L’ossessione del giornalismo politico italiano per il virgolettato
Perché le cronache quotidiane usano da decenni, e con disinvoltura, i discorsi diretti anche quando non sono affatto certi, generando vistose storture
Nel 2018, durante una visita dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Washington, una comitiva di cronisti italiani che seguivano il presidente del Consiglio si trovò a lavorare insieme ad alcuni cronisti statunitensi. A un certo punto, visto che lo staff della Casa Bianca e quello di Palazzo Chigi avevano raccontato di un colloquio riservato tra Conte e l’ex presidente statunitense Donald Trump, una giornalista di un’agenzia americana venne colpita e turbata dalla qualità delle fonti che avevano i colleghi italiani. Si fece coraggio e chiese come facessero ad avere tutti quei virgolettati dei due presidenti, riportandoli poi con tanta sicurezza nei loro articoli.
Gli italiani risposero perplessi che avevano scritto quello che avevano sentito dire ai rispettivi staff. Insomma, quello che per la giornalista americana era un semplice resoconto informale, da usare per raccontare il senso generale del colloquio tra Conte e Trump e degli argomenti trattati, per i cronisti italiani valeva a dare sostanza esatta a dialoghi, scambi di battute, “botta e risposta” tra i due leader. Il tutto riportato tra virgolette.
In Italia si usa così da molti decenni: del virgolettato si fa un uso piuttosto disinvolto. All’estero, nel giornalismo politico angloamericano e anche in quello francese, l’uso del virgolettato è regolato da un principio invece abbastanza inderogabile: viene messo tra virgolette solo ciò che è stato esattamente pronunciato da un ministro, da un parlamentare o da un funzionario di partito, e quasi sempre è la fonte stessa ad autorizzare che quella frase le venga attribuita in maniera così precisa. In Italia non è così e i virgolettati che compaiono nei titoli, o nel corpo degli articoli dei quotidiani, solo in parte possono essere considerati la riproduzione di una frase pronunciata proprio in quel modo lì.
Per orientarsi nell’uso che si fa del virgolettato nella cronaca politica italiana (ma è un discorso che poi vale in generale per i virgolettati relativi a notizie non solo di politica), bisogna fare una distinzione. Esistono quelli inconfutabili, che citano discorsi pubblici e verificabili da tutti, pronunciati da un politico o da una politica durante un evento ufficiale, sul palco di un comizio o in una conferenza stampa. Ed esistono quelli ufficiosi: qui si entra in una categoria più eterogenea e spesso sfuggente. Per esempio può capitare, nel corso di un Consiglio dei ministri, che il portavoce di uno dei membri del governo o più spesso quello del presidente del Consiglio diffonda ad alcuni giornalisti, di solito quelli che seguono più da vicino il presidente e che sono inseriti in apposite chat di WhatsApp, interi passaggi dei discorsi fatti dal presidente stesso: che quel testo inviato sia esattamente ciò che è stato pronunciato nel corso della riunione è difficile da verificare. Ma in questo caso, essendo lo staff del capo del governo a distribuirlo, è plausibile pensare che sia quantomeno vicino alla realtà e riferibile in quanto tale.
È successa una cosa del genere il 15 febbraio scorso, quando Giorgia Meloni ha pronunciato un discorso introduttivo, una cosiddetta informativa, sulla gestione dei migranti, invitando i ministri a potenziare i loro rapporti con i colleghi dei paesi africani e fare viaggi e visite in quel continente. Il suo discorso fu riportato in una forma sintetica nel comunicato ufficiale di Palazzo Chigi, mentre una versione più estesa, con tanto di frasi pronunciate alla prima persona singolare, fu diffuso dal suo staff ai giornalisti. Poche ore dopo i virgolettati di Meloni comparivano nei titoli degli articoli dei giornali online.
Quando Matteo Renzi era al culmine della sua carriera politica, come segretario del PD e come presidente del Consiglio, venne usata spesso sui giornali una formula giornalistica un po’ ambigua ma di grande successo: «Renzi ai suoi». Era una trovata che già era stata usata sporadicamente in passato per altri leader ma che in quella fase divenne frequentissima, e che consentiva ai cronisti di riportare tra virgolette una frase di Renzi specificando che non era niente di ufficiale, bensì una confidenza che Renzi avrebbe fatto ai suoi, cioè collaboratori o parlamentari più fedeli. Un modo insomma per dare alle parole riportate una dimensione a metà tra l’ufficialità e l’informalità, e alimentando tuttavia il dibattito politico e mediatico.
Capitava persino che fosse lo stesso Renzi a parlare coi cronisti, per poi chiedere che si utilizzasse quella formula lì. Ma altre volte erano i suoi portavoce a diffonderne le frasi, raccomandandosi poi di specificare che era un «Renzi ai suoi». Naturalmente ci furono presto alcuni cortocircuiti, perché poteva capitare che un parlamentare riferisse a un giornalista ciò che Renzi gli aveva detto, e in quel caso il «Renzi ai suoi» era meno ufficiale e in parte meno attendibile, ma risultava ugualmente rilevante. Ci furono poi anche delle derive per cui si costruirono interi articoli mettendo tra virgolette lunghe frasi di un presunto «Renzi-pensiero», cioè, letteralmente, quello che Renzi pensava.
Ma a volte è il cronista stesso a sollecitare questi virgolettati. Capita infatti che un giornalista, mentre scrive un articolo o mentre cerca elementi per costruirlo, chieda a un politico o al suo portavoce se non abbia voglia di dire una certa cosa su un certo argomento. Se la fonte ritiene che possa esserle utile apparire sui giornali con quella “dichiarazione” su quel tema, accetta e magari concorda e definisce meglio la frase. Può dunque essere il cronista a suggerire il virgolettato a chi poi formalmente ne apparirà come l’autore.
Dopodiché c’è tutto un ambito ancora meno ufficiale in cui i virgolettati proliferano. C’è la confidenza di una fonte anonima che assicura di aver sentito quel tale ministro pronunciare una certa frase: magari il fatto è avvenuto in una riunione riservata, o alla presenza di sole poche persone, e magari molti giorni prima, per cui verificare l’attendibilità esatta della frase in questione è quasi impossibile (e sarà quasi impossibile smentirla). Oppure, più in generale, i virgolettati prendono forma attraverso i pettegolezzi di cui c’è abbondanza nei corridoi del parlamento: “Tizio mi ha detto di aver sentito Caio mentre riferiva a Sempronio che Mevio avrebbe raccontato”, e di questa sorta di telefono senza fili, in cui le informazioni iniziali si deformano e si stravolgono, ciò che resta nella cronaca è il virgolettato di Mevio, riportato a volte come se fosse qualcosa di assolutamente attendibile.
Siccome capita che una fonte riferisca a più cronisti la stessa indiscrezione, o che colleghi di diversi giornali assistano alle stesse scene in parlamento o nei suoi immediati dintorni, non è raro che più quotidiani attribuiscano la stessa frase a uno stesso politico nello stesso giorno, senza che nessuno però abbia effettivamente avuto modo di parlare col diretto interessato. È anche un modo che i cronisti hanno per tutelarsi: se una stessa frase non del tutto certa viene scritta allo stesso modo da più testate, assume una sua dignità (ma capita che invece ciascun giornale usi diverse variazioni della frase, tutte ugualmente virgolettate).
Durante la conferenza stampa di fine anno del 4 gennaio scorso Meloni si è lamentata di aver trovato su tre diversi giornali una sua frase che lei sosteneva invece di non aver mai pronunciato. La frase era questa: «È una brutta storia», che secondo tre diversi giornali Meloni aveva detto a proposito del caso di Tommaso Verdini, un’inchiesta della procura di Roma su presunti illeciti relativi a gare di appalto dell’ANAS. Nel caso è coinvolto il figlio dell’ex senatore di Forza Italia Denis Verdini, Tommaso appunto, che è anche il cognato del ministro dei Trasporti leghista Matteo Salvini. La presunta frase di Meloni era stata riferita qualche giorno prima alla Camera da un esponente di governo di Fratelli d’Italia molto vicino a Meloni, e quindi la sua confidenza era stata ritenuta attendibile e riferibile dai cronisti che ci avevano parlato.
Altre volte, invece, i virgolettati sono frutto di un colloquio diretto tra la fonte e il cronista, ma riportato con una sintesi non del tutto aderente alla realtà. Nel Transatlantico, il lungo corridoio fuori dall’aula della Camera dove i cronisti stazionano anche per ore in attesa di un politico o di una politica di rilievo da intercettare, spesso i ministri o i parlamentari si fermano a parlare coi giornalisti, per pochi secondi o per molti minuti. Non sempre il cronista ha la prontezza di registrare e di prendere appunti, ed è anche vero che la presenza di un taccuino o di un cellulare irrigidisce spesso il politico e toglie spontaneità alla conversazione. Al cronista che intende riportare in tutto o in parte quel colloquio, non resta altro da fare che memorizzare più o meno accuratamente le frasi sentite, e poi magari appuntarsele appena trova un po’ di calma.
Ma è un metodo che comporta inevitabilmente dei rischi. Tanto più se scrivendo del colloquio bisogna essere sintetici per esigenze di spazio sul giornale, e allora di lunghe conversazioni non servono che poche frasi, anche solo una battuta, che tuttavia estrapolata dal contesto generale assume un valore e un significato un po’ diversi da quelli originari, generando così qualche equivoco o qualche forzatura. Al tempo stesso, spesso le risposte dei politici sono allusive e verbose, usano locuzioni inutilmente articolate, giocano sui non detti e sui sottintesi: tutto ciò, nel resoconto scritto, diventa difficile da comunicare ai lettori e alle lettrici in maniera efficace e sintetica, per cui spesso i cronisti in Italia ritengono che un virgolettato in cui si condensa – a loro giudizio – il senso del discorso del politico sia, per quanto meno corretto dal punto di vista filologico, più utile nella comprensione immediata del testo. Ma è un’operazione arbitraria.
Questa ricerca spesso spasmodica del virgolettato per aggiungere enfasi al racconto giornalistico produce non solo esagerazioni o mistificazioni, ma persino notizie false. È il caso della volgare espressione «culona inchiavabile» notoriamente attribuita a Silvio Berlusconi in riferimento all’ex cancelliera tedesca Angela Merkel, e che però Berlusconi non ha verosimilmente mai pronunciato.
Nel settembre del 2011, quando la caduta del governo di Berlusconi era ormai imminente, in Transatlantico iniziò a circolare la voce per cui, tra le molte intercettazioni raccolte dalla procura di Bari nell’ambito di un’inchiesta sul presunto traffico di prostituzione a favore dell’allora presidente del Consiglio, ce ne fosse anche una in cui Berlusconi insultava Merkel. Anche se quella telefonata fosse realmente avvenuta e registrata, nessuno comunque ebbe modo di leggerne la trascrizione, e l’intercettazione non è stata mai trovata. Ma nei retroscena di quei giorni – il primo fu un corsivo satirico di Riccardo Barenghi sulla Stampa – si iniziò a parlarne prima in modo allusivo e poi in modo sempre più esplicito, finché Il Fatto Quotidiano non riportò quella frase virgolettata attribuendola a Berlusconi.
Poi ci sono i cosiddetti virgolettati rubati, quelli che riportano frasi origliate in maniera spesso rocambolesca. Un precursore di questo genere fu Guido Quaranta, uno storico cronista del settimanale L’Espresso, che negli anni Settanta e Ottanta non esitava a travestirsi da usciere o da autista per intrufolarsi nelle riunioni riservate della Democrazia Cristiana. In epoca più recente, un altro che usò metodi simili è stato Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, protagonista di molti episodi spericolati: come quando si nascose per ore nel bagno delle donne della sede del Partito Socialista, in via del Corso a Roma, perché si era accorto che salendo sul water si riusciva ad ascoltare quel che diceva l’allora leader del partito Bettino Craxi; o come quando si nascose dietro una tenda nella stanza di un giovane Clemente Mastella, nella sede della Democrazia Cristiana, per sentire cosa si dicevano i dirigenti del partito riuniti in direzione.
Sono metodi a cui oggi si ricorre meno, anche perché questa forma di intromissione nella riservatezza della politica ha ormai una declinazione digitale: spesso infatti i messaggi che un leader invia sulle proprie chat di gruppo vengono inoltrati da qualche parlamentare a qualche cronista, oppure succede che un cronista riesca a convincere una sua fonte a registrare col cellulare incontri o riunioni inaccessibili ai giornalisti.
Quello che rimane, in tutti questi diversi casi, è la meraviglia dei cronisti stranieri rispetto all’uso molto disinvolto delle virgolette nell’attribuire formulazioni che spesso non sono – come le virgolette suggerirebbero – esatte, verificate, attribuite o contestualizzate.