Beyoncé si dà al country
Il suo prossimo disco “Cowboy Carter” si allontana dal pop e dall'R&B per cimentarsi con un genere generalmente associato all'America bianca e conservatrice
A febbraio sono stati pubblicati su tutte le piattaforme di streaming “Texas Hold ‘Em” e “16 Carriages”, i due singoli che anticipano Cowboy Carter, l’ottavo disco della popstar statunitense Beyoncé, che uscirà questo venerdì. Qualsiasi nuovo disco di Beyoncé è molto atteso dai media, ma in questo caso alle normali discussioni si sono sovrapposti i commenti e le interpretazioni sul fatto che, inaspettatamente, Cowboy Carter sarà un album prevalentemente country, più che pop.
Il country è un genere popolarissimo negli Stati Uniti e spesso i musicisti pop o rock finiscono per frequentarlo, spesso proprio dedicandoci dei dischi a sé. È meno comune però che succeda tra i musicisti afroamericani, visto che il country è associato generalmente alla cultura degli stati più bianchi e conservatori degli Stati Uniti, dove questo genere iniziò a diffondersi tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta dello scorso secolo.
Beyoncé stessa ha detto che con Cowboy Carter vuole sfidare la concezione dominante del country, quella conservatrice e bianca, e di augurarsi che, anche grazie al successo di “Texas Hold ‘Em”, prima o poi il colore della pelle di un musicista possa diventare «irrilevante» rispetto alla musica che fa. Intanto, è «orgogliosa» di essere la prima donna nera ad arrivare con un singolo (“Texas Hold ‘Em”) nella prima posizione della Hot Country Songs, la classifica della rivista Billboard delle canzoni country più ascoltate negli Stati Uniti.
Come tutti i fenomeni culturali stratificati e con molti anni di storia alle spalle, nel corso del tempo il country ha dato vita a una scena molto vivace e diversificata, in cui hanno saputo distinguersi anche musicisti con opinioni progressiste, come per esempio Willie Nelson. Tuttavia, anche se nel corso della sua storia il country è stato tante cose, negli Stati Uniti ha finito per diventare frequentemente associato all’America bianca e conservatrice, quella degli stati più rurali. È accaduto in parte perché buona parte dei musicisti che hanno fatto la storia di questo genere, come Merle Haggard, Guy Drake e Hank Williams Jr., ha richiamato in modo piuttosto esplicito quell’immaginario nei testi delle canzoni, che spesso parlavano di temi come il possesso di armi, l’immigrazione e l’ingiustizia della tassazione imposta dallo stato centrale.
Intervistato dallo HuffPost, il musicologo Charles Hughes ha spiegato che il country ha finito per essere etichettato come “musica per bianchi” anche per via delle logiche di distribuzione dominanti nell’industria musicale degli anni Venti, quando le case discografiche iniziarono a suddividere la musica anche in base a fattori etnici. In quel periodo l’impatto delle cosiddette leggi “Jim Crow”, approvate in singoli stati del sud a partire dal 1876 per sistematizzare la segregazione razziale per i neri e i membri di altri gruppi etnici diversi dai bianchi, era ancora molto forte. Anche la musica finì per risentire di quell’approccio, e così alcuni generi, come il jazz e il gospel, cominciarono a essere commercializzati come “musica per neri”, mentre il country cominciò a essere presentato come la musica più adatta «da fare ascoltare ai bianchi che dal Sud si erano trasferiti nelle grandi città del Nord e dell’Ovest».
Anche se l’associazione tra musica country e persone bianche è piuttosto radicata, in realtà diversi musicisti afroamericani contribuirono alla fase embrionale del genere. Uno di questi fu Lead Belly, nato in Louisiana e cresciuto in Texas, che rese famosa la canzone “In The Pines”, rifatta dai Nirvana nella loro famosa “Where Did You Sleep Last Night”.
Inoltre, diversi musicologi sottolineano come il country derivi principalmente dal blues, un genere che ha avuto origine all’interno della comunità afroamericana, e come uno degli strumenti fondamentali del genere, il banjo, abbia radici africane e sia stato importato negli Stati Uniti dagli schiavi. Per questi motivi, diversi musicisti neri considerano la concezione “bianca” del country cara al mondo conservatore una forma di appropriazione culturale.
Il country continua a essere un genere prevalentemente conservatore e bianco ancora oggi: le principali classifiche del genere sono quasi sempre dominate da uomini bianchi, e diversi artisti contemporanei continuano a esprimere opinioni apertamente reazionarie nei testi. Per esempio la scorsa estate una canzone intitolata “Try That in a Small Town”, scritta dal cantante country Jason Aldean, era arrivata al primo posto della classifica Billboard 100 – che misura le canzoni più ascoltate nel paese in base a vendite (fisiche e digitali), streaming online e riproduzioni radiofoniche – dopo essere stata al centro della discussione politica per vari giorni per via del contenuto del testo. “Try That in a Small Town” (“Prova a farlo in una piccola città”), lodava i valori tradizionali che legano le comunità delle cittadine della provincia americana, e tra le altre cose criticava le manifestazioni contro la violenza della polizia nei confronti delle persone afroamericane.
Tuttavia, da almeno una decina d’anni le cose stanno cambiando: ha infatti preso piede una “guerra culturale” che sta dividendo il mondo del country, con l’arrivo sulla scena di molti musicisti e musiciste di successo che pur suonando country appartengono a comunità marginalizzate e condividono valori e posizioni politiche progressiste. Oltre al clamoroso successo ottenuto nel 2019 da “Old Town Road” di Lil Nas X, una specie di parodia “country rap” di un cantante nero famoso per la sua fluidità di genere, in questi anni un numero significativo di musicisti neri – tra cui Darius Rucker, Kane Brown e Jimmie Allen, solo per citarne alcuni – hanno raggiunto le prime posizioni delle classifiche statunitensi con canzoni tipicamente country.
Il successo di questi musicisti è visto con sospetto dagli ambienti più conservatori del genere, che in alcuni casi hanno provato a ostacolare la diffusione delle loro canzoni. Di recente per esempio Justin McGowan, ascoltatore di una famosa stazione radio dello stato americano dell’Oklahoma che passa prevalentemente musica country (KYKC), aveva chiesto di trasmettere “Texas Hold ‘Em” durante una trasmissione dell’emittente. Dopo che la sua richiesta era stata rifiutata, McGowan aveva inviato una email a Roger Harris, il direttore di KYKC, per chiedere spiegazioni. Harris aveva risposto che «non mettiamo Beyoncé alla KYKC perché siamo una stazione di musica country», e subito dopo McGowan aveva pubblicato uno screenshot della mail su X (Twitter), definendo le sue parole «assolutamente ridicole e razziste». Il post era stato commentato da migliaia di utenti, e alla fine KYKC era tornata sui suoi passi trasmettendo “Texas Hold ‘Em” per tre volte in una sola serata.
In ogni caso, Beyoncé aveva approcciato questo genere già prima di iniziare a registrare Cowboy Carter: l’esempio più celebre è quello di “Daddy Lessons”, una canzone del 2016 parte dell’album Lemonade. Nel novembre di quell’anno Beyoncé suonò dal vivo “Daddy Lessons” durante il 50esimo anniversario dei Country Music Association Awards.
La sua esibizione fu molto apprezzata dal pubblico presente, ma fu criticata sui social da diversi utenti, tra chi l’accusava di avere indossato dei vestiti troppo poco country e chi considerava le sue prese di posizione in favore del movimento Black Lives Matter poco consone allo spirito della manifestazione. Pochi mesi dopo Beyoncé provò anche a inserire “Daddy Lessons” tra le canzoni in gara per il premio Best Country Song ai Grammy, ma la sua candidatura fu rifiutata dal comitato di selezione, che la considerò poco affine al genere.
Manca ancora qualche giorno all’uscita di Cowboy Carter, e nessun critico musicale ha avuto la possibilità di ascoltarlo per intero in anteprima, ma “Texas Hold ‘Em” e “16 Carriages” da sole ricalcano diversi cliché compositivi e testuali del country. Sono canzoni dominate dagli strumenti a corde suonati dalle tipiche “string band” statunitensi (come chitarre, violini, banjo, mandolini) e raccontano storie d’amore ambientate in contesti rurali, colme di riferimenti a luoghi, situazioni e oggetti che ritornano in molte delle ballate che hanno reso famoso questo genere, come i saloon, le carrozze, le bottiglie di liquore, le partite a carte e così via.
Diverse riviste di moda hanno inoltre notato come i vestiti indossati da Beyoncé nelle ultime settimane (cappelli “stetson”, guanti bianchi, stivali e camicie da equitazione rivisitate in chiave moderna) omaggino in maniera piuttosto esplicita lo stile country.
Cowboy Carter segue di un paio d’anni Renaissance, un disco che era stato accolto favorevolmente dalla critica statunitense e che si era già discostato dai lavori precedenti di Beyoncé per aver attinto dalla dance music afroamericana, quindi dalla house, dalla disco, dal soul e dal funk, con le canzoni mixate l’una all’altra come se fossero suonate da un dj in una discoteca. È probabile quindi che, al di là di tutte le considerazioni politiche del caso, Cowboy Carter sia stato concepito da Beyoncé come un’ulteriore evoluzione stilistica, un modo di cimentarsi in generi diversi dal pop e dall’R&B con cui è diventata famosa.