Fela Kuti reinventò la musica dell’Africa occidentale
Tra gli anni Settanta e Ottanta incorporò il jazz e il funk nei generi tradizionali nigeriani, e diventò una leggenda artistica e politica
di Giuseppe Luca Scaffidi
Alla fine degli anni Sessanta la scena culturale di Lagos, la più grande città della Nigeria, si concentrò in un piccolo locale del quartiere di Yaba. Si chiamava Kakadu, ed era il posto in cui gli studenti dell’Università di Lagos e dello Yaba College of Technology, i due atenei più importanti della città, si davano appuntamento per assistere alle lunghissime jam session dei Koola Lobitos, un gruppo che si ispirava alle grandi big band statunitensi, e quindi composto da una dozzina di musicisti suddivisi in una sezione ritmica e in una di fiati.
Facevano ballare e divertire la gente suonando l’afrobeat, una musica libera da schematismi che mescolava le composizioni del repertorio tradizionale della comunità nigeriana yoruba a generi che si erano diffusi oltreoceano nella comunità afroamericana, come il funk, il soul e soprattutto il jazz, da cui riprendeva la centralità del concetto di improvvisazione. Erano guidati da Fela Kuti, un estroso musicista che ai tempi si guadagnava da vivere lavorando come produttore radiofonico per la NBC (National Broadcasting Commission), l’emittente pubblica nigeriana.
Qualche tempo dopo Kuti sarebbe diventato il musicista africano più famoso della sua generazione, capace di attirare le attenzioni della critica occidentale e di fare arrivare la sua musica sulle piste da ballo statunitensi, traguardi impensabili per i musicisti africani del tempo. Riuscì a ottenere questo successo anche grazie al contributo di alcuni musicisti di straordinario talento, come il sassofonista tenore Igo Chico Okwechime (da cui Kuti stesso apprese i primi rudimenti del sax), il chitarrista jazz Fred Lawal, il percussionista Henry “Perdido” Kofi e soprattutto Tony Allen, un batterista formidabile che secondo diversi addetti ai lavori ebbe un’importanza paragonabile a quella di Kuti nello sviluppo dell’afrobeat, contribuendo a definirne suono, temi e regole compositive.
Oltre a essere apprezzato come musicista, Kuti fece parlare di sé per la sua vivace attività di opposizione alle giunte militari che governavano la Nigeria in quegli anni, come ha raccontato il documentario di Daniele Vicari Fela, il mio dio vivente, uscito al cinema da qualche giorno.
Il lato da agitatore politico di Kuti divenne esplicito a partire dalla metà degli anni Settanta, quando occupò un grosso complesso residenziale di Mushin, uno dei quartieri più poveri di Lagos, per fondare la cosiddetta “Repubblica di Kalakuta”, una comune ispirata a principi collettivistici che si autoproclamò indipendente e che divenne un importante e partecipato centro di dissenso.
Olufela Olusegun Oludotun Ransome-Kuti nacque nel 1938 a Abeokuta, nella parte sudoccidentale della Nigeria, da una ricca e colta famiglia della città. Il padre, Israel Oludotun Ransome-Kuti, era un reverendo anglicano che contribuì a fondare il primo sindacato nigeriano degli insegnanti, e la madre, l’educatrice Funmilayo Ransome-Kuti, era un’importante intellettuale femminista. Si appassionò alla musica sin da piccolo: suo padre era un abile pianista e suo nonno, Josiah Ransome-Kuti, ebbe un ruolo importante nello sviluppo della musica nigeriana, adattando una serie di canti cristiani in lingua yoruba. Studiò pianoforte su indicazione dei genitori e iniziò ad ascoltare i principali musicisti highlife (la musica che andava per la maggiore nell’Africa degli anni Quaranta), come Rex Lawson, E.T. Mensah e Victor Uwaifo.
A 19 anni si trasferì a Londra per frequentare l’università e seguire le indicazioni dei genitori, che prospettavano per lui un futuro da medico, ma alla fine cambiò idea e si iscrisse a un corso di composizione organizzato dal Trinity College of Music, specializzandosi nello studio della tromba. Qui si appassionò al jazz, al soul, al funk e al blues, generi nati negli Stati Uniti ma attorno ai quali si era creata una scena piuttosto vivace anche in Inghilterra, e sviluppò una passione viscerale per la musica e la presenza scenica di James Brown, probabilmente il musicista che influenzò maggiormente il suo percorso.
Kuti mescolò elementi di questi generi alla musica che aveva ascoltato fin da bambino, ossia l’highlife (che attingeva già moltissimo dal jazz) e i due generi tradizionali più diffusi nella comunità yoruba, il fuji e il jùjú. Aggiunse agli strumenti ritmici e solisti tipici del jazz (chitarre, trombe, sassofoni) percussioni di origini africana come i tamburi sakara, lo shekere (uno strumento tradizionale ricavato dalla lavorazione di una zucca essiccata) e l’ogene, una campana in metallo. Erano le basi del genere che, qualche anno dopo, la critica musicale avrebbe ribattezzato “afrobeat”, caratterizzato da arrangiamenti molto lunghi e ripetitivi, scanditi da ritmi percussivi tribali e pensati per permettere ai musicisti di mostrare il proprio talento attraverso l’improvvisazione.
Anche se già in questa fase furono fissate le basi del genere, l’afrobeat divenne tale solo qualche anno dopo, quando fu sdoganato anche l’ultimo elemento distintivo di questa musica: i testi, spesso di denuncia sociale e incentrati su temi come l’anticolonialismo, il panafricanismo e l’esperienza dei movimenti afroamericani statunitensi.
Kuti tornò in Nigeria nel 1962, dopo la laurea e dopo tre anni trascorsi a suonare una sorta di jazz tribale e contaminato da varie influenze nei principali club della scena londinese, alternando il lavoro a NBC e le esibizioni settimanali al Kakadu. Sette anni dopo, quando i Koola Lobitos erano ormai diventati il gruppo più famoso di Lagos, partì per una tournée di dieci mesi negli Stati Uniti, durante la quale si esibì a Washington, Chicago, San Francisco e Los Angeles.
In quei mesi incontrò l’attivista Sandra Izsadore, che lo fece entrare in contatto con i testi dei più importanti esponenti del movimento afroamericano per i diritti civili. Da quel momento in poi autori e autrici come Malcolm X, Angela Davis, Stokely Carmichael, Huey Newton, Frantz Fanon ed Eldridge Cleaver ebbero un’importanza fondamentale nella produzione di Kuti, che cominciò a integrare le loro tesi nei testi delle sue canzoni.
Tornato in Nigeria lo stile delle sue esibizioni cambiò profondamente, adattandosi a questa nuova consapevolezza politica. Se prima del tour negli Stati Uniti il principale obiettivo era far ballare e divertire la gente che passava dal Kakadu, a partire dal 1970 questi eventi cominciarono ad assomigliare sempre di più a dei sermoni politici.
I nuovi spettacoli dei Koola Lobitos, che nel frattempo cambiarono nome in Africa 70, esercitavano un enorme fascino sul pubblico. Continuavano a essere molto spassosi e coinvolgenti, anche grazie alle doti istrioniche di Kuti, che sul palco si muoveva come un forsennato imitando le spettacolari movenze di James Brown, e che inventava sul momento lunghi assoli alternando diversi strumenti (tromba, batteria, tastiere, a volte chitarra elettrica). Kuti introdusse però una novità, ossia dei momenti in cui interagiva con il pubblico con un fare quasi sciamanico, attraverso una particolare tecnica oratoria che chiamava yabis.
In sostanza, si trattava di lunghi monologhi dal contenuto satirico che Kuti narrava a ritmo di musica, come se fosse una sorta di predicatore. Kuti sfruttava le yabis per scopi diversi, come diffondere i principi della sua particolare visione politica (una sorta di utopia africana che coniugava socialismo e panafricanismo), spiegare il significato dei testi delle sue canzoni e predicare una nuova forma di libertà di espressione, che aveva al centro la garanzia del diritto di fumare “igbo” (marijuana), una pratica che considerava in grado di esaltare le possibilità espressive dell’uomo.
La fama da oppositore di Kuti crebbe inizialmente grazie al passaparola che si creò attorno alle yabis, che nel tempo diventarono degli appuntamenti sempre più apprezzati e partecipati. Il successo fu tale che, a un certo punto, Kuti decise che limitarsi a eseguirle dal vivo non era abbastanza e cominciò a trascriverle per farle pubblicare a pagamento sui principali giornali del paese, come Punch e The Sun, firmandosi con lo pseudonimo “Chief Priest Say”.
Uno dei primi esempi di questa seconda fase musicale di Kuti, più impegnata e politicamente attiva, fu la pubblicazione di Gentleman, il primo album degli Africa 70. Nella canzone che dava il titolo al disco Kuti ridicolizzava la tendenza delle famiglie delle classi medie e alte nigeriane a indossare abiti europei, come i completi con giacca e cravatta, nonostante i caldi e umidi climi nigeriani, circostanza che li portava a «sudare» e a «puzzare come la merda». Kuti vedeva in questa abitudine il riflesso di una mentalità postcoloniale che stava soppiantando gli usi e i costumi tradizionali nigeriani.
L’attività da attivista politico divenne più intensa a partire dal 1974, quando occupò un grosso complesso residenziale di Mushin, uno dei quartieri più poveri di Lagos, per fondare la “Repubblica di Kalakuta”, una comune autoproclamatasi indipendente dal governo nigeriano, che in pochi anni accolse decine di adepti.
A Kalakuta Kuti, i suoi musicisti e una sessantina di seguaci trascorrevano le giornate in modi impensabili per il resto della popolazione nigeriana: fumavano marijuana, guardavano film horror, componevano musica, partecipavano a assemblee politiche incentrate sui temi del panafricanismo e sull’esperienza del movimento statunitense per i diritti civili. Al suo interno Kuti fece allestire uno studio di registrazione e un centro medico per garantire cure gratuite a chiunque ne avesse bisogno.
Kalakuta fu un elemento centrale nella costruzione del culto della personalità di Kuti, che da quel momento in poi divenne il personaggio pubblico più discusso e commentato del paese. In un approfondimento pubblicato su The Wire il saggista Lindsay Barrett ha ricordato come il racconto di ciò che accadeva all’interno della comune divenne uno degli argomenti preferiti dei tabloid nigeriani, che in quegli anni ebbero un picco di vendite.
Kuti apprezzava la centralità che aveva ottenuto nel dibattito pubblico nigeriano, e non perdeva occasione per attirare l’attenzione mediatica con gesti plateali. Per esempio diede al suo asino il nome Yakubu, lo stesso del generale Yakubu Gowon, che aveva preso il potere in Nigeria nel 1966 con un colpo di stato e che era spesso uno degli obiettivi polemici delle yabis.
A crowd of people watching Fela Kuti as he feeds his pet donkey Yakubu, which he named after General Yakubu Gowon, 1975. pic.twitter.com/ZuG2y3pp3q
— Nigeria Stories (@NigeriaStories) January 8, 2024
Venne costruita una certa mitologia anche attorno alla vita quotidiana della band, che in quel periodo raggiunse un livello di notorietà senza precedenti. Per esempio nel 1974, quando il sassofonista Igo Chico Okwechime lasciò gli Africa 70, cominciò a diffondersi la leggenda secondo cui Kuti, che fino a quel momento aveva suonato il sax in modo discontinuo e amatoriale, riuscì a sostituirlo in appena un giorno, esercitandosi maniacalmente per 17 ore di fila.
Sempre secondo la leggenda, il giorno dopo Kuti era già in grado di suonare alla perfezione tutte le parti di sassofono di Okwechime, riuscendo quasi a non farne avvertire l’assenza. Anche se in effetti dal 1974 in poi Kuti suonò spesso il sax durante i concerti, questo racconto è probabilmente poco veritiero (aveva imparato a destreggiarsi sullo strumento già prima), ma il fatto che molte persone lo ritenessero credibile dimostra quanto la sua figura fosse mitizzata in quel periodo.
L’esperienza di Kalakuta durò pochi anni: nel pomeriggio del 18 febbraio 1977 alcune centinaia di soldati fecero irruzione al suo interno e la rasero al suolo, distruggendo il centro medico, gli strumenti e tutte le registrazioni degli Africa 70. Secondo il racconto dello scrittore Michael E. Veal, autore di un’apprezzata biografia di Kuti, durante l’attacco «a un certo numero di uomini furono fracassati i testicoli», e «le donne furono picchiate, costrette a spogliarsi» e trasportate in caserma, dove furono stuprate e torturate. Inoltre, in quell’occasione i soldati fecero precipitare dal primo piano dell’edificio Funmilayo Ransome-Kuti, la madre di Kuti, che sarebbe morta un anno dopo, dopo aver trascorso diversi mesi in stato comatoso.
Anche se le sue responsabilità erano piuttosto palesi, in un primo momento Olusegun Obasanjo, il generale che nel frattempo aveva preso il potere in Nigeria, negò ogni coinvolgimento e annunciò l’istituzione di una commissione d’inchiesta speciale per indagare sull’accaduto.
Pochi mesi prima dell’irruzione dell’esercito Kuti aveva pubblicato Zombie, il suo disco più famoso. Era composto da quattro lunghissime canzoni legate da un filo narrativo comune, ossia delle critiche piuttosto esplicite nei confronti dei metodi della dittatura militare. Tutte le canzoni erano strutturate nello stesso modo: iniziavano con delle lunghe sezioni ritmiche di batteria, basso, chitarra e percussioni, a cui venivano poi aggiunti fiati, tastiere, cori. Kuti iniziava a cantare solo nella parte finale, dove metteva in fila una serie di metafore semplici e dirette in cui i soldati nigeriani venivano paragonati, per l’appunto, a degli zombie che obbediscono agli ordini senza opporsi.
Alcuni giornalisti del tempo scrissero che il successo di Zombie fu uno dei motivi che causarono l’assalto di Kalakuta. In realtà, l’ipotesi più probabile è che Obasanjo abbia concepito l’attacco come una reazione al rifiuto di Kuti di partecipare a un evento musicale organizzato dal governo.
L’assalto di Kalakuta fu raccontato dai principali quotidiani internazionali e, anche se fu un evento tragico, contribuì ad aumentare la notorietà di Kuti a livello internazionale. Dopo l’assalto Kuti si trasferì per un periodo in Ghana, dove cambiò la prima parte del suo doppio cognome (Ransome), che considerava un nome da schiavo perché di derivazione britannica, con Anikulapo, parola africana che traducibile più o meno come «colui che dispone della propria morte». Dopo i fatti di Kalakuta gli Egypt 80 (il nuovo nome che fu dato agli Africa 70 con l’inizio del nuovo decennio) acquisirono lo status di band di culto e “militante”, e i loro tour in Europa e negli Stati Uniti venivano accolti con grande trasporto dal pubblico.
Nel 1979 Kuti fondò anche il suo partito politico, il Movement of the People, ispirato ai principi del socialismo africano del panafricanista ghanese Kwame Nkrumah, con l’obiettivo di candidarsi alle elezioni politiche previste per l’estate di quell’anno; la sua candidatura fu però rifiutata.
Tra gli anni Ottanta e Novanta continuò a esibirsi dal vivo e realizzò una grande quantità di album, che contribuirono a irrobustire una produzione già enorme (la discografia parziale attribuita a Kuti e ai vari progetti in cui fu coinvolto conta più di 50 dischi). Morì nel 1997 dopo aver contratto l’HIV (il virus che causa l’AIDS), una malattia che aveva iniziato a diffondersi dagli inizi degli anni Ottanta e che Kuti negò a più riprese di avere, sulla base di presupposti ideologici e non scientifici, sostenendo che fosse una malattia dell’uomo bianco e che, in quanto tale, non potesse essere trasmessa alle persone nere. Kuti rifiutò addirittura di curarsi, nonostante i suoi due fratelli, Olikoye Ransome-Kuti e Beko Ransome-Kuti, fossero due medici.
Anche se oggi è molto apprezzato in Nigeria, dove viene considerato un simbolo della lotta contro il colonialismo, negli ultimi trent’anni la figura di Kuti è stata oggetto di diverse letture critiche femministe che hanno analizzato uno degli aspetti meno discussi della sua vita, ossia la sua misoginia, resa evidente dai testi di diverse canzoni. L’ostilità di Kuti verso le donne fu considerata piuttosto sorprendente dagli osservatori del tempo, anche perché sua madre Funmilayo Ransome-Kuti era una delle figure più importanti del femminismo africano del tempo e, tra le altre cose, fu la prima donna nigeriana a guidare un’automobile.
Lo stesso Barrett, che fu amico di Kuti per molti anni, scrisse che «il suo appetito sessuale era leggendario», e che «molte giovani donne si sottomisero a una vita di virtuale schiavitù mentre predicava un’ideologia di controllo sciovinista e stabiliva uno stile di vita basato sulle sue teorie sulla sottomissione femminile».
La misoginia di Kuti divenne un argomento di discussione anche per un breve periodo della sua vita, e soprattutto nel 1978, quando aderì alla poligamia e sposò 27 ballerine che lo accompagnavano nelle sue esibizioni dal vivo per celebrare il primo anniversario dell’assalto di Kalakuta. Parlando di questo aspetto di Kuti, la ricercatrice nigeriana Merlin Uwalaka ha scritto che «sebbene Fela sfidasse con zelo il governo e l’oppressione neocoloniale in Nigeria, non era ugualmente interessato a smantellare l’oppressione patriarcale».
Gli Egypt 80 continuano a esibirsi dal vivo: attualmente il gruppo è guidato dal figlio minore di Fela, Seun Kuti, che in diverse occasioni ha spiegato che considera la continuazione di questa attività una sorta di missione. Seun Kuti porta avanti anche alcune battaglie politiche del padre: nel 2012 ha partecipato alle proteste del movimento Occupy Nigeria contro la politica di rimozione dei sussidi per il carburante ordinata dal presidente Goodluck Jonathan, e nel novembre 2020 ha presieduto la rinascita del defunto partito politico di suo padre, il Movimento del Popolo, registrandolo presso l’ente elettorale nigeriano, l’INEC.
In un’intervista data a Rolling Stone, Seun Kuti ha spiegato che non ha mai sofferto più di tanto i continui confronti con il padre, perché «a unirci non era il cognome, ma la musica e l’amore per l’Africa e la sua cultura, e questo collante ci ha legati per sempre e, di riflesso, mi ha posto in connessione con tutti i suoi sostenitori». Anche Femi Kuti, il primogenito di Fela, è un musicista piuttosto affermato, ma a differenza di Seun ha scelto di distaccarsi dagli Egypt 80 per fondare un suo gruppo, i Positive Force.