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  • Mercoledì 27 marzo 2024

«Sono andato bene in matematica fino a quando non hanno cominciato a usare le lettere al posto dei numeri»

Qualche pagina del libro in cui Pietro Minto racconta un suo esperimento: ristudiare la matematica delle superiori da adulto, per impararla davvero

Illustrazione astratta in cui si vede una figura umana scendere per una scala circondata da numeri e simboli matematici
Dettaglio dell'illustrazione di copertina del libro La seconda prova di Pietro Minto (Manfredi Ciminale, Einaudi)

Pietro Minto, autore della newsletter Link Molto Belli e tra le altre cose collaboratore del Post, andava piuttosto male in matematica ai tempi della scuola, tanto da continuare a fare incubi sulle interrogazioni anche a quasi vent’anni dal suo diploma nel liceo scientifico Ettore Majorana di Mirano, in provincia di Venezia. Per questo negli ultimi anni ha condotto una specie di esperimento: ristudiare tutto il programma di matematica delle superiori fino a rifare la prova d’esame di matematica della maturità del suo anno, il 2006. Poi ci ha scritto un libro, La seconda prova. Imparare la matematica, vent’anni dopo, che Einaudi ha appena pubblicato.

È un libro di non fiction in cui Minto racconta il suo approccio allo studio da adulto, mescolando a qualche ricordo di gioventù ciò che ha imparato sulla matematica e la sua storia cercando di capirla da capo (o forse davvero, per la prima volta), approfondendo tanti aspetti che a scuola sono trascurati. Contiene varie formule, ma tutte alla portata degli studenti delle superiori e spiegate in modo molto semplice. Pubblichiamo un pezzo del capitolo dedicato al programma di seconda superiore e in particolare ai primi rudimenti di algebra.

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C’è una vecchia battuta che fa al caso nostro. Non ricordo di chi fosse, può darsi venga attribuita a Woody Allen come spesso succede agli aforismi da Smemoranda che non hanno una paternità chiara. Fa piú o meno cosí: «Sono andato bene in matematica fino a quando non hanno cominciato a usare le lettere al posto dei numeri». Ora, a parte il fatto che credo di essere andato male anche prima, è ovvio che lo sbarco del comparto alfabetico negli esercizi di matematica è traumatico per molti. A che serve usare a, b, y o z, quando ci avete appena insegnato che i numeri sono infiniti?

Serve all’algebra, ecco a che cosa serve. L’algebra, ci viene detto, è stata inventata dagli Arabi, a cui dobbiamo la parola stessa, che deriva appunto dall’arabo الجبر, al-jabr, ossia «unione», «completamento», «ristabilire». Agli Arabi dobbiamo anche lo zero e tutti i numeri che conosciamo, non a caso detti «numeri arabi». È tutto vero, piú o meno, ma è una storia fin troppo semplice per reggere a uno studio piú approfondito, come vedremo: quelli che chiamiamo numeri arabi furono inventati piú a oriente, nella civiltà hindu, nell’odierna India, e arrivarono in Europa tramite gli Arabi. Mentre l’Europa cristiana viveva un periodo di forte regressione culturale, scientifica e politica (dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, le invasioni barbariche e il trionfo del cristianesimo), il mondo musulmano visse la sua età dell’oro. Al suo cuore, la città di Baghdad, capitale della scienza e delle arti piú illuminate. Nel 770 d.C., vi giunse uno studioso indiano che portava con sé «un testo astronomico sanscrito» in cui si utilizzava l’aritmetica posizionale decimale, che gli Arabi chiamarono Hisab al-Hind («calcolo indiano»). Quanto allo zero, fu scoperto nei manoscritti indiani, anche se gli stessi matematici hindu lo avevano ripreso da documenti dell’epoca tarda dei Babilonesi.

È vero, qui sopra ho raccontato che i Babilonesi non avevano lo zero e per questo la loro matematica si prestava ad alcune ambiguità. Ma poco prima della nascita di Cristo, in quella stessa area si prese l’abitudine di usare questo simbolo come «segnaposto che rappresentava lo spazio vuoto in modo che tutte le cifre cadessero al posto giusto». Gli studiosi indiani (come il matematico Brahmagupta, vissuto tra il 598 e il 670 d.C.) furono i primi a dare allo zero valore numerico, trasmettendo il trucchetto agli Arabi, che lo mostrarono poi agli europei, in quel momento troppo impegnati a battersi nel fango per pensare a tali assurdità.

Anche se il loro contributo fu essenziale, sarebbe errato attribuire agli Arabi la nascita dell’algebra. Qualcosa di simile esisteva quasi quaranta secoli fa, ai tempi della Mesopotamia e dell’antico Egitto. A rendere possibile lo sviluppo dell’algebra, anche prima dell’Islam, fu «il passaggio mentale dall’aritmetica descrittiva a quella interrogativa», come nota John Derbyshire, autore di una suggestiva storia dell’incognita per eccellenza: la x. Mettiamola cosí: dove c’è una domanda riguardo a una quantità imprecisata, c’è algebra. Prendiamo per esempio un problema matematico inciso su una tavoletta dell’epoca di Hammurabi, sovrano vissuto in Mesopotamia all’incirca fino al 1750 a.C. Vi si legge: «[L’igib]um supera l’igum di 7. Quanto sono [l’igum e] l’igibum?» Che possiamo leggere come: «Un numero supera il suo reciproco di 7. Quanto vale questo numero?» Ricordando che i Babilonesi usavano la numerazione a base 60, possiamo trascrivere il quesito cosí:

x – 60 / x = 7

E otteniamo quella che oggi chiameremmo un’equazione di secondo grado: x2 – 7x – 60 = 0. (Spoiler alert: le due soluzioni possibili sono x = 12 e x = – 5, anche se i Babilonesi non conoscevano i numeri negativi). Come vedremo, l’utilizzo formale di lettere quali la x per indicare l’incognita da trovare è relativamente recente: per molto tempo ci si arrangiò con simboli, parole e concetti diversi, visto che la matematica stessa era verbale e non si riduceva alle formule stringate che conosciamo tutti. Un problema risalente all’antico Egitto (2000-1800 a.C.) recita: «Un mucchio e il suo settimo vale 19. Quanto è grande il mucchio?»

Ma vi prego di non distrarvi pensando ai mucchi: dobbiamo continuare con questa breve lezione di storia per poter incontrare il padre dell’algebra. Quello vero.

Diofanto in al-Andalus.
Di Diofanto non sappiamo niente. A parte che visse tra il III e il IV secolo d.C. ad Alessandria d’Egitto, alla fine della cultura ellenica e agli albori dell’era cristiana. La sua opera è l’Arithmetica, di cui è arrivata a noi solo una metà, sotto forma di 189 problemi. Proprio cosí: problemi. Che questa informazione sia di consolazione per chi, come me, maledice la matematica perché viene spesso ridotta a una serie di problemi a cui trovare una soluzione: è proprio cosí che è nata.

Quanto all’utilizzo delle lettere in matematica, nostra croce e delizia, per Diofanto non era per nulla strano. Anzi, tendeva a non usarli nemmeno, i numeri, preferendo un insieme di 27 lettere greche divise in tre gruppi: le prime nove rappresentavano le cifre da 1 a 9, il secondo gruppo conteneva i simboli per le decine, da 10 a 90, e il terzo le centinaia, da 100 a 900. Diofanto non usava giri di parole o lunghe frasi per presentare i suoi problemi: il suo sistema era piuttosto sofisticato e utilizzava la lettera sigma (ς) per indicare l’incognita da trovare. Con lui la ricerca di quantità misteriose smette ufficialmente di essere un problema concreto e si fa simbolo, astraendosi. Quanto vale ς? Che domande, può valere qualsiasi cosa! «La presenza di un’incognita», sempre secondo Derbyshire, «sposta l’equazione dal suo significato descrittivo, “è cosí”, a quello interrogativo, “è cosí?”, oppure piú spesso “quando è cosí?”».
Il tappo era saltato.

Diofanto conosceva anche la regola dei segni, per cui un numero negativo moltiplicato per un altro numero negativo ha come risultato un numero positivo. Particolare importante per capire il caratterino del nostro: all’epoca non si usavano nemmeno, i numeri negativi. Ma ciò non importava a Diofanto, che scrisse: «Ciò che manca moltiplicato per ciò che manca dà ciò che esiste; ciò che manca moltiplicato per ciò che esiste dà ciò che manca». Una bellissima filastrocca che oggi rendiamo cosí:

+ per + = +
+ per – = –
– per – = +
– per + = –

Rimaniamo ad Alessandria d’Egitto. Nel 640 d.C. le armate arabo-islamiche sconfissero l’imperatore bizantino Eraclio conquistando la città dopo un lungo assedio. Nei secoli della sua prima espansione, l’Islam conquistò i centri nevralgici della scienza e della cultura antica, dalla Grecia all’Egitto passando per l’ex Babilonia e arrivando alle porte dell’Asia, finendo cosí per salvare moltissime opere, che furono copiate e tradotte dagli studiosi arabi. Entro l’830 Baghdad aveva una biblioteca che non aveva niente da invidiare a quella, perduta, di Alessandria, dove centinaia di studiosi traducevano antichi testi in siriaco e in arabo. Fu un’operazione di back-up culturale e scientifico di cui è difficile calcolare l’importanza, grazie alla quale si salvarono dall’oblio i testi di e su Archimede, Euclide e lo stesso Diofanto. Un esempio: gli Elementi di Euclide, opera fondamentale del periodo ellenico, tornò in Europa solo nel 1142 attraverso una traduzione latina di una copia araba.

Tra il 711 e il 718 d.C., buona parte della penisola iberica fu conquistata dalle armate arabo-islamiche, che portarono quell’opera di copiatura nel cuore del Continente. Gli studiosi europei cominciarono a recarsi nella Spagna islamica, chiamata al-Andalus, per visitare le biblioteche di Cordova, Toledo, Saragozza, dove era possibile mettere le mani su quelle opere perdute – e ora ritrovate. Fu un processo lungo che, complici i cambiamenti sociali e politici dell’epoca, finí per trasformare l’assetto scientifico europeo, ponendo le basi della rinascita avvenuta dopo l’anno Mille. Ma questa via ci porterebbe a Fibonacci e all’avvento dell’algebra in Italia, e non è ancora giunto il momento. Prima dobbiamo incontrare l’altro padre dell’algebra. Ebbene sí, ce n’è un altro.

Il signore degli algoritmi.
Nemmeno di lui sappiamo granché. Il nostro uomo si chiamava Abū Ja‘far Muḥammad ibn Mūsā al-Khuwārizmī, visse nel IX secolo e nell’830 pubblicò al-Kitāb al-mukhtaṣar fī ḥisāb al-jabr wa al-muqābala, lunga sequenza di parole di cui vorrei isolarne una sola: al-jabr, da cui «algebra». Finalmente ci siamo. Quando gli eserciti cristiani riuscirono a riconquistare la penisola iberica, si trovarono di fronte allo splendore delle biblioteche islamiche, al cui interno, oltre ai grandi classici, c’erano volumi e studi prodotti da scienziati arabi che nel corso dei secoli avevano proseguito quanto iniziato da Diofanto, Pitagora e dagli altri geni dell’antichità. Tra quegli studiosi islamici, il piú importante fu proprio al-Khuwārizmī, il cui nome fu tradotto in latino nel XII secolo (cosí come la sua opera che divenne: Liber algebrae et al-mucabala), portando alla nascita del termine «algoritmo».

Risolta la questione etimologica, vorrei concentrarmi sull’aspetto spassoso della storia. Il primo utilizzo del termine «algebra» in Europa non si trova in matematica: in seguito alla Reconquista della Spagna da parte dei cristiani, divenne piuttosto comune vedere delle insegne di botteghe che si presentavano come «Algebrista y Sangrador» («algebrista e salassatore»). Erano perlopiú negozi di barbieri che alternavano il taglio della barba ad altri tipi di servizi medici, come il salasso o l’attività di conciaossa. Fu cosí che nell’Italia del Quattrocento «la parola “algebra” prese a indicare “l’arte di aggiustare le ossa”»: non si tratta di un malinteso o un errore di traduzione, ma di una traduzione letterale dall’arabo. Al-jabr significa appunto «ristabilire», rimettere a posto – numeri, ma anche, perché no, omeri e femori fratturati. Ve l’avevo detto, che le cose si mettevano male.

Torniamo alla parola al-jabr e all’altra parola chiave del trattato di al-Khuwārizmī, al-muqābala. Significano «ristabilire» e «semplificare». Che c’entrano con l’algebra che conosciamo e che sto studiando? Immaginiamo una semplice equazione di primo grado:

x + 4 = 8

La regola del «ristabilire» permette di spostare il 4 a destra, cambiandolo di segno e ottenendo:

x = 8 – 4

Mentre quella di «semplificare» ci autorizza a eliminare due elementi uguali da entrambi i lati, perché si annullano a vicenda, cosí:

x + 1 + 4 = 5 + 1

Si ottiene quindi: x + 4 = 5. Usando il «ristabilire», infine, possiamo portare il + 4 a destra, sempre cambiandolo di segno, quindi x = 5 – 4, ricavando: x = 1. Questo è il misterioso legame tra un conciaossa e un calcolo ben riuscito: un crac piacevole che rimette le cose a posto, facendo schioccare un’articolazione o trasformando una disordinata equazione in una forma piú semplice. Il ristabilire e il semplificare sono alla base dell’algebra, un tentativo di riduzione e riordino a partire da una matassa di incognite e termini noti.

Qualcosa di simile lo ritroviamo nei monomi e nei polinomi, altri argomenti che si studiano in prima superiore e che portano alle frazioni algebriche. L’idea alla base dei monomi è semplice, per quanto diabolica: e se, dopo aver aggiunto le lettere ai nostri numeri, li fondessimo, unendo una parte numerica a una parte letterale, creando un tutt’uno inscindibile? Che splendida trovata. Alcuni esempi di monomi:

abc2
4mp3a4
2tya4

A inventarseli fu il matematico persiano al-Karaji (953- 1029), padre della formula per i prodotti di monomi, che prevede il mantenimento della base e la somma degli esponenti:

x3 · x4 = x3+4 = x7

Al-Karaji, è evidente, si divertiva a giocare con le lettere al posto dei numeri, moltiplicandole e dividendole tra di loro, scoprendo molte delle regole che gli studenti di oggi devono imparare. È un altro passo importante per quanto riguarda il distacco dell’algebra dalla realtà. Una quantità elevata alla seconda o alla terza potenza, infatti, ha un significato geometrico preciso: a2 è l’area di un quadrato il cui lato misura a; a3, invece, è il volume di un cubo di lato a. Ma cosa diavolo è a7? Esiste una forma, un solido, un oggetto la cui misura sia a7? È ovvio che è un’astrazione che viene accettata solo per poter continuare a svolgere questi calcoli, per sadico divertimento ai nostri danni. Lo stesso al-Karaji ne era conscio e inizialmente chiamò x5 «quadrato-cubo» e x6 «cubo-cubo», tentando di suggerire un sottile legame con la geometria euclidea. Ma era già troppo tardi, il tappo era saltato da tempo, l’abbiamo visto, e il conteggio dei caproni era ormai a distanze siderali.

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