forma di libertà ed eventualmente un processo dignitoso, che potrebbe affrontare da donna libera. È una convinzione che si è rafforzata dopo l’udienza di giovedì, quando Salis è stata di nuovo portata nell’aula del tribunale di Budapest in catene, cioè nelle stesse condizioni in cui era apparsa già il 29 gennaio scorso. I suoi avvocati hanno chiesto al giudice Jozsef Sos di concedere a Salis gli arresti domiciliari in Ungheria, in un appartamento che i suoi famigliari hanno preso in affitto a Budapest, assecondando così i suggerimenti che i ministri della Giustizia e degli Esteri italiani, Carlo Nordio e Antonio Tajani, avevano sempre dato al padre di Salis. Ma il giudice ha negato questa richiesta e ha stabilito che Salis debba restare in carcere. La prossima udienza del processo, ancora interlocutoria, sarà il 24 maggio.
L’8 e 9 giugno si voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo. Secondo il regolamento parlamentare i suoi membri godono di immunità, e non possono dunque essere arrestati o sottoposti a restrizioni della loro libertà per tutta la durata del loro mandato, tranne nel caso in cui vengano fermati in flagranza di reato, cioè mentre lo stanno commettendo. A disciplinare questo aspetto è, in particolare, il cosiddetto “Protocollo 7”, che entrò in vigore nel 2004 come aggiornamento di analoghi regolamenti già esistenti. Tra le altre cose, il protocollo stabilisce che i parlamentari che si trovano sul territorio di un altro Stato membro non possono «essere detenuti né essere oggetto di procedimenti giudiziari». Sarebbe proprio quest’ultimo il caso di Salis.
La procedura è regolamentata in maniera molto chiara. Al momento dell’elezione, a Salis verrebbe riconosciuta l’immunità, e le autorità giudiziarie ungheresi dovrebbero rilasciarla. Contestualmente, il procuratore generale (il legfóbb ügyész) o il capo della procura competente sul caso, dovrebbe inviare al presidente del Parlamento Europeo una richiesta di autorizzazione a procedere per poter riprendere il processo contro Salis.
Il regolamento prevede che in questi casi la richiesta venga esaminata dalla commissione giuridica, quella composta dai parlamentari europei che si occupano specificamente di questioni di giustizia. Dopo averla discussa in tempi rapidi, la commissione elabora una relazione proponendo una tra queste soluzioni: confermare l’immunità, negarla, oppure negarla solo in parte, per così dire. In quest’ultimo caso, le autorità giudiziarie dello Stato membro sono autorizzate ad andare avanti col processo, ma il parlamentare indagato o imputato resta libero fino alla sentenza definitiva. La decisione della commissione viene poi inviata all’assemblea del Parlamento, che la discute alla prima seduta utile e la approva o la respinge a maggioranza semplice.
Il caso di Salis richiama, pur essendo nel merito una storia molto diversa, almeno un precedente illustre, e cioè quello di Enzo Tortora, il celebre giornalista e conduttore televisivo protagonista del più grave e scandaloso errore giudiziario della storia repubblicana italiana. Il 17 giugno del 1983 Tortora venne arrestato a Roma con le accuse, poi rivelatesi totalmente infondate, di spaccio di stupefacenti e associazione a delinquere nell’ambito di una grossa operazione contro la camorra della procura di Napoli. Dopo nove mesi di detenzione nel carcere di Bergamo, gli vennero concessi gli arresti domiciliari nella sua casa in via dei Piatti, a Milano. Il partito radicale di Marco Pannella, che aveva fin dall’inizio sostenuto la tesi dell’innocenza di Tortora, decise di candidarlo alle europee, che si tennero il 17 giugno del 1984. Dopo un anno e 33 giorni di ingiusta detenzione, Tortora venne eletto con oltre 485mila preferenze.
– Leggi anche: La vicenda giudiziaria di Enzo Tortora fu una cosa da non crederci
Pur tra polemiche e resistenze all’interno della procura di Napoli, il 19 luglio il presidente della seconda sezione penale del tribunale di Napoli, Giacomo Caracciolo, firmò l’ordinanza di revoca degli arresti domiciliari «per sopravvenuta immunità parlamentare». Contestualmente, avviò le pratiche per chiedere al presidente del Parlamento Europeo l’autorizzazione a procedere per Tortora, e dunque andare avanti col processo ai suoi danni. All’epoca, il protocollo che regolava le questioni relative all’immunità parlamentare era un altro, approvato nell’aprile del 1965, ma prevedeva procedure abbastanza simili.
La richiesta dei giudici napoletani venne trasmessa alla commissione giuridica, che all’epoca – diversamente da quanto avviene oggi – era chiamata a votare sul caso. Tortora annunciò subito che lui non aveva intenzione di sottrarsi al processo, e dunque sollecitò la commissione, di cui peraltro faceva parte, affinché si limitasse a riconoscergli un’immunità parziale che consentisse al processo di andare avanti, e a lui di restare in libertà fino alla sentenza, difendendosi nel frattempo dalle accuse. Il 21 novembre la commissione giuridica si espresse all’unanimità in questo senso.
Il 10 dicembre era previsto il voto del Parlamento Europeo, nell’aula di Strasburgo. Due giorni prima, durante un evento del partito radicale a Potenza sul tema degli errori giudiziari, Tortora aveva detto che si sarebbe dimesso qualora l’assemblea del Parlamento Europeo avesse negato l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, riconoscendogli dunque un’immunità totale. Così il 10 dicembre il Parlamento confermò all’unanimità la proposta già approvata della commissione giuridica.
Nel settembre del 1985, dopo la sentenza di primo grado nei suoi confronti, Tortora si dimise da parlamentare europeo, tornando a scontare la pena ai domiciliari. Il 15 settembre del 1986 fu assolto in appello, e l’assoluzione fu poi confermata dalla Cassazione il 13 giugno del 1987.