Gli Stati Uniti si sono stancati di Netanyahu?
Per mesi il governo di Joe Biden ha usato la strategia di «abbracciare» il primo ministro israeliano, senza successo: ora le cose stanno cambiando, almeno nella retorica
A più di cinque mesi dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, gli Stati Uniti hanno cominciato a criticare con sempre maggior forza il modo in cui Israele sta conducendo la guerra, e soprattutto l’operato del primo ministro Benjamin Netanyahu, considerato uno dei principali ostacoli al raggiungimento di un cessate il fuoco nella Striscia. È una cosa rilevante perché finora il governo statunitense aveva sostenuto in maniera quasi incondizionata il governo israeliano.
Questo cambio di politiche è cauto e graduale, ma notevole. La scorsa settimana il presidente americano Joe Biden ha detto che Netanyahu sta «danneggiando Israele più di quanto non lo stia aiutando», e in più di un’occasione negli scorsi giorni ha detto che Israele non deve attaccare Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza ancora non invasa dall’esercito israeliano, dove si sono rifugiati centinaia di migliaia di civili.
La critica più dura però è arrivata non da Biden ma da Chuck Schumer, il leader dei Democratici al Senato e il più importante esponente del Partito Democratico dopo Biden stesso. La settimana scorsa Schumer aveva chiesto apertamente le dimissioni di Netanyahu, sostenendo che per garantire la pace nella regione e la sicurezza di Israele fossero necessarie nuove elezioni. Biden, pur non ripetendo la richiesta di dimissioni di Schumer (sarebbe stata un’intromissione troppo grossa), ha detto che il leader dei Democratici al Senato ha fatto «un buon discorso».
Questo cambio di politica per ora riguarda soprattutto la retorica: gli Stati Uniti stanno continuando a inviare a Israele grandi quantità di armi e di aiuti finanziari, che vengono usati nella guerra contro Hamas. Ma anche questo cambiamento retorico è notevole, e potrebbe anticipare azioni più decise.
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Da quando è cominciata la guerra nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre dell’anno scorso a seguito degli attacchi contro i civili israeliani compiuti da Hamas, Biden ha utilizzato nei confronti di Israele una strategia che è stata definita «hug Bibi», cioè «abbraccia Bibi», dove Bibi è il soprannome di Benjamin Netanyahu, molto usato anche in pubblico. Biden e Netanyahu sono molto diversi e non sono mai andati d’accordo durante le loro rispettive carriere politiche. Anche durante l’amministrazione di Barack Obama, quando Biden era vicepresidente, i dissidi tra il governo statunitense e quello israeliano erano frequenti. Netanyahu peraltro è a capo del governo più di destra della storia di Israele e ha idee molto diverse dal progressista Biden (in Israele si è formato un governo di unità nazionale dopo il 7 ottobre, ma tutti i ministri più estremisti sono rimasti).
Nonostante le differenze, davanti all’enorme tragedia del 7 ottobre Biden ha fatto la scelta precisa di appoggiare in maniera incondizionata il governo di Israele, principalmente per tre ragioni.
Anzitutto perché lo stesso Biden è un forte sostenitore di Israele e del suo diritto a difendersi: in più di un’occasione si è autodefinito un «sionista», cioè una persona che sostiene il diritto del popolo ebraico di creare un proprio stato in Palestina.
In secondo luogo, l’opinione pubblica statunitense è molto filoisraeliana, e lo è diventata sempre di più negli ultimi decenni: soprattutto le persone di orientamento politico conservatore o centrista sostengono l’idea che gli Stati Uniti debbano aiutare e proteggere Israele qualunque cosa succeda, e questo orientamento rende politicamente sconveniente per un presidente criticare Israele, soprattutto in un anno elettorale.
Infine, l’amministrazione di Joe Biden ha sostenuto la strategia di «abbracciare Bibi» convinta che, se in pubblico avesse sostenuto incondizionatamente Israele, in privato, cioè nei colloqui personali tra i due leader e nelle riunioni a porte chiuse, avrebbe avuto più margine di manovra per limitare le conseguenze più gravi della guerra nella Striscia.
Quest’ultima considerazione si è rivelata sbagliata.
Da mesi i giornali americani pubblicano articoli in cui fonti anonime del governo esprimono frustrazione nei confronti di Netanyahu e del governo israeliano, che non considera i suggerimenti degli alleati americani e ignora completamente le numerose richieste di limitare il livello della violenza nella Striscia di Gaza e soprattutto di prendere misure più efficaci per evitare l’uccisione di civili. Dall’inizio della guerra l’esercito israeliano ha ucciso più di 30 mila persone, la stragrande maggioranza delle quali civile.
Il governo israeliano sta ostacolando testardamente i numerosi tentativi fatti dalla diplomazia americana di raggiungere un cessate il fuoco, che comunque sono ugualmente ostacolati dalla leadership di Hamas, che fa richieste esose e che ugualmente non si cura della sofferenza della popolazione civile palestinese.
Al tempo stesso il governo israeliano sta mettendo in discussione i numerosi tentativi della diplomazia statunitense di evitare un’espansione del conflitto nel resto della regione, e in particolar modo di impedire che si apra un nuovo fronte di guerra tra Israele e il gruppo armato libanese Hezbollah. Anche di recente Netanyahu ha parlato della possibilità di una guerra con Hezbollah, e Israele ha allargato le sue operazioni offensive al confine con il Libano.
Per questo, Biden e Netanyahu non si parlano da metà febbraio, dunque da oltre un mese. Politico ha scritto che Biden è a tal punto frustrato dal primo ministro israeliano da averlo definito in alcune conversazioni private un «bad fucking guy», «un cazzo di cattivo». La Casa Bianca ha smentito.
Le enormi violenze compiute dall’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza, inoltre, stanno riducendo il sostegno del pubblico americano nei confronti di Israele. A febbraio per la prima volta dall’inizio della guerra il 50 per cento dei cittadini americani (e il 64 per cento degli elettori Democratici) ha detto che Israele «è andato troppo oltre» nella sua guerra. Alcuni analisti cominciano a pensare che il sostegno incondizionato nei confronti di Israele possa diventare anche un problema elettorale per Biden e fargli perdere voti importanti soprattutto tra i giovani, che sono i più critici nei confronti di Israele.
Come dicevamo, però, questo cambiamento di politica per ora è soprattutto retorico. Gli Stati Uniti hanno adottato alcune misure più o meno simboliche: il segretario di Stato Antony Blinken, per esempio, ha detto che gli Stati Uniti sono tornati a considerare illegittime le colonie israeliane in Cisgiordania (e pochi giorni dopo il governo israeliano ha approvato la costruzione di migliaia di nuove abitazioni all’interno delle colonie). Il governo statunitense ha anche imposto sanzioni contro tre coloni e due insediamenti israeliani in Cisgiordania.
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Ma a parte queste misure secondarie, il sostegno materiale degli Stati Uniti a Israele rimane per ora incondizionato, nonostante le frustrazioni, le lamentele e le richieste di nuove elezioni.
Non è sempre stato così: nei decenni passati i presidenti americani hanno spesso usato gli aiuti militari ed economici come strumento di pressione nei confronti di Israele, quando la leadership israeliana era troppo bellicosa.
Quando Israele invase il Libano nel 1982 e l’esercito bombardò duramente la capitale Beirut, l’allora presidente Ronald Reagan, un Repubblicano, disse al primo ministro Menachem Begin che Israele stava compiendo un «olocausto», e interruppe le forniture di nuove armi finché l’esercito israeliano non si fosse ritirato dal paese.
Negli anni Novanta George H. W. Bush (sempre un Repubblicano) negò a Israele aiuti finanziari per miliardi di dollari per impedire che il governo israeliano costruisse nuove colonie in Cisgiordania e per spingerlo verso nuovi negoziati di pace con i palestinesi.
Oggi politiche di questo genere sembrano impensabili, principalmente perché il sostegno nei confronti di Israele nella politica e nella società degli Stati Uniti si è consolidato ed è diventato una questione identitaria. Soprattutto la destra americana vede nella difesa della destra israeliana un obiettivo politico importante, e oggi il Partito Repubblicano di Reagan e di Bush è tutto schierato a favore di Netanyahu.