Dell’attacco di Israele all’ospedale al Shifa di Gaza si sa pochissimo
È iniziato domenica notte, è ancora in corso e sembra essere molto violento: l'esercito israeliano ha detto di aver ucciso e arrestato centinaia di miliziani, ma la situazione di medici e pazienti non è chiara
L’attacco dell’esercito israeliano contro l’ospedale al Shifa, che si trova nella città di Gaza ed è il più grande della Striscia, va avanti da domenica notte ed è diventato il più lungo e il più violento attacco contro un ospedale compiuto da Israele dall’inizio della guerra. Israele ha detto di aver ucciso al suo interno o attorno alle sue strutture 140 miliziani armati di Hamas, ma su tutta l’operazione militare stanno filtrando all’esterno pochissime informazioni, che arrivano esclusivamente dall’esercito israeliano e non possono essere verificate: non si sa bene che danni abbiano subìto le strutture mediche, in che condizioni si trovino medici e pazienti e quanto violenti siano i combattimenti all’interno dell’ospedale.
L’ospedale di al Shifa era già stato attaccato dall’esercito israeliano una prima volta a novembre. Da allora molti civili palestinesi avevano lasciato il nord della Striscia, dove si trova la città di Gaza, per rifugiarsi a sud, e in particolare a Rafah, ma migliaia di persone sono comunque rimaste al nord. Secondo fonti dell’ospedale sentite da BBC, ad al Shifa ci sono ancora 20 medici, 60 infermieri e centinaia di pazienti.
Israele ha attaccato l’ospedale nella notte tra domenica e lunedì: l’esercito ha inizialmente circondato il complesso dell’ospedale – che è molto grande e ospita vari edifici – con i carri armati, e poi ha attaccato. In un comunicato successivo, il portavoce dell’esercito ha fatto sapere che era stata avviata «un’operazione di alta precisione in zone limitate dell’ospedale di al Shifa, a seguito di notizie concrete arrivate dall’intelligence che richiedevano azione immediata». Il portavoce ha poi aggiunto: «Sappiamo che importanti terroristi di Hamas si sono radunati dentro all’ospedale di al Shifa e lo stanno usando per organizzare attacchi contro Israele».
Da quel momento l’attacco contro l’ospedale è in corso, ma le informazioni fornite da Israele sono scarse. L’esercito israeliano ha continuato a pubblicare comunicati periodici sull’andamento delle attività militari, ma molto scarni e limitati a elencare il numero dei miliziani di Hamas che dice di avere ucciso: in totale ad oggi sarebbero 140, mentre altre 600 persone sarebbero state arrestate, tra cui alcuni capi di Hamas e di un’altra organizzazione radicale palestinese, il Jihad Islamico.
Alcuni testimoni hanno raccontato che i combattimenti sono estremamente violenti. Iyad Elejel, un palestinese che vive a 500 metri dal complesso dell’ospedale, ha detto al New York Times che la situazione è «terrificante»: «Sentiamo suoni continui di scontri, colpi di arma da fuoco, bombardamenti, esplosioni, elicotteri e jet, tutto il giorno e tutta la notte». Nel suo appartamento, dove sono rifugiate 30 persone, è entrato del fumo generato dai combattimenti, che ha reso difficile respirare.
La tv del Qatar Al Jazeera e Wafa, l’agenzia di stampa dell’Autorità palestinese, hanno detto che l’esercito ha fatto esplodere un edificio in cui si trovavano alcune sale operatorie. L’esercito israeliano non ha confermato la notizia.
Le notizie sono scarse anche sulla condizione di medici e pazienti. BBC ha parlato nei primi giorni dell’attacco con Amer Jedbeh, un chirurgo che lavora all’interno dell’ospedale, che ha detto che l’esercito ha tagliato l’energia elettrica e le forniture di acqua ad al Shifa e ha impedito ai medici di lavorare normalmente: «Siamo intrappolati nei nostri reparti», ha detto. «Un missile ha colpito il nostro edificio al primo piano, ferendo molte persone. Un uomo è morto e non abbiamo potuto aiutarlo. Stiamo lavorando soltanto con gli strumenti di primo soccorso, non possiamo operare perché non ci sono elettricità o acqua».
L’esercito israeliano ha detto invece che i pazienti e il personale medico non sono stati attaccati, e che è stato creato un percorso sicuro per permettere loro di andare via.