L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia, 30 anni fa
Il 20 marzo 1994 la giornalista e l'operatore della Rai furono uccisi a Mogadiscio, e ancora oggi non si sa perché
Il 20 marzo del 1994, trent’anni fa, la giornalista Ilaria Alpi e il cineoperatore Miran Hrovatin furono uccisi con una raffica di kalashnikov poco lontano dall’ambasciata italiana di Mogadiscio, in Somalia. Alpi era di Roma e Hrovatin di Trieste, ed erano lì per seguire per conto del TG3 il ritiro delle truppe statunitensi dal paese, dove era in corso da anni una guerra civile. I due stavano parallelamente indagando su un presunto traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici che, con la copertura della missione umanitaria, avrebbe coinvolto anche società italiane. Dopo una lunga e controversa vicenda giudiziaria, che ha coinvolto commissioni parlamentari, presunti tentativi di depistaggio, incarcerazioni, assoluzioni e richieste di archiviazione, si sa ancora molto poco di quello che Alpi e Hrovatin scoprirono, e ancora meno delle circostanze e dei mandanti del loro omicidio.
Quando furono uccisi, Alpi e Hrovatin erano appena tornati da Bosaso, una città costiera nel nord del paese, dove avevano intervistato un potente sultano locale a proposito del sequestro di una nave da parte di alcuni pirati, che sospettavano potesse essere stata usata per i traffici su cui indagavano. L’omicidio avvenne quando erano già tornati a Mogadiscio: mentre stavano viaggiando su un fuoristrada, un’auto li intercettò nei pressi dell’hotel Amana, vicino all’ambasciata italiana. Il fuoristrada fu colpito dai colpi di mitragliatore: Hrovatin morì sul colpo, Alpi poco dopo. L’autista e un uomo che li scortava sopravvissero.
Quando Alpi fu uccisa aveva 32 anni. Aveva studiato arabo all’università, ed era arrivata a lavorare in Rai dopo essere stata inviata al Cairo per i quotidiani Paese Sera e l’Unità. Da due anni seguiva le vicende somale, dove nel 1992 era cominciata l’operazione “Restore Hope”, con cui le forze dell’ONU guidate dagli Stati Uniti portarono aiuti umanitari alla popolazione locale, senza però risolvere il grave conflitto civile che infatti proseguì negli anni successivi. Hrovatin aveva invece 44 anni, e prima di arrivare alla Rai aveva lavorato per la rete triestina Videoest.
Negli anni sono state fatte molte ipotesi sull’omicidio di Alpi e Hrovatin: la principale è che avessero scoperto qualcosa che non dovevano scoprire, e che qualcuno li avesse fatti uccidere. Ma non si è mai trovato un mandante, nonostante le indagini siano proseguite negli anni successivi e siano formalmente ancora in corso.
A causa delle pressioni mediatiche e della famiglia Alpi, alla fine degli anni Novanta il governo di Romano Prodi incaricò l’ambasciatore in Somalia Giuseppe Cassini di accelerare le indagini. Cassini si concentrò sulla pista di un omicidio casuale, non legato alle inchieste di Alpi e Hrovatin, e nel 1998 portò in Italia Hashi Omar Hassan, un cittadino somalo accusato da due testimoni: l’autista di Alpi e Hrovatin, Sid Abdi, e il testimone oculare Ali Ahmed Ragi. Entrambi sostennero che Hashi Omar Hassan fosse uno dei sette uomini del commando che sparò sui due giornalisti italiani.
Hassan fu inizialmente assolto dal tribunale di Roma, che giudicò poco credibili le testimonianze: Ragi per esempio cambiò diverse volte versione e sparì prima di testimoniare in aula, mentre Adbi disse di non aver visto Ragi sul luogo della sparatoria. Inoltre, altri tre cittadini somali testimoniarono a favore di Hassan, sostenendo che fosse in una città a 200 chilometri da Mogadiscio nel giorno dell’agguato.
Nonostante questo, Hassan fu condannato in appello e nel 2000 la sentenza fu confermata dalla Cassazione e fissata a 26 anni. Tra i testimoni, mentre Ragi sparì prima del processo, Abdi rimase in Italia alcuni anni, per poi essere ritrovato morto pochi giorni dopo il suo rientro in Somalia, nel 2003.
Hashi Omar Hassan andò in carcere, finché nel 2015 una troupe della trasmissione della Rai Chi l’ha visto? riuscì a intervistare Ragi a Birmingham, in Inghilterra. Raccontò di aver accusato Hashi Omar Hassan in cambio di un visto per lasciare la Somalia, perché «gli italiani volevano chiudere il caso». Il processo fu dunque rivisto e Hassan, che dopo 16 anni di carcere era stato assegnato ai servizi sociali, tornò in libertà nel 2016. Nel 2018 venne risarcito dallo Stato italiano con tre milioni di euro per l’ingiusta detenzione e nel luglio del 2022 fu ucciso a Mogadiscio da una carica di dinamite messa nella sua auto.
Il caso Hassan portò molti a parlare di depistaggio istituzionale, e accrebbe le pressioni perché lo Stato facesse chiarezza su una vicenda che, come tante altre nella storia del secondo Novecento in Italia, era piena di incoerenze e vuoti.
Nel 2004 il parlamento italiano istituì una commissione d’inchiesta per indagare sull’omicidio di Alpi e Hrovatin, che però fu da subito molto criticata. Il presidente, il deputato di Forza Italia Carlo Taormina, fece perquisire le case e le redazioni dei giornalisti della Rai che se ne occuparono, e a un certo punto disse addirittura che Alpi e Hrovatin erano in Somalia «in vacanza». Le conclusioni della commissione furono riassunte in tre relazioni in contraddizione tra loro e comunque non definitive, che non portarono a nessuna conseguenza. Nel 2007 la procura di Roma chiese l’archiviazione per l’inchiesta sull’omicidio, ma nel 2010 la richiesta venne bocciata.
Nel 2013 l’allora presidente della Camera Laura Boldrini avviò le procedure per desecretare gli atti della commissione parlamentare: si scoprì che, in una nota dei servizi segreti scritta nei giorni successivi all’omicidio, si sosteneva che Alpi fosse stata uccisa per le sue indagini sui traffici di armi e rifiuti tossici, e che i mandanti andassero ricercati «tra militari somali e cooperazione». Nel 2017 la procura di Roma riaprì le indagini, ma ne chiese l’archiviazione qualche mese dopo: la famiglia Alpi si oppose e nel giugno del 2018 il giudice per le indagini preliminari dispose ulteriori accertamenti. Nel frattempo morì Luciana Alpi, la madre di Ilaria, che per 24 anni aveva guidato le campagne per chiedere la verità sull’omicidio di sua figlia.
Nel febbraio del 2019 la procura di Roma chiese l’ennesima archiviazione delle indagini, nuovamente rifiutata. Oggi l’inchiesta giudiziaria è dunque formalmente ancora aperta.
Il 19 marzo il deputato Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Antimafia, ha organizzato una conferenza stampa sul caso alla Camera dei deputati con Mariangela Grainer, portavoce della campagna “Noi non archiviamo” e con i rappresentanti della Federazione Nazionale Stampa Italiana, dell’organizzazione sindacale dei giornalisti Rai Usigrai, dell’Ordine dei giornalisti del Lazio e dell’associazione Articolo 21. Verini ha detto di aver chiesto e ottenuto un incontro con il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi «per fornire tutti i tasselli utili, anzi necessari per sostanziare la richiesta di non archiviare la vicenda: ci sono gli elementi per raggiungere la verità e la giustizia».