Israele è obbligato a rispettare la risoluzione dell’ONU sul cessate il fuoco?
Se ne discute dopo l’approvazione di un’importante risoluzione al Consiglio di Sicurezza: in teoria sì ma nella pratica è più complicato, c’entrano un Capitolo VII, un articolo 25 e molta politica
di Ginevra Falciani
Dopo mesi di tentativi falliti, lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato la prima risoluzione per chiedere un immediato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La risoluzione ha ottenuto 14 voti a favore ed è passata perché gli Stati Uniti, invece che opporsi come avevano già fatto altre tre volte negli ultimi mesi, si sono solo astenuti, permettendo l’approvazione del testo.
La notizia è stata accolta positivamente da chi sostiene la necessità di fermare i combattimenti per permettere l’invio di aiuti umanitari alla popolazione civile di Gaza, e ha confermato come il governo statunitense stia parzialmente prendendo le distanze da quello israeliano di Benjamin Netanyahu, che da settimane resiste alle pressioni americane sul diminuire l’intensità delle violenze a Gaza. Non significa però necessariamente che la guerra si fermerà, perché sembra assai improbabile che Israele accetti di rispettare la risoluzione dell’ONU.
Sulla questione nelle ultime ore si è sviluppato un dibattito su quello che è obbligato a fare Israele: sulla carta infatti le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono vincolanti, quindi tutti i membri dell’ONU (anche Israele) sono obbligati a rispettarle; ma alcuni, tra cui rappresentanti del governo statunitense, hanno messo in dubbio questo punto, sostenendo che non sia per forza così.
Subito dopo il voto, infatti, il portavoce statunitense Matthew Miller e Linda Thomas-Greenfield, che rappresenta gli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, hanno parlato della risoluzione come di un testo «non vincolante», senza specificare però quale differenza ci fosse fra questa e le precedenti risoluzioni. Nel commentarla al Consiglio, Thomas-Greenfield ha detto che gli Stati Uniti sostengono «pienamente alcuni degli obiettivi importanti di questa risoluzione non vincolante», e quando è stato chiesto a Miller di spiegare perché avesse usato quel termine lui ha risposto: «la nostra interpretazione di questa risoluzione è che non è vincolante».
Lo stesso ha fatto anche il rappresentante della Corea del Sud, che però è andato più nello specifico: ha sostenuto che la risoluzione non sarebbe vincolante perché non utilizza il verbo “decidere” e non è stata adottata nell’ambito del Capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, quello che elenca i provvedimenti che il Consiglio può prendere per riportare la pace in situazioni di conflitto. L’interpretazione dei funzionari statunitensi e di quello sudcoreano è stata però criticata dagli altri membri del Consiglio e da diversi esperti di diritto internazionale, che hanno sostenuto che queste motivazioni, pur indebolendo l’efficacia della risoluzione, non bastino a renderla non vincolante.
Il Consiglio di Sicurezza è considerato il più importante dei sei organi principali dell’ONU ed è composto da dieci paesi che si alternano e cinque membri permanenti che hanno il potere di veto (hanno quindi il potere di bloccare l’approvazione di qualsiasi provvedimento dell’organo): sono Russia, Cina, Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
Lo Statuto dell’ONU attribuisce al Consiglio la responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza mondiali. Lo strumento giuridicamente più rilevante usato dal Consiglio è quello delle “risoluzioni”, che sono considerate vincolanti per tutti gli stati membri sulla base dell’articolo 25: significa che, almeno sulla carta, quando il Consiglio di Sicurezza dice a uno stato membro di fare una certa cosa attraverso una risoluzione, quello stato è obbligato a rispettare la decisione. Nonostante ciò, alcune risoluzioni possono essere considerate “più vincolanti” di altre quando vengono adottate «nell’ambito del Capitolo VII» dello Statuto dell’ONU, che permette al Consiglio, in situazioni particolarmente critiche o nel caso in cui uno stato ignori le sue richieste, di mobilitare gli stati membri delle Nazioni Unite, anche a livello militare, per «mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».
La menzione del Capitolo VII non comporta necessariamente una richiesta agli stati membri da parte dell’ONU di intervenire per ristabilire o mantenere la pace, e negli ultimi anni è diventata sempre più un’espressione usata per dare forza teorica a una risoluzione: mentre il numero totale di risoluzioni del Consiglio non è cresciuto, a partire da metà anni Novanta le risoluzioni che menzionavano il Capitolo VII sono passate da essere il 16 per cento a oltre il 50 per cento.
In passato la comunità internazionale si è domandata se la mancanza di citazione del Capitolo VII in una risoluzione del Consiglio la rendesse non vincolante: nel 1971 la Corte internazionale di giustizia, il più importante tribunale delle Nazioni Unite, sostenne però che ciò che rende vincolanti le risoluzioni è l’articolo 25, che non fa parte del Capitolo VII, e che quindi citare o meno il Capitolo VII non cambia la natura di una risoluzione, che è sempre vincolante.
Tuttavia nella pratica questa mancanza è vista da molti come un modo per rendere una risoluzione meno forte, meno “vincolante”, poiché la priva di mezzi pratici che potrebbero essere adottati per farla rispettare.
Nonostante manchi un riferimento al Capitolo VII, la risoluzione sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza è comunque molto chiara riguardo alla sua natura vincolante attraverso il linguaggio usato. Anche se non contiene il verbo “decidere” (decide in inglese) nel paragrafo dedicato al cessate il fuoco, il più usato quando il Consiglio vuole esprimere con assertività le sue richieste, ne contiene un altro molto forte, ossia “esigere, richiedere” (demands):
Il Consiglio di Sicurezza […] richiede un cessate il fuoco immediato per il mese di Ramadan, rispettato da tutte le parti, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile; richiede inoltre il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi e la garanzia che venga dato loro aiuto medico e umanitario; richiede infine che le parti rispettino i loro obblighi di diritto internazionale in relazione a tutte le persone detenute.
L’uso del verbo “richiedere”, invece che opzioni meno incisive, seppur comunque vincolanti, usate in passato come “la Corte esorta (calls upon)” o “la Corte sollecita (urges)” dimostra come il Consiglio abbia voluto mettere in chiaro l’urgenza e la serietà della sua richiesta.
Nonostante quindi la risoluzione di lunedì sia vincolante, è poco probabile che porterà a dei risultati. Come succede da sempre nel diritto internazionale, il rispetto delle norme dipende non tanto dal modo in cui sono scritte, ma dalla volontà degli stati di rispettarle, perché non esistono strumenti coercitivi davvero efficaci. Fra quelli più usati ci sono le sanzioni, cioè lo strumento che il Consiglio di Sicurezza ha a disposizione per provare a convincere (o costringere) uno stato a rispettare norme del diritto internazionale o una sua risoluzione vincolante, ma nel corso del tempo molti governi sottoposti a sanzioni non solo non hanno cambiato il proprio comportamento, ma hanno anche trovato il modo di aggirarle. Israele è uno di quegli stati che hanno più volte aggirato le risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza.
In merito alle colonie di Israele in Cisgiordania, per esempio, il Consiglio ha emesso diverse risoluzioni a partire dal 1967 che ne contestavano la legalità e che chiedevano al governo israeliano di ritirare i coloni da quel territorio: l’ultima risoluzione, passata nel 2016 con l’astensione degli Stati Uniti, «riafferma che la creazione da parte di Israele di insediamenti nei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme Est, non ha alcuna validità legale» e «ribadisce la richiesta che Israele cessi immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento nei territori palestinesi occupati». Tuttavia in questi anni Israele ha continuato ad ampliare le sue colonie in Cisgiordania, nonostante le condanne della comunità internazionale.
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Il comportamento di Israele in questo contesto ha molto a che vedere con quello degli Stati Uniti, che sono il suo principale alleato e sono stati spesso accusati di adottare “due pesi e due misure”. In diverse occasioni, le ultime negli ultimi mesi, gli Stati Uniti hanno bloccato risoluzioni contro Israele, impedendo l’adozione di misure più severe (c’è da specificare comunque che non è una pratica usata solo dal governo statunitense: negli ultimi anni anche Cina e Russia hanno usato più volte il potere di veto per difendere i propri alleati, e solo venerdì scorso avevano messo il veto su un’altra risoluzione per il cessate il fuoco).
Visti i precedenti di Israele nel non rispettare le risoluzioni ONU, e viste le dichiarazioni dei rappresentanti statunitensi che hanno cercato di far passare l’ultima risoluzione come “non vincolante”, è molto probabile che il governo del primo ministro Netanyahu decida di ignorare il Consiglio di Sicurezza e non fermare le violenze nella Striscia di Gaza.
Allo stesso tempo la decisione degli Stati Uniti di astenersi, e quindi di non votare contro come avevano fatto con le precedenti risoluzioni, ha un importante valore politico, perché mostra come le critiche verso Israele e la sua guerra a Gaza stiano diventando sempre più diffuse anche tra i suoi alleati. Non a caso, in seguito all’approvazione della risoluzione, Netanyahu ha annullato una visita prevista a breve di una delegazione israeliana a Washington: durante l’incontro i funzionari statunitensi e israeliani avrebbero dovuto discutere di un piano alternativo di attacco della città di Rafah, che l’esercito israeliano vuole attaccare via terra, nonostante le drammatiche conseguenze che questo avrebbe sul milione e mezzo di palestinesi che hanno trovato rifugio nell’area.
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