La nuova vita di Aracataca, città natale di Gabriel García Márquez
SI trova nel nord della Colombia e negli ultimi anni ha sviluppato un’economia basata sempre di più sul turismo, grazie all'immagine di uno dei più grandi e amati scrittori del mondo
Aracataca è un comune di circa 35mila abitanti nel nord della Colombia. Fu fondata nel 1885 sulla riva del fiume Aracataca, che scende dalla vicina catena della Sierra Nevada de Santa Marta, ed è anche la città in cui il 6 marzo del 1927 nacque Gabriel García Márquez, premio Nobel per la letteratura nel 1982 morto nel 2014 a 87 anni a Città del Messico. Nel tempo, grazie al legame con uno dei più grandi e amati scrittori del mondo, Aracataca si è completamente trasformata, come racconta un recente articolo del New York Times, e ha sviluppato un’economia basata sempre di più sul turismo creando anche nuove opportunità per le persone del posto.
Ad Aracataca ci sono un po’ ovunque statue e murales di Gabriel García Márquez. A lui sono intitolate scuole e strade. Hotel, bar, discoteche e negozi di biciclette hanno tutti nelle loro insegne o al loro interno riferimenti allo scrittore. Le strade sono piene di banchetti che vendono qualsiasi tipo di merce, dai cappellini da baseball alle tazze da caffè con la sua immagine. E ci sono farfalle gialle un po’ ovunque, citazione del suo romanzo più famoso, Cent’anni di solitudine, pubblicato per la prima volta nel 1967, in cui uno dei personaggi, Remedios La Bella, ascende al cielo in un’esplosione di luce, circondato appunto da farfalle, e un altro ancora vive sempre circondato da farfalle gialle.
La casa in cui Gabriel García Márquez visse da bambino è stata trasformata in un museo dove si trovano i mobili originali, compresa la culla dove dormiva. E nella biblioteca, chiamata Biblioteca Pública Municipal Remedios La Bella, c’è una teca di vetro con i suoi libri tradotti in varie lingue. Poiché in molti chiamano Gabriel García Márquez con il suo soprannome, “Gabo”, i turisti hanno cominciato a chiamare Aracataca “Gabolandia”.
Dieci anni fa Aracataca aveva poco da offrire ai turisti e non faceva molto per promuovere il suo legame con García Márquez. C’erano solo un piccolo museo e una sala da biliardo che si faceva chiamare Macondo, dal nome della città immaginaria di Cent’anni di solitudine. Aracataca era insomma una cittadina povera, priva di molti servizi essenziali e in cui il tasso di disoccupazione era piuttosto elevato. Ma il suo legame con García Márquez e gli investimenti fatti dalle ultime amministrazioni locali l’hanno trasformata.
Dalla morte dello scrittore, avvenuta nel 2014, l’interesse per la città in cui era nato e che ha ispirato alcune delle sue opere più famose, è aumentato notevolmente attirando turisti da tutto il mondo.
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Il 7 marzo è uscito in una trentina di paesi, tra cui l’Italia, Ci vediamo in agosto, romanzo postumo di Gabriel García Márquez, e l’unica sua opera inedita pubblicata negli ultimi vent’anni (l’ultima era stata Memoria delle mie puttane tristi, nel 2004). Con questa pubblicazione il comune di Aracataca spera di riuscire ad attirare ancora più turisti, che nel 2023 sono stati circa 22mila.
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Il governo regionale ha ora intenzione di convertire la ferrovia che passa per Aracataca, attualmente utilizzata solo per il trasporto di carbone, adattandola al trasporto di persone, ed è in costruzione anche un grande albergo con piscina.
Negli anni l’aumento del turismo ha fornito maggiori opportunità di lavoro per le persone che vivono in città e che sono diventate ad esempio delle guide turistiche. Altri residenti hanno trasformato la loro casa in piccoli ostelli e altri ancora sono convinti che la fama di Aracataca possa migliorare la reputazione della Colombia, spesso raccontata solo per gli scontri tra narcotrafficanti, guerriglieri e paramilitari che avvengono in diverse parti del paese.
Quest’anno ad Aracataca le celebrazioni per il compleanno di Márquez, il 6 marzo, sono state ancora più sfarzose, partecipate e con molte più iniziative rispetto a quelle degli anni passati. Sono stati organizzati un concorso di racconti e di poesie e uno spettacolo di danza con le ballerine vestite da farfalle gialle; un bibliotecario travestito da Márquez ha letto a bambini e bambine dei brani tratti da Cent’anni di solitudine, e un gruppo teatrale ha messo in scena lo spettacolo tratto dal romanzo L’amore ai tempi del colera.
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Gabriel García Márquez nacque ad Aracataca domenica 6 marzo del 1927 alle nove del mattino, come disse lo scrittore stesso nelle sue memorie. Qui, dopo il trasferimento dei genitori, crebbe con i nonni materni fino all’età di otto anni, quando si spostò a Sucre, in Bolivia, per ricongiungersi con il padre e la madre, e poi visse in vari altri paesi del mondo, anche se trascorse il grosso della sua vita adulta in Messico. Anche se la sua permanenza ad Aracataca fu relativamente breve, la città divenne il modello per la città immaginaria di Macondo narrata in Cent’anni di solitudine. Nel 2006 ad Aracataca venne anche organizzato un referendum per ribattezzare “Aracataca-Macondo”, ma alla fine non passò per il mancato raggiungimento del quorum. L’ultima volta che lo scrittore venne ad Aracataca, dopo venticinque anni di assenza, era il 2007.
Nel suo libro di memorie Vivere per raccontarla, del 2002, Márquez dedica molto spazio ad Aracataca. Racconta come la città fosse «nata come un casale di indios chimila» e come «entrò nella storia col piede sinistro, come una remota parte senza Dio né legge del comune di Ciénaga, più degradato che rimpinguato dalla febbre del banano. Il suo nome non è quello di un paese ma quello di un fiume, che si dice ara in lingua chimila (…) Per questo fra noi del posto non diciamo Aracataca, ma com’è giusto: Cataca». Più avanti, raccontando della sua adolescenza e del suo viaggio ad Aracataca con la madre, Márquez la descrive così:
«La prima cosa che mi colpì fu il silenzio. Un silenzio materiale che avrei potuto identificare a occhi bendati fra gli altri silenzi del mondo. Il riverbero del caldo era così intenso che si vedeva tutto come attraverso un vetro deformante. Non c’era memoria della vita umana fin dove arrivava la mia vista, né nulla che non fosse ricoperto da una rugiada tenue di polvere ardente. Mia madre rimase ancora per qualche minuto sul sedile, a guardare il paese morto e disteso nelle strade deserte, e infine esclamò atterrita: “Dio mio!”.
Fu l’unica cosa che disse prima di scendere. Finché il treno rimase lì ebbi l’impressione che non fossimo del tutto soli. Ma quando partì, con un fischio istantaneo e lacerante, mia madre e io ci ritrovammo inermi sotto il sole infernale e tutta la tristezza del paese ci cascò addosso. Ma non dicemmo nulla. La vecchia stazione di legno, col tetto di zinco e un balcone coperto, era come una versione tropicale di quelle conosciute attraverso i film western. Attraversammo la stazione abbandonata le cui mattonelle cominciavano a spezzarsi tanto l’erba vi premeva contro, e ci immergemmo nel marasma della siesta, sempre cercando il riparo dei mandorli».