Allenare stanca
Maurizio Sarri che si dimette, Roberto D'Aversa che tira una testata a un giocatore, Ivan Juric espulso per aver gridato a un collega «ti taglio la gola!»: gli allenatori di calcio sembrano arrivati al limite
Mancano nove giornate alla fine del campionato di Serie A di calcio e le coppe europee stanno arrivando alla loro fase decisiva (siamo ai quarti di finale), ma molti allenatori sembrano già parecchio affaticati, se non proprio al culmine della sopportazione del loro lavoro. Ultimamente la pressione e la tensione che percepiscono si è manifestata in molti modi, in alcuni casi anche un po’ inquietanti. Solo nell’ultimo mese, e solo in Italia, l’allenatore del Lecce Roberto D’Aversa è stato esonerato dopo aver colpito con una testata un calciatore avversario; quello della Lazio Maurizio Sarri si è dimesso, rinunciando a quasi un anno e mezzo di stipendio; quello della Juventus Massimiliano Allegri ha litigato per l’ennesima volta con un commentatore in tv e quello del Torino, Ivan Juric, è stato espulso per aver urlato «ti taglio la gola!» a Vincenzo Italiano, allenatore della Fiorentina, durante la partita tra le loro squadre.
Sono episodi non isolati e che sembrano sempre più sistemici e sintomatici di un livello di stress apparentemente controintuitivo per persone che fanno un lavoro che alle persone che osservano sembra privilegiato, divertente e stimolante, oltre che molto ben retribuito (Allegri, il più pagato in Serie A, guadagna 7 milioni di euro all’anno, mentre i meno pagati hanno comunque stipendi da circa 500mila euro l’anno). Sarebbe difficile in altri ambienti lavorativi immaginare una persona di oltre sessant’anni, e quindi anche molto esperta del proprio mestiere, in una situazione di tale turbamento da arrivare a gridare per molte volte «faccia di merda!» ad altre persone sul posto di lavoro, come ha fatto Gian Piero Gasperini dell’Atalanta rivolgendosi all’arbitro e ai suoi collaboratori in una partita contro il Bologna di qualche mese fa. Gasperini ha 66 anni e allena da quasi 30.
D’Aversa, per esempio, dopo la testata all’attaccante dell’Hellas Verona Thomas Henry si era giustificato dicendo che c’erano state «delle provocazioni» e che lui si era avvicinato inizialmente per «fare in modo che i miei ragazzi non prendessero espulsioni», cioè per allontanarli dallo scontro. Non è chiaro cosa lo abbia provocato al punto da diventare violento.
Gli allenatori delle squadre di calcio professionistico oggi sono al centro di un ambiente pieno di pressioni e aspettative, e nelle squadre sono la figura di riferimento per tutti. Devono avere a che fare con venticinque, trenta persone a volte anche molto giovani e con esigenze e caratteri diversi (i giocatori), ma anche con la dirigenza e i proprietari del club con le loro aspettative; con i tifosi che contestano la squadra quando non va bene, e con i giornalisti e gli opinionisti che chiedono conto delle loro scelte in diverse interviste e conferenze stampa a settimana. Oltre a tutto questo devono riuscire a far giocare bene e a far vincere la propria squadra in una condizione lavorativa eccezionalmente precaria, perché sollevare un allenatore dall’incarico è molto più semplice rispetto ad altri lavoratori grazie allo strumento dell’esonero, molto diverso da un licenziamento.
Solo in questa stagione di Serie A ci sono stati finora 22 cambi in panchina, quasi uno ogni giornata di campionato: la Salernitana, ultima in classifica, di recente ha cambiato allenatore per la quarta volta. Molto spesso, anche a livello pratico, per un club la cosa più immediata da fare se le cose non funzionano è provare a cambiare l’allenatore: alcuni presidenti molto inclini agli esoneri ripetono spesso in varie forme frasi come «non posso mandare via 30 giocatori».
Spesso gli episodi che avvengono durante il gioco vengono archiviati un po’ frettolosamente sotto la definizione di cose di campo, come se il tempo della partita fosse una zona franca in cui vale tutto per tutti, anche per gli allenatori, e che una volta finita non possano esserci conseguenze.
Dopo le partite invece lo stress e la frustrazione degli allenatori si vede soprattutto nei modi in cui loro si relazionano ai giornalisti e ai commentatori in tv e radio. Dopo l’ultima partita di campionato della Juventus, quella pareggiata 0-0 in casa contro il Genoa, Massimiliano Allegri per esempio ha risposto in modo aggressivo a una domanda del giornalista di Sky Sport Gianfranco Teotino sul perché non schierasse quasi mai il tridente (cioè tre attaccanti contemporaneamente). «Lei sa come si fa l’allenatore? Io non so come si fa il giornalista, io cerco di fare il meglio per la squadra, non devo andare dietro al pubblico e non mi permetto di dire a voi come fare il giornalista», ha detto Allegri. Poi ha aggiunto, rivolgendosi in generale ai giornalisti, «voi non dovete capire, voi dovete solo fare domande che è diverso. Tanto cosa capite? La squadra la alleno io. C’è chi capisce e chi no».
Le interviste e le conferenze stampa diventano spesso per gli allenatori un’occasione, forse l’unica, per sfogare la loro insofferenza e la tensione accumulata: nel caso di Allegri, che non è nemmeno tra gli allenatori più maldisposti con la stampa, il motivo era l’irritazione per una serie di risultati negativi della Juventus, che potrebbero costargli la riconferma per la prossima stagione.
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Anche i calciatori, soprattutto quelli molto forti, convivono con le aspettative e la responsabilità di dover giocare bene: loro però a differenza degli allenatori non sono soli, fanno parte di una squadra. Possono inoltre estraniarsi più facilmente dal contesto, o perlomeno non devono confrontarsi con i giornalisti, con il presidente e con i giocatori stessi tutte le settimane, dopo ogni sconfitta, su ogni problema della squadra.
Uno degli esempi del fatto che gli allenatori sono tendenzialmente più stressati dei calciatori è Xavi Hernández, che ha smesso di giocare cinque anni fa. Da giocatore, con il Barcellona e con la Spagna, è stato uno dei centrocampisti più intelligenti, entusiasmanti e vincenti degli ultimi vent’anni, tra i simboli di una squadra – il Barcellona dell’allenatore Pep Guardiola – considerata una delle migliori della storia. Era soprattutto un giocatore molto corretto e quasi mai litigioso. In 767 partite totali con il Barcellona, prese 53 cartellini gialli e 2 cartellini rossi, un cartellino ogni quasi 14 partite: molto pochi, soprattutto considerando che giocava nel centro del campo, il punto più trafficato.
Nell’autunno del 2021 è diventato l’allenatore del Barcellona, e da allora ha già preso 22 cartellini gialli e 2 rossi in 132 partite: uno ogni 5 partite e mezzo, quindi il triplo rispetto a quando era giocatore. Al dato già notevole di per sé si aggiunge il fatto che da allenatore si può essere ammoniti o espulsi solo per proteste o comportamenti scorretti, mentre da calciatore molti cartellini Xavi li ha presi per dei normali falli di gioco.
Guardandolo durante una partita, o ascoltandolo in una qualsiasi intervista, oggi sembra una persona molto stressata: protesta per qualsiasi decisione arbitrale, si dispera platealmente a ogni giocata sbagliata dai suoi giocatori. Qualche mese fa ha detto che alla fine della stagione si dimetterà e che questo sarà un bene per i suoi giocatori.
Probabilmente in Xavi si manifesta ai massimi livelli una delle possibili frustrazioni che stanno alla base del lavoro di allenatore, e cioè quella di dipendere da quello che fanno i calciatori in campo. Essendo stato un calciatore eccezionale, sia tecnicamente che caratterialmente, oggi Xavi sembra non riuscire a capacitarsi del fatto che in campo non succedano le cose che si aspetta, e questo aggiunge ulteriore stress alla sua posizione di allenatore di una squadra con grandissime aspettative (e della quale peraltro è anche tifoso).
Xavi non è l’unico allenatore che in questa stagione ha deciso di lasciare la sua squadra prima della fine del contratto. Lo scorso 12 marzo Maurizio Sarri si è dimesso dopo due anni e mezzo da allenatore dalla Lazio, società con la quale aveva un contratto fino al giugno del 2025. Nonostante sia stato spesso tra gli allenatori più inclini a lamentarsi, in campo e fuori, in questa stagione Sarri, che ha 65 anni, sembrava davvero essere arrivato al proprio limite: lui stesso aveva più volte detto di essere stanco, e di non essere sicuro di voler ancora fare l’allenatore.
In passato, soprattutto con il Napoli, ma poi anche con il Chelsea in Inghilterra e con la Juventus, Sarri si era affermato come un allenatore venuto “dal basso” (non è stato un calciatore forte, e ha cominciato ad allenare in Serie A a 55 anni) grazie alle sue idee di calcio innovative, e come un personaggio tutto sommato anticonvenzionale rispetto al sistema del calcio. Dieci anni sulle panchine di grandi squadre, però, lo hanno reso progressivamente più insofferente e sempre più incartato nelle polemiche diventate ormai quasi rituali e ripetitive. Allo stesso modo il gioco della Lazio quest’anno è stato molto distante dal calcio coraggioso e brillante del suo Napoli, allenato tra il 2015 e il 2018.
Persino l’allenatore del Liverpool, il tedesco Jürgen Klopp, molto apprezzato dai suoi tifosi e dai suoi giocatori, molto carismatico, stimato da tutti e sempre in corsa per vincere tutti i principali trofei inglesi ed europei, ha annunciato con anticipo che questa sarà la sua ultima stagione al Liverpool e che si prenderà un anno di riposo. Nel video in cui ha comunicato la sua decisione ai tifosi, Klopp ha detto che sta finendo le energie e che è consapevole di non poter fare questo lavoro «ancora, ancora e ancora».