Non sappiamo ancora quanto finirà per costare il Superbonus
Solo nell'ultimo anno il suo impatto sui conti pubblici per il 2023 è stato rivisto al rialzo tre volte, e per diverse ragioni non si capisce come evolverà nei prossimi anni: è un problema enorme per il governo
Il provvedimento comunicato dal governo il 26 marzo è solo l’ultimo di una lunga serie di interventi per porre limiti al costo del Superbonus, l’agevolazione fiscale introdotto nel 2020 che rimborsa le spese dei lavori edilizi per aumentare l’efficienza energetica degli edifici. Prima il governo di Mario Draghi e poi quello di Giorgia Meloni hanno tentato in varie occasioni di arginare la misura, molto generosa, non solo perché si è prestata ad abusi e truffe, ma anche perché da tempo la spesa per il Superbonus sembra essere diventata incontenibile: nonostante tutte le limitazioni introdotte continua a rivelarsi molto più alta delle previsioni, anche nell’ordine di decine di miliardi di euro rispetto a quelle precedenti.
Da luglio del 2020 alla fine di febbraio del 2024 è costato allo Stato 114 miliardi di euro, quasi 2mila euro per ogni residente in Italia, ma per una serie di ragioni è difficile capire come evolverà ancora la spesa nei prossimi anni, e quanto effettivamente sarà costato una volta esaurito. Sebbene quando fu introdotto trovò il sostegno quasi unanime di tutti i partiti, oggi il Superbonus è un bel guaio per il bilancio pubblico: l’onerosità e l’imprevedibilità del costo rendono piuttosto complicata la programmazione economica del governo, che si trova a fare le sue valutazioni con stime che cambiano continuamente e che impegnano una quota della spesa pubblica sempre superiore alle aspettative.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha spesso fatto esternazioni piuttosto nette su quanto l’ingestibilità del costo del Superbonus sia un problema per il governo: l’ha definita un’«emorragia» di spesa pubblica, una misura che «ingessa la politica economica» e che addirittura gli fa venire il «mal di pancia» ogni volta che ci pensa. Lo scorso settembre Giorgetti disse che il governo, che allora era in carica da neanche un anno, aveva già speso 20 miliardi di euro per finanziare il Superbonus, e che rimanevano altri 80 miliardi da pagare fino al 2026: «Tutti hanno già mangiato la cena e se ne sono andati, e noi siamo chiamati a pagare il conto», ha detto. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni l’ha definito «la più grande truffa ai danni dello Stato».
Può sembrare una questione semplicemente contabile o politica, ma ha effetti estremamente concreti: in un paese ad alto debito come l’Italia, che deve oltretutto rispondere ai vincoli imposti dalle regole europee sui bilanci pubblici, avere una quota così grande di spesa impegnata da una misura che probabilmente avrà strascichi per ancora alcuni anni significa non poter usare queste risorse per altri interventi, magari più urgenti e necessari.
Solo nell’ultimo anno è stato rivisto al rialzo tre volte il costo complessivo della misura per il 2023 e il suo impatto sul rapporto tra deficit dello Stato e Prodotto Interno Lordo. Il deficit misura la differenza tra entrate e uscite nel bilancio dello Stato, quindi quella parte di bilancio che deve essere finanziata a debito: per esempio se lo Stato incassa complessivamente 100 euro, ma ne spende 108, ci sono 8 euro che restano scoperti, e che quindi devono essere finanziati facendo un debito. Per consuetudine, questo valore si mette in rapporto al PIL, il reddito prodotto dal paese nell’anno, ossia la misura di quello che potenzialmente si usa per ripagarlo.
Nell’ultimo Documento di Economia e Finanza (DEF), il documento approvato ogni anno in aprile che contiene le intenzioni di spesa e le previsioni di crescita e di indebitamento del governo, l’indebitamento per il 2023 era previsto al 4,5 per cento del PIL. Poi nella Nota di Aggiornamento al DEF di settembre era salito al 5,3, fino a quando a inizio marzo l’ISTAT l’ha rivisto al 7,2 per cento. Ogni revisione è stata motivata con il costo superiore alle attese dei bonus edilizi, tra cui soprattutto il Superbonus.
Sono differenze enormi e inusuali per le revisioni statistiche, che di solito si limitano a correzioni nell’ordine di decimi di punto percentuale. Per provare a dare una dimensione di quanto sia grande questo ricalcolo: la differenza tra la prima e l’ultima stima dell’indebitamento del 2023 è di 2,7 punti percentuali di PIL, circa 56 miliardi di euro in più.
Il giornalista Luciano Capone – solitamente molto informato su questi temi – ha scritto sul Foglio, citando fonti del ministero dell’Economia, che è probabile che questa stima sia ulteriormente rivista al rialzo di 10 miliardi nel prossimo DEF, che sarà presentato dal governo entro il 10 aprile. In questo modo il deficit del 2023 arriverebbe vicino all’8 per cento.
I motivi che rendono così difficile prevedere il costo del Superbonus sono essenzialmente tre: innanzitutto le domande di accesso all’agevolazione fiscale sono state sempre superiori alle aspettative, essendo una misura molto conveniente per chi vuole fare dei lavori di efficientamento energetico; in secondo luogo le spese edilizie che lo Stato deve rimborsare dipendono da fattori assai variabili e imprevedibili, come il costo dei materiali; infine sono cambiate continuamente le regole, che nel tempo hanno creato uno spazio di eccezioni e concessioni che rendono difficile fare previsioni accurate su chi siano effettivamente i possibili beneficiari e quanto possano chiedere.
La questione è poi ulteriormente complicata dai metodi di calcolo statistico per questi tipi di bonus, che l’Istat ha cambiato lo scorso anno e su cui è attesa entro giugno anche una revisione ufficiale da parte di Eurostat, l’istituto di statistica europeo, i cui dati fanno da riferimento per tutti i documenti ufficiali a livello europeo.
Semplificando molto, se prima della modifica contabile si distribuiva su più anni il costo complessivo per lo Stato del rimborso dei crediti del Superbonus e degli altri bonus edilizi, ora invece li si deve contabilizzare nei bilanci degli anni in cui quei rimborsi sono stati effettivamente richiesti. Quindi se per esempio si è presentata la richiesta di accedere al bonus nel 2023, anche se il credito fiscale si riscuoterà effettivamente in più anni, a livello contabile va contato interamente nella spesa del 2023.
Questo aveva fatto sì che lo scorso marzo, a posteriori, il rapporto deficit/PIL tra il 2020 e il 2022 venisse rivisto molto al rialzo: l’ISTAT aveva così stimato che il rapporto tra deficit e PIL nel 2022 fosse stato dell’8 per cento (contro il 5,6 previsto inizialmente), nel 2021 del 9 per cento (invece del 7,2) e nel 2020 del 9,7 (invece del 9,5). Nel giro di tre anni erano stati contabilizzati circa 80 miliardi di euro in più rispetto alle previsioni.
Dal punto di vista economico di fatto non è cambiato niente, perché il costo complessivo resta lo stesso. Ma le cose cambiano molto in ottica politica, perché il nuovo metodo di calcolo contabile obbliga il governo a mettere a bilancio tutta la spesa prevista per l’anno, senza poterla rateizzare nei bilanci successivi: un fatto che mostra immediatamente l’impatto notevole della misura e riduce molto le possibilità di spesa per l’anno corrente.
Fino allo scorso anno aumenti così sostanziosi nel rapporto tra deficit e PIL tutto sommato non erano un problema: le stringenti regole europee sui conti pubblici erano ancora sospese dal 2020, e gli stati non avevano particolari vincoli nell’indebitamento. Per esempio non c’era bisogno di rientrare nel consueto 3 per cento di rapporto tra deficit e PIL, uno dei parametri considerati più stringenti.
Dal 2024 sono entrate in vigore nuove regole: sono diverse e in un certo senso più flessibili rispetto al passato, ma pongono di nuovo dei vincoli da rispettare. Il problema è dunque sostanziale: più il Superbonus si rivela gravoso per le finanze dello Stato, meno soldi avrà il governo a disposizione per finanziare nuove misure senza sforare i parametri europei, che sono tornati a essere vincolanti.
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