I finti oppositori di Putin alle elezioni presidenziali russe
Sono tre e fanno parte della cosiddetta "opposizione sistemica”, usata dal regime per dare una parvenza di democraticità alla politica russa: si vota da venerdì a domenica
Fra venerdì e domenica si terranno in Russia le elezioni presidenziali. Non sarà però una vera competizione elettorale. Negli ultimi anni il regime di Vladimir Putin, che da un quarto di secolo domina la politica russa, ha incarcerato gli oppositori, li ha costretti all’esilio o li ha uccisi (come nel caso di Alexei Navalny). In molte occasioni li ha esclusi dalle liste elettorali, impedendo loro di candidarsi: è successo anche questa volta con l’esclusione di Yekaterina Duntsova e Boris Nadezhdin, nonostante negli ultimi mesi i due aspiranti candidati avessero espresso un dissenso piuttosto limitato nei confronti del regime.
Alle elezioni l’unica opposizione sarà quella cosiddetta “sistemica”, che esiste da anni nella politica russa: è formata da partiti che fanno opposizione di facciata, che vengono quindi usati dal regime per dare al sistema una parvenza di democraticità ma che di fatto su tutte le questioni più importanti votano insieme al partito di Putin, Russia Unita. Ci saranno tre candidati che fanno parte dell’“opposizione sistemica”: Nikolai Kharitonov, del Partito comunista, Leonid Slutsky, del Partito liberal-democratico, nazionalista di destra, e Vladislav Davankov, del partito Popolo nuovo, che si definisce liberale.
Pur non riconoscendo nessuna di queste opzioni come una reale alternativa, l’organizzazione che fa riferimento a Navalny (morto un mese fa in una prigione siberiana) e gli altri oppositori del regime hanno quasi sempre suggerito di votare «chiunque ma non Putin».
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Nessuno dei candidati dell’opposizione sistemica ha alcuna possibilità di vittoria, ma nemmeno di raggiungere percentuali di consenso alte. Il quarantenne Davankov è quello che i sondaggi indicano avere un sostegno maggiore, intorno al 5 per cento. Potrebbero finire a lui alcuni dei voti di chi si oppone alla guerra in Ucraina, per esempio, quelli che sarebbero potuti andare a Boris Nadezhdin se non fosse stato escluso dal Comitato elettorale russo per presunte irregolarità nella raccolta firme. Negli ultimi mesi, infatti, Nadezhdin aveva raccolto un discreto sostegno ed era riuscito a presentarsi quasi come un candidato credibile di opposizione.
Davankov per la verità non è mai stato altrettanto netto e chiaro nelle sue critiche alla guerra in Ucraina, ma è il sostenitore meno convinto della cosiddetta «operazione militare speciale», il modo in cui il regime russo definisce la guerra in Ucraina per non doverla chiamare «guerra». In modo molto diplomatico, e piuttosto ambiguo, Davankov ha detto di augurarsi che la guerra si possa concludere attraverso dei negoziati.
Vladislav Davankov è il più giovane dei candidati, è vicepresidente della Camera bassa del parlamento russo, la Duma, ed è un politico molto controverso. Il partito di cui è diventato leader, Popolo Nuovo, fu creato nel 2021 dall’imprenditore Alexei Nechayev, proprietario di un’azienda di cosmetici molto vicino a Putin. L’operazione venne descritta dai media russi di opposizione come il tentativo di creare un partito di opposizione “fasullo” per attirare i voti degli scontenti del regime più moderati e ridurre il bacino dei consensi nei confronti di Navalny.
Nel corso degli anni Popolo Nuovo e Davankov si sono mossi in modo contraddittorio. Nel 2022 inizialmente si opposero al riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Luhansk, i due territori dell’Ucraina orientale che si erano dichiarati indipendenti dall’Ucraina spinti da gruppi filorussi appoggiati dalla Russia. Poco dopo però cambiarono idea, e votarono a favore del riconoscimento.
In generale il partito ha sempre votato su tutte le questioni importanti insieme a Russia Unita, ma allo stesso tempo ha cercato di proporsi agli occhi degli elettori russi come una forza di rinnovamento sociale e di “normalizzazione” del paese. Oggi Davankov cerca di collocarsi su posizioni più liberali, criticando la «repressione del dissenso e la censura ideologica», auspicando una normalizzazione delle relazioni con l’Occidente e una maggiore libertà di stampa. Dice di voler includere nel suo programma molti dei temi proposti da Nadezhdin, ma al tempo stesso di non voler «criticare i suoi avversari», e quindi Putin. La sua posizione sulla guerra, senza mai menzionare l’Ucraina, è «a favore dei negoziati e della pace, ma ai nostri termini e senza indietreggiare».
Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea hanno imposto delle sanzioni a Davankov, perché considerato parte del regime responsabile dell’invasione dell’Ucraina. Secondo una parte dell’opposizione, che lo considera il “meno peggio” fra i candidati, la sua proposta politica è il massimo dell’opposizione che sia concessa oggi in Russia. Leonid Volkov, collaboratore di Alexei Navalny aggredito martedì in Lituania, aveva definito Davankov «uno dei criminali di guerra, né migliore né peggiore di Putin», ritenendo la sua candidatura fasulla e strumentale a convogliare e minimizzare gli effetti dell’opposizione alla guerra.
Gli altri due candidati sono però ancora più “interni” e funzionali al sistema politico russo. Nikolai Kharitonov è il candidato dei Comunisti, il secondo partito più votato in tutte le elezioni vinte da Putin, dal 2000 in poi. Ha 75 anni, quattro in più di Putin, e si candidò già nel 2004, prendendo il 14 per cento dei voti (Putin quasi il 72%).
È in parlamento dal 1994, è sotto sanzioni internazionali ed è sostenuto da Gennady Zyuganov, figura storica del partito, che negli anni ha espresso critiche a Putin per non essere abbastanza “sovietico”. Zyuganov aveva inizialmente invitato il partito Comunista a boicottare queste elezioni che non considerava democratiche, poi ci ha ripensato, almeno ufficialmente. Kharitonov ha detto all’agenzia di stampa TASS di non avere critiche da fare a Putin: sostiene la guerra in Ucraina ma ha proposte leggermente diverse da quelle del partito al potere riguardo alla politica interna.
Leonid Slutsky è invece l’erede politico del leader estremista e nazionalista di destra Vladimir Zhirinovsky, morto nel 2022. Zhirinovsky sosteneva posizioni molto autoritarie in politica interna e molto bellicose e imperialistiche in politica estera, minacciando guerre sia in Europa che in Asia, con impiego di bombe atomiche. Slutsky non arriva agli eccessi retorici del predecessore, di cui comunque sfrutta il consenso fra gli elettori più estremisti: la sua campagna è basata sullo slogan “Zhirinovsky vive”.
Slutsky è presidente della Duma e sulla guerra in Ucraina vorrebbe una «vittoria più veloce», utilizzando più mezzi e «più armi russe». Negli ultimi anni è finito al centro di vari scandali. Nel 2018 cinque giornaliste lo accusarono di molestie: l’accusa fu poi archiviata dalla giustizia russa. Un’inchiesta di Alexei Navalny raccontò invece come Slutsky possedesse una serie di auto di lusso incompatibili con i redditi dichiarati e come in nove mesi fra il 2017 e il 2018 con una sola di queste avesse preso oltre 800 multe.