Il carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sta provando
Dopo la pessima reputazione derivata dal pestaggio del 2020, per cui sono a processo 105 persone, la direttrice è cambiata e sono nate sartorie e altri laboratori per far lavorare i detenuti e insegnare loro un mestiere
di Angelo Mastrandrea
Alle 8:30 del mattino nel reparto femminile di alta sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, alcune detenute escono dalle loro celle. Accompagnate dagli agenti di polizia penitenziaria, percorrono i corridoi deserti, raggiungono la sartoria al secondo piano e si mettono al lavoro, alcune a cucire, altre a rifinire e altre ancora a stirare. Nella sala ci sono macchine per cucire, grucce e appendini, rocchetti di filo. Sui tavoli sono poggiate forbici, ferri da stiro e pezzi di stoffa. Lungo le mura sono accatastate alcune scatole blu di varie dimensioni con il marchio del ministero della Giustizia e di Marinella, un’azienda di moda napoletana nota per la produzione artigianale di cravatte, sciarpe e foulard di lusso.
Una detenuta ne apre una per mostrare cosa c’è dentro: un’elegante cravatta blu che definisce «istituzionale», verrà regalata a un ministro o un sottosegretario. All’inizio di ottobre, infatti, la direttrice del carcere Donatella Rotundo ha firmato un contratto con Marinella per insegnare alle detenute in alta sicurezza a cucire le cravatte per gli agenti, per i dirigenti e per i capi dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e anche quelle da regalare ai politici in occasione di visite al carcere o altre cerimonie istituzionali.
Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono in totale 940 detenuti, anche se la struttura per le sue dimensioni potrebbe ospitarne al massimo 818. Di questi, 840 si trovano nei sei padiglioni maschili, che sono separati da quello femminile e connessi fra loro da lunghi corridoi interni che portano da un edificio all’altro. Il reparto “Nilo”, dove quattro anni fa ci fu una rivolta dei detenuti e un pestaggio in risposta, è una sorta di carcere nel carcere: ha otto reparti, tra i quali uno per i malati psichiatrici e uno per i tossicodipendenti, e ha 350 detenuti comuni. Due padiglioni sono riservati all’alta sicurezza e per il resto il carcere è una casa circondariale, significa che ci vengono portate persone appena arrestate, in attesa di giudizio, condannate a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni. Ogni giorno di media ci sono tre o quattro nuovi arrivi.
La direttrice Rotundo è stata inviata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) a Santa Maria Capua Vetere proprio per ricostruire l’immagine e la reputazione del carcere, offuscata da quei pestaggi avvenuti il 6 aprile del 2020. I detenuti chiedevano test e mascherine dopo un caso di Covid, la loro protesta venne repressa con la violenza.
Rotundo fu nominata a settembre del 2021, dopo che 105 persone tra poliziotti, funzionari del DAP e medici dell’azienda sanitaria locale di Caserta erano state indagate per i pestaggi contro i detenuti. La sua nomina fu preceduta da una visita nel carcere del presidente del Consiglio Mario Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia, che condannarono gli «atti di ingiustificabili violenze e umiliazioni» e dissero che «non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso». Il processo per i pestaggi è cominciato il 7 novembre del 2022 ed è ancora in corso.
«Sono stata inviata a Santa Maria Capua Vetere con un duplice mandato: aiutare le persone recluse a imparare lavori che sono richiesti sul territorio, in modo da potersi reinserire più facilmente quando finiscono di scontare la pena, e ridurre i costi per la pubblica amministrazione», racconta Rotundo. Dice di aver applicato un metodo che aveva cominciato a sperimentare nel 2017, quando il DAP la nominò coordinatrice delle attività lavorative nelle carceri, una nuova figura inserita nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, del Partito Democratico. La sua idea è coinvolgere gli imprenditori a investire nelle carceri italiane, in modo da «trasformare la detenzione in un periodo di formazione che può servire a reinserirsi nel mondo del lavoro quando si finisce di scontare la pena».
Dare la possibilità di lavorare alle persone detenute, peraltro, è il metodo più efficace e accertato per evitare che chi esce dal carcere torni a commettere reati.
Rotundo aveva fatto accordi con i marchi Ermenegildo Zegna nel carcere di Biella e Brunello Cucinelli in quello di Perugia, e aveva avviato con Marinella un laboratorio di sartoria nel reparto femminile del carcere di Pozzuoli che però è durato poco. Quando è arrivata a Santa Maria Capua Vetere, «li ho richiamati chiedendogli di riprovarci e loro hanno accettato la proposta». «Il nostro progetto punta a fornire delle conoscenze alle detenute, per dare loro la possibilità, quando avranno finito di scontare la pena, di essere assunte in un settore che è carente di manodopera», ha detto l’amministratore delegato dell’azienda Alessandro Marinella il giorno della firma dell’accordo, a Palazzo Ravaschieri di Satriano, un edificio del Seicento lungo la Riviera di Chiaia a Napoli.
Nella sezione femminile del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono detenute 64 donne, tutte in regime di alta sicurezza, cioè condannate per reati associativi come l’appartenenza a un’organizzazione mafiosa o il terrorismo e per questo sottoposte a una maggiore sorveglianza rispetto ai detenuti comuni. Molte sono mogli o figlie di esponenti del clan dei Casalesi, un’organizzazione camorristica che prende il nome dalla vicina Casal di Principe.
Dai giorni successivi alla rivolta del 2020, nel padiglione Senna che ospita l’alta sicurezza femminile è in vigore il regime delle “celle chiuse”, che una circolare del DAP a novembre del 2023 ha esteso anche a tutti i reparti di media sicurezza, dove si trovano i detenuti comuni. Vuol dire che alle persone recluse sono concesse due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio, e per il resto non possono stare fuori dalla loro cella, che condividono con altre due, tre o anche quattro detenute. L’unico modo per uscire è partecipare a un’attività e così fanno quasi tutte.
In 35, più della metà, hanno aderito al progetto della sartoria e altre trenta saranno impiegate in un secondo laboratorio che è in allestimento. Hanno frequentato per alcuni mesi i corsi tenuti dai sarti di Marinella e a ciascuna di loro è stata assegnata una mansione specifica, dal taglio alla cucitura, alla stiratura e alla confezione. Periodicamente però vengono spostate per consentire a ciascuna di imparare tutto il processo produttivo. Una detenuta napoletana, in carcere da sette anni, dice che «ora si sta molto meglio perché siamo sempre impegnate, lavoriamo in sartoria, facciamo corsi di formazione e laboratori, chi vuole può studiare e così non rimaniamo tutto il giorno in cella».
Nel carcere vengono a insegnare docenti di un liceo artistico, ci sono laboratori teatrali, corsi di cucina e di estetista, e a breve sarà aperta anche una biblioteca. Le persone detenute tra quelle che hanno girato per più carceri dicono che qui si sta meglio che nelle altre. Lo dice anche un rapporto di Antigone, un’associazione che si occupa dei diritti delle persone detenute: «La struttura è in buone condizioni, tutto appare pulito e ben tenuto. Ci sono vari disegni e decorazioni alle pareti. […] Le stanze sono pulite e personalizzate e il mobilio è in buono stato». L’8 marzo le detenute hanno celebrato la Giornata internazionale della donna con una festicciola in un corridoio al pianterreno, vicino alle cucine. Lì hanno allestito un palchetto su cui si sono alternate a cantare canzoni e a recitare poesie.
Ma tutto questo, comprese le attività di lavoro, non riguarda solamente il reparto femminile. C’è un laboratorio di sartoria anche per i detenuti maschi: a metà mattina circa quaranta detenuti lavorano in silenzio e a testa bassa, quasi ignorandosi tra loro. La maggior parte proviene da qualche comune nei dintorni, ma ci sono anche un paio di stranieri provenienti da paesi africani. Un detenuto napoletano impegnato a cucire una camicia bianca dice di essere contento di lavorare qui perché altrimenti «in cella si impazzisce». Il turno comincia alle 8:30 e finisce alle 16:30, con una pausa di un’ora dalle 12:30 alle 13:30, e la paga è due terzi di quella prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria, circa 900 euro al mese.
L’accordo fatto dalla direttrice Rotundo in questo caso è con Isaia, un marchio napoletano di abbigliamento maschile, per produrre 33mila camicie all’anno per la polizia. I sarti napoletani sono venuti in carcere a insegnare il loro mestiere ai detenuti, hanno seguito le prime fasi della sartoria e ora controllano la qualità delle camicie e danno consigli. Altri 60 detenuti stanno imparando a tagliare e cucire, in vista dell’apertura di un secondo laboratorio in una sala di 600 metri quadrati, dove si produrranno i pantaloni a cinque tasche per gli agenti della polizia penitenziaria e le insegne di qualifica, cioè gli stemmi che sono cuciti sulle tute.
Il progetto di rifondazione del carcere di Santa Maria Capua Vetere non si limita alle sartorie. Giovanna Tesoro, responsabile delle attività di rieducazione e delle misure alternative alla detenzione, racconta che in una pasticceria in costruzione in un altro locale i detenuti produrranno le “polacche aversane”, una brioche soffice ripiena di crema e amarene che si trova solo da queste parti e si mangia soprattutto a colazione. È prevista anche la produzione di altri prodotti di pasticceria.
Nel reparto Nilo è stato aperto un birrificio artigianale, mentre all’esterno ci saranno tre orti dove si coltiveranno frutta e verdura. Grazie a un accordo con la regione, il comune e l’ASL di Caserta, inoltre, sarà aperto un presidio veterinario con sale operatorie per gli animali e corsi per i detenuti, dall’addestramento degli animali alla toelettatura per cani, un canile comunale e un autolavaggio per le macchine della polizia in cui lavoreranno persone recluse.
I dirigenti del carcere però non nascondono le difficoltà, dovute soprattutto alla forte presenza della criminalità organizzata nel territorio circostante, che riesce a far arrivare cellulari e sostanze stupefacenti nelle celle soprattutto con droni che riescono a eludere la sorveglianza. L’ultimo è stato intercettato la notte del 14 febbraio che volava sul reparto Volturno, uno di quelli ad alta sicurezza. Trasportava un chilo e mezzo di hashish e una decina di grammi di cocaina.
I poliziotti in servizio sono 334, ma secondo Rotundo dovrebbero essere almeno una settantina in più. All’inizio dell’anno, dopo l’ennesima rivolta dei 250 reclusi sempre nel reparto Volturno, provocata dalla mancata concessione a un detenuto di un permesso per andare in ospedale a visitare il fratello ferito in un agguato della camorra, i sindacati della polizia penitenziaria hanno denunciato il sovraffollamento delle celle, dove si trovano «detenuti di alto spessore criminale», e le condizioni di «stress psicofisico» degli agenti, sottoposti a carichi di lavoro «insostenibile». Rotundo sostiene che l’insufficiente numero di agenti limita anche le attività di rieducazione e reinserimento dei detenuti. «Spesso le attività saltano perché non ci sono agenti disponibili ad accompagnare i detenuti al lavoro», dice. Succede soprattutto quando devono andare fuori dal carcere.