Come è andata l’industria discografica nel 2023

Il mercato dello streaming continua a crescere, ma i musicisti emergenti non hanno ancora modo di guadagnarci

(Unsplash)
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Lunedì l’International Federation of the Phonographic Industry (IFPI), l’organizzazione con sede a Londra che rappresenta gli interessi dell’industria discografica mondiale, ha pubblicato il Global Music Report, l’indagine che raccoglie i dati relativi ai ricavi generati di anno in anno dall’industria musicale complessiva, e che quindi non tiene in considerazione soltanto il settore dello streaming, ma anche la vendita di supporti fisici, gli acquisti online, le sincronizzazioni (i ricavi generati dalla musica utilizzata in film, serie televisive e videogiochi) e i cosiddetti “performance rights” (i ricavi che derivano dalla musica utilizzata dalle emittenti pubbliche).

Secondo l’IFPI, nel 2023 i ricavi dell’industria discografica sono cresciuti complessivamente del 10,2 per cento rispetto all’anno precedente, per una cifra pari a 28,6 miliardi di dollari (non è una novità: è il nono anno consecutivo che il Global Music Report registra una crescita dell’indotto).

L’aspetto più importante dell’analisi è quello relativo al mercato dello streaming, che rappresenta da una decina d’anni la principale modalità di fruizione della musica in tutto il mondo. Secondo il rapporto, nel 2023 le entrate complessive di questo settore (ottenute sommando i ricavi degli abbonamenti e quelli derivanti della pubblicità) sono aumentati del 10,4 per cento. Il rapporto ha stimato il valore totale del mercato dello streaming nel 2023 in 19,3 miliardi di dollari, e ha evidenziato come questo settore rappresenti più di due terzi (67,3 per cento) del mercato totale.

La crescita dello streaming è dovuta in buona parte alle politiche adottate dalle principali piattaforme di streaming, che lo scorso anno hanno aumentato i canoni richiesti per i loro servizi: nel luglio dello scorso anno Spotify, il più grande servizio di musica in streaming al mondo, aveva aumentato di circa il 10 per cento i prezzi dei suoi abbonamenti in 53 paesi, e tra la fine del 2022 e la metà del 2023 avevano fatto lo stesso anche le principali piattaforme concorrenti. Inoltre, lo scorso anno per la prima volta il numero di persone abbonate ad almeno una piattaforma di streaming ha superato i 500 milioni.

Anche se i ricavi derivanti dallo streaming sono in aumento da una decina d’anni, finora la stragrande maggioranza dei musicisti che hanno pubblicato la propria musica sulle piattaforme ha ricevuto delle royalties molto basse (non sono semplici da calcolare, ma secondo le stime diffuse negli ultimi anni si parla di una media di meno di un terzo di un centesimo di dollaro per singola riproduzione). Questa situazione ha prodotto un cambiamento nell’attività lavorativa dei musicisti, che fino a una trentina d’anni fa guadagnavano soprattutto dalla vendita dei dischi, mentre oggi dipendono perlopiù dai ricavi derivanti dalle loro esibizioni dal vivo e da attività collaterali, come collaborazioni e vendita di merchandise.

A novembre Spotify aveva annunciato delle modifiche alle sue politiche di ripartizione delle royalties, annunciando l’adozione di un nuovo sistema che dovrebbe tenere più in considerazione gli interessi dei musicisti emergenti. Se fino al 2023 ogni brano riprodotto per più di trenta secondi generava un minuscolo pagamento, con la nuova policy (entrata in vigore a gennaio) le canzoni presenti sulla piattaforma devono totalizzare almeno mille ascolti in 12 mesi per poter essere ammesse alla ripartizione delle royalties.

Secondo Spotify, questo cambio di strategia dovrebbe garantire dei benefici economici maggiori a tutti i musicisti emergenti considerati minimamente rilevanti (ossia quelli in grado di totalizzare almeno mille ascolti in un anno), dato che il 60 per cento delle tracce presenti sulla piattaforma non raggiunge questa soglia. Concretamente, l’adozione del nuovo criterio consentirebbe alla piattaforma di risparmiare 40 milioni di euro, che verranno redistribuiti tra tutte le canzoni in grado di superare i mille ascolti.

Oltre al problema della bassissima entità delle royalties, Spotify è stata accusata di avere adottato delle strategie poco trasparenti nel modo in cui promuove gli artisti. Una di queste riguarda l’utilizzo dei cosiddetti “fake artists”, ossia musicisti che stringono accordi di collaborazione con Spotify per produrre canzoni da inserire nelle decine di playlist che la piattaforma propone agli utenti. Da un paio d’anni diversi esperti delle dinamiche attuali del mercato discografico sostengono che l’attività dei “fake artists” rappresenti una forma di concorrenza sleale nei confronti di musicisti e gruppi emergenti.

Le critiche riguardano il fatto che il successo di queste canzoni è in un certo senso artificiale, dato che vengono inserite all’interno di playlist editoriali create appositamente per raggiungere il maggior numero possibile di utenti sfruttando un algoritmo. Inoltre, stando a quanto riferito da riviste di settore autorevoli come Music Business Worldwide, Spotify potrebbe avere stipulato con le case discografiche che rappresentano questi musicisti degli accordi molto vantaggiosi, che le permetterebbero di pagare delle royalties inferiori rispetto a quelle che spettano ai musicisti sotto contratto con le major.

Di conseguenza, fare in modo che le canzoni realizzate dai “fake artists” siano sempre più ascoltate e cercate dagli utenti permetterebbe all’azienda di ottenere dei risparmi notevoli. L’ultimo episodio connesso all’attività di un “fake artist” ha riguardato il musicista svedese Johan Röhr, di fatto sconosciuto ma che ha pubblicato sotto pseudonimo centinaia di canzoni “d’atmosfera” in collaborazione con la piattaforma raccogliendo 15 miliardi di ascolti, più di musicisti di larghissimo seguito come Michael Jackson e gli Abba.

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Un altro dei motivi per cui Spotify è stata criticata negli ultimi mesi riguarda il sospetto utilizzo di pratiche vietate dal suo stesso regolamento, come per esempio il cosiddetto «streaming artificiale» (o bot listening, l’ascolto dei bot), termine che indica la tendenza a utilizzare bot (account automatizzati) per simulare dei finti ascolti e quindi far sembrare che le canzoni avessero un successo che invece non avevano. Lo streaming artificiale è problematico anche per gli artisti, soprattutto quelli meno conosciuti. I pagamenti delle royalties attingono infatti da un budget limitato di Spotify: questo vuol dire che se più soldi finiscono a canzoni ascoltate dai bot, le canzoni ascoltate dagli umani ne ricevono meno.

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L’ultimo ordine di critiche che sono state rivolte a Spotify dai musicisti riguarda il cosiddetto “rumore bianco”, espressione con cui ci si riferisce più o meno propriamente a quei suoni costanti e indefiniti emessi da fonti naturali o artificiali, per caso o appositamente, in molti contesti quotidiani. Semplificando, i podcast che lo trasmettono ottengono milioni di ore di ascolti ogni giorno, e sono pagati meglio delle playlist che propongono lo stesso tipo di musica.

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Passando alle altre voci analizzate dal rapporto, secondo l’IFPI lo scorso anno i ricavi derivanti dalla vendita di supporti fisici (soprattutto i vinili) sono cresciuti del 13,4 per cento rispetto al 2022, per una cifra di 5,1 miliardi di dollari; nello stesso periodo quelli generati dai cosiddetti diritti di performance sono aumentati del 9,5 per cento (2,7 miliardi di dollari). Sono aumentate anche le sincronizzazioni (del 4,7 per cento, 632 milioni di dollari) e i “performance rights” (9,5 per cento, 2,7 miliardi di dollari), mentre l’unica voce che ha diminuito i ricavi rispetto al 2022 è quella definita “download and other digital”, che riguarda l’acquisto di dischi e canzoni in versione digitale, una modalità di fruizione ormai desueta.