Hong Kong sta diventando una città come un’altra
Era l'unica città libera della Cina e uno dei più importanti centri finanziari del mondo, ma la repressione e la censura la stanno trasformando
Nell’ultimo secolo e mezzo Hong Kong è sempre stata una città speciale. Fu prima colonia britannica dal 1841, nei decenni divenne uno dei principali centri finanziari mondiali e poi, quando nel 1997 il Regno Unito la restituì alla Cina, si trasformò nell’unica città cinese libera, dove i media non erano censurati e la libertà d’espressione era garantita. Ma negli ultimi anni l’eccezionalità di Hong Kong si è andata affievolendo, man mano che il controllo e la repressione della Cina diventavano più intensi. Fino al punto che, ormai, molti dicono che Hong Kong sta diventando una città cinese come tutte le altre.
L’ultima dimostrazione di questa trasformazione di Hong Kong è stata l’approvazione dell’Articolo 23, una nuova legge sulla sicurezza che impone pene durissime per chiunque critichi o metta in dubbio il potere dello stato, e che rafforza una legge preesistente del 2020, che aveva già avuto l’effetto di paralizzare ogni forma di dissenso.
Il controllo sempre più asfissiante della Cina su Hong Kong sta togliendo alla città tutti gli elementi che la rendevano speciale e unica al mondo.
Il dibattito è stato alimentato negli scorsi giorni da Stephen Roach, che è l’ex capo per l’Asia della banca Morgan Stanley e che è stato uno degli uomini d’affari che più hanno favorito l’avvicinamento economico tra la Cina e l’Occidente. Roach, che in passato era stato uno dei grandi sostenitori del ruolo di Hong Kong come principale centro finanziario dell’Asia, ha scritto sul Financial Times un articolo intitolato «Mi addolora dire che Hong Kong è finita», in cui scrive che «la città che un tempo chiamavo casa e che ho esaltato come un bastione del dinamismo» è oggi in pieno declino.
Questo declino è graduale, ma visibile in vari campi. Hong Kong era il più importante centro finanziario dell’Asia, ma ormai la sua borsa è in crisi. Era la città più internazionale del continente, ma i cittadini e le aziende straniere se ne stanno andando. Era un importante centro culturale, ma il suo cinema e la sua musica hanno perso via via rilevanza. La CNN ha scritto che le sue feste e i suoi locali notturni non sono più quelli di un tempo.
L’eccezionalità di Hong Kong nasceva dalla sua storia. Il Regno Unito la conquistò come colonia in varie fasi verso la metà del Diciannovesimo secolo, e questo, con il tempo, creò nella città una cultura originale e irrequieta, asiatica ma con alcuni elementi occidentali. Benché il Regno Unito non abbia mai concesso a Hong Kong di governarsi democraticamente, nel tempo la città divenne una delle più libere dell’Asia, con un sistema giudiziario indipendente e media liberi.
Nel 1997 il Regno Unito restituì la città alla Cina, ma con un accordo particolare in base al quale nei successivi 50 anni (dunque fino al 2047) la Cina avrebbe mantenuto le libertà di Hong Kong, e che anzi le avrebbe espanse, concedendo ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti a suffragio universale (cosa che il Regno Unito non concesse mai).
Per quasi vent’anni la Cina mantenne le promesse e garantì le libertà di Hong Kong, contribuendo alla sua crescita e alla sua prosperità, e inaugurando quello che divenne noto come “un paese, due sistemi”, per indicare che Cina e Hong Kong erano riunite, ma avevano due regimi differenti. Questo faceva comodo anche alla Cina stessa, che usò Hong Kong come porta d’accesso ai mercati finanziari occidentali.
Ma a partire dal 2014, e con maggiore intensità negli anni successivi, sotto il presidente Xi Jinping la Cina cominciò a revocare alcune delle libertà di cui Hong Kong aveva goduto negli ultimi decenni, e ad avviare politiche di progressiva assimilazione. Questo provocò enormi proteste di piazza, dapprima nel 2014 e poi nel 2019. Il governo locale filocinese rispose promulgando la prima legge sulla sicurezza, che dava alle autorità ampissimo margine per accusare di «sedizione, sovversione e secessione» chiunque si opponesse o anche soltanto criticasse il regime.
La seconda legge, quella approvata questa settimana, ha caratteristiche simili ed è stata definita da un attivista per la democrazia «l’ultimo chiodo della bara» dei diritti in città.
Il declino di Hong Kong è anzitutto un declino della sua centralità economica e finanziaria. Per decenni, Hong Kong è stata il terzo centro finanziario del mondo, dopo New York e Londra, ma da qualche mese ha perso la sua posizione a favore di Singapore. Le aziende occidentali, che negli scorsi decenni avevano stabilito la propria sede a Hong Kong con l’intento di aprirsi al mercato cinese, stanno gradualmente lasciando la città, sostituite da aziende cinesi.
La ragione principale riguarda appunto la fine delle libertà garantite fino a qualche anno fa. Dal 2020 a oggi il governo ha fatto arrestare giornalisti, imprenditori e avvocati, usando come pretesto la legge sulla sicurezza. I critici del regime cinese e gli oppositori vengono giudicati da tribunali politicizzati, e il tasso di condanna è del 100 per cento.
Questo ha reso chiaro agli occhi della comunità internazionale che oggi a Hong Kong la priorità non è più l’apertura agli investimenti e agli affari, ma il mantenimento dell’ordine e dell’obbedienza politica, esattamente come avviene nel resto della Cina.
I legislatori locali stanno diventando sempre più simili a politici cinesi, sempre pronti ad accusare l’Occidente e potenze straniere di complotti e inganni. È successo per esempio nelle scorse settimane, quando il calciatore Lionel Messi non ha potuto giocare una partita di esibizione a Hong Kong e questo ha provocato proteste scomposte da parte dei nazionalisti locali, che hanno accusato Messi di complottare per umiliare la città.
La censura sta raggiungendo livelli di rigidità simili a quelli che esistono nel resto della Cina: vengono periodicamente vietate manifestazioni, cancellati eventi, rimosse opere d’arte, impedite conferenze.
La legge sulla sicurezza ha anche eliminato ogni forma di dissenso a livello della popolazione locale: se alle manifestazioni del 2019 parteciparono più di due milioni di persone (su sette milioni di popolazione totale della città), oggi a Hong Kong le proteste sono quasi inesistenti, e quelle che vengono organizzate sono rapidamente represse.
Questa trasformazione è visibile anche a livello culturale. Negli anni Ottanta e Novanta Hong Kong era uno dei principali centri cinematografici e musicali dell’Asia, e i suoi attori e i suoi registi erano famosi nel mondo. Oggi il timore della censura ha di fatto bloccato l’industria culturale: se un tempo i giovani cinesi guardavano i film e ascoltavano la musica pop di Hong Kong (il cosiddetto “cantopop”), oggi sono gli hongkonghesi a importare i prodotti culturali dalla Cina.
Questa trasformazione di Hong Kong è ovviamente graduale. I turisti (benché quelli occidentali siano in forte calo, sostituiti dal turismo interno cinese) continuano a vedere una città con relativamente poche differenze rispetto a cinque anni fa, prima dell’approvazione della repressiva legge sulla sicurezza. Hong Kong inoltre rimarrà una città ricca e prospera, sebbene molti ritengano che sia destinata a perdere via via il suo ruolo centrale nella finanza globale. Ma la crisi che sta vivendo Hong Kong è più sottile, e di lunga durata.
Stephen Roach, l’influente uomo d’affari che aveva scritto che «Hong Kong è finita», dopo la pubblicazione del primo articolo ne ha scritto un altro sul South China Morning Post, il più importante giornale hongkonghese in lingua inglese, per spiegare meglio la sua posizione. Nel secondo articolo ha scritto che ama Hong Kong, che continua a visitarla più volte all’anno, ma che tanti suoi amici e colleghi si sono trasferiti in altri paesi, e che l’inquietudine per la repressione cinese è come «una nuvola nera» sulla città. «L’energia e l’inguaribile ottimismo che un tempo erano la più importante caratteristica e il più grande vantaggio di Hong Kong si sono esauriti», ha scritto.