Franco Basaglia fu molto più di una legge
Cent’anni fa nacque lo psichiatra che più di tutti cambiò la percezione comune delle malattie mentali e il modo di trattare chi ne soffriva
La più radicale e importante riforma mai realizzata in Italia nell’ambito della psichiatria, quella che nel 1978 abolì i manicomi, porta il nome dello psichiatra italiano che la rese possibile: Franco Basaglia, nato a Venezia l’11 marzo 1924, cento anni fa. Ma a parte aver dato il nome a una legge epocale, Basaglia fu uno degli intellettuali italiani più conosciuti e rispettati nel mondo, associato a pensatori come Michel Foucault, Jean-Paul Sartre e Erving Goffman, e ispiratore di princìpi e pratiche rivoluzionarie nel contesto culturale, sociale e politico degli anni Sessanta e Settanta.
Sia l’attività clinica di Basaglia che quella politica e saggistica, da lui svolta insieme a sua moglie Franca Ongaro, favorirono non soltanto un ripensamento degli approcci dominanti alla cura delle malattie mentali nella psichiatria, ma anche un cambiamento profondo nel modo in cui le persone le consideravano e ne parlavano. Se è normale oggi pensare che nessuna cura delle malattie mentali sia compatibile con l’emarginazione della persona malata o con la privazione della sua libertà, della sua dignità e dei suoi diritti civili, è perché quei cambiamenti furono realizzati.
«Cambiamenti così profondi, ogni tanto è bene anche ricordarli e renderli strumenti per leggere il presente. Siamo in un momento particolare, in cui mi sembra si incominci a non dare più per scontati diritti che finora lo erano stati», ha detto in una recente intervista al Corriere del Veneto la psicologa Alberta Basaglia, figlia di Basaglia e Ongaro, e autrice insieme alla giornalista Giulietta Raccanelli del libro su Basaglia Le nuvole di Picasso.
La legge 180 entrata in vigore il 17 maggio 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, fu la prima al mondo a stabilire l’abolizione degli ospedali psichiatrici, strutture in cui le persone con disturbi mentali venivano rinchiuse contro la loro volontà e private dei loro diritti. Ma la sua approvazione fu il risultato di una lunga attività politica portata avanti per anni dal movimento Psichiatria Democratica, fondato da Basaglia nel 1973. Era formato da psichiatri e attivisti, tra cui la stessa Ongaro, che volevano cambiare il modo di considerare le malattie mentali.
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All’epoca, in Italia come in altri paesi del mondo, prevaleva nella psichiatria un approccio organicistico, secondo cui a ogni malattia corrispondeva una lesione anatomica o un’alterazione biochimica del cervello, o qualche altra patologia dell’organismo, appunto. La prassi in molti ospedali psichiatrici prevedeva terapie a base di elettroshock e insulina, contenzione meccanica dei pazienti difficili da controllare (cioè la pratica di legarli ai letti) e alienazione di tutti i malati da ogni relazione affettiva e sociale: un approccio che Basaglia contestò radicalmente.
Come scritto da Michele Zanetti e Francesco Parmegiani in una biografia pubblicata nel 2007, Basaglia fu da ragazzino un tipo taciturno e piuttosto scontroso. Dopo essersi trasferito a Padova per studiare medicina, nel 1943, conobbe un gruppo di giovani studenti antifascisti, oppositori della Repubblica Sociale Italiana. Per quelle frequentazioni fu arrestato e portato nella prigione di Santa Maria Maggiore di Venezia, dove rimase per quasi sei mesi: un’esperienza influente sulle sue successive riflessioni e sul suo impegno politico.
Nel 1949 si laureò in medicina e nel 1953 sposò Ongaro, con cui era fidanzato da sette anni e che sarebbe rimasta insieme a lui per tutta la vita. In quello stesso anno si specializzò nello studio delle malattie nervose e mentali alla clinica neuropsichiatrica di Padova. Era diretta dal professore Giovanni Battista Belloni, che lo chiamava «il filosofo» per via della sua passione per i libri di filosofia: «non proprio un complimento», fa notare lo psicologo e conduttore radiofonico Massimo Cirri.
Il primo importante incarico della sua carriera professionale Basaglia lo ottenne vincendo un concorso indetto nel 1961 dall’amministrazione provinciale di Gorizia per la direzione dell’ospedale psichiatrico della città. Era una struttura da 500 posti, in cui molti malati erano abitualmente legati ai letti e curati con l’elettroshock e con l’insulina, utilizzata per indurre un breve coma ipoglicemico. Sui presunti effetti di questo genere di terapie in uso all’epoca da decenni, Basaglia diceva – come raccontato dallo psichiatra italiano e suo collaboratore Tommaso Losavio – che era «come quando per sintonizzare una radio, invece di avere la pazienza di muovere lentamente la manopola della sintonia, le si dà un colpo secco: a volte la radio funziona, a volte si sfascia».
Dell’importanza di quella sua prima esperienza Basaglia avrebbe poi parlato nel corso di una serie di conferenze tenute in Brasile nel 1979, a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte, i cui testi sono pubblicati da Raffaello Cortina Editore nel libro Conferenze brasiliane.
Disse di aver osservato per la prima volta nel suo lavoro a Gorizia condizioni simili a quelle poi incontrate in tutti i manicomi: «un ospedale dominato in primo luogo dalla miseria». Decise con altri medici – persone che sarebbero poi andate a dirigere altre istituzioni psichiatriche – di «aprire» i padiglioni dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, tra il 1963 e il 1964, rifiutando la pratica abituale delle contenzioni e dell’internamento. E non accadde niente di ciò che alcuni temevano: gli internati chiedevano «cose molto giuste», perlopiù libertà di uscire, tempo libero, cibo migliore e possibilità di relazioni tra uomini e donne.
Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla povertà dell’internato, questi cambiava posizione totalmente, diventava non più un folle ma un uomo con il quale potevamo entrare in relazione. Avevamo già capito che un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno.
Alcuni resoconti delle riunioni tra medici, infermieri e pazienti nell’ospedale di Gorizia furono pubblicati in due libri di Basaglia e Ongaro che ebbero molto successo: Che cos’è la psichiatria nel 1967 e L’istituzione negata nel 1968, entrambi recentemente ripubblicati da Baldini+Castoldi. In quegli anni i cambiamenti proposti da Basaglia alla psichiatria furono raccontati anche in un documentario televisivo, I giardini di Abele, realizzato da Sergio Zavoli nel 1968 e trasmesso per la prima volta nel 1969.
Basaglia non negava che il malato di mente potesse essere pericoloso: «può esserlo come può non esserlo», disse nel documentario di Zavoli. Sosteneva però che la pericolosità non dipendesse soltanto dalla malattia, ma da molteplici fattori, anche sociali, e che dovesse essere gestita a partire da questa premessa. «Una persona che disturba, malata o meno che sia, finisce o in manicomio o in carcere», disse suggerendo un’analogia ripresa più volte in altre occasioni.
Per decenni moltissime persone che non soffrivano di malattie mentali erano state rinchiuse nei manicomi perché ritenute “devianti”. Tra queste c’erano omosessuali, prostitute, alcolisti, persone con disabilità, bambini orfani. C’erano anche molte donne considerate inadatte al ruolo di moglie e madre richiesto dalla società dell’epoca, il cui internamento era giustificato sulla base delle leggi esistenti sul «pubblico scandalo»: donne considerate “ninfomani”, “indemoniate” o “malinconiche” (cioè probabilmente affette da depressione clinica). I ricoveri avvenivano in modo coatto, su richiesta di chiunque segnalasse la presunta pericolosità della persona in questione, e potevano diventare definitivi dopo un primo periodo di internamento provvisorio.
In una delle conferenze brasiliane Basaglia disse, a proposito del suo arrivo all’ospedale psichiatrico di Gorizia, di aver avuto «la certezza che quella era un’istituzione completamente assurda», il cui unico scopo era permettere agli psichiatri che ci lavoravano «di avere lo stipendio a fine mese».
A questa logica assurda, infame del manicomio noi abbiamo detto no. Dopo, abbiamo capito che l’internamento dei “folli poveri” era una conseguenza del fatto che queste persone non erano produttive in una società basata sulla produttività, e se restavano malate era per la stessa ragione, perché erano improduttive, inutili per una organizzazione sociale come questa. Anche una malattia organica, se non è curabile, rapidamente diventa cronica, e cronicità significa che la persona è improduttiva. Detto altrimenti, tutto ciò che non produce è malato, non va.
Per suscitare un cambiamento nella percezione comune degli ospedali psichiatrici Basaglia considerò indispensabile, a parte i libri, fornire prima di tutto una documentazione fotografica di quanto accadeva normalmente in quelle strutture. Lavorò con due affermati fotografi italiani, Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, affinché documentassero le condizioni dei malati e dei manicomi italiani che li ospitavano. Le fotografie furono pubblicate da Einaudi nel 1969 nel libro Morire di classe, recentemente ripubblicato dall’editore Il Saggiatore, che conteneva anche testi selezionati da Basaglia e tratti da libri di filosofi, scrittori e drammaturghi tra cui Primo Levi, Rainer Maria Rilke e Peter Weiss, oltre a Foucault e Goffman.
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Dopo l’ospedale psichiatrico di Gorizia, Basaglia passò nel 1969 a dirigere quello di Colorno, in provincia di Parma, che un anno prima era stato occupato da un gruppo di studenti che chiedevano una riforma dei manicomi. E alla fine del 1971 si trasferì a Trieste, il cui ospedale psichiatrico fu poi scelto nel 1973 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per sperimentare nuove forme di cura per le persone con problemi di salute mentale. Nel corso degli anni le idee di Basaglia erano state progressivamente accolte e sostenute da una parte dall’opinione pubblica, ma anche contestate dalle amministrazioni locali che si opponevano all’idea di distribuire l’assistenza psichiatrica sul territorio e desideravano mantenerla concentrata nei manicomi, in modo da isolare i malati.
Come raccontato dal giornalista Oreste Pivetta nella biografia Franco Basaglia, il dottore dei matti, anche la stampa conservatrice aveva attaccato duramente Basaglia e alcuni suoi assistenti. Lo aveva fatto in particolare dopo due fatti di cronaca avvenuti mentre lui era direttore dell’ospedale psichiatrico prima a Gorizia e poi a Trieste, e per cui aveva subito due processi, uscendone assolto in entrambi i casi. Il 26 settembre 1968 un paziente di quello di Gorizia, Alberto Miklus, aveva ucciso la propria moglie usufruendo di un permesso. Il 10 giugno 1972 un paziente dimesso in prova dall’ospedale psichiatrico di Trieste, Giordano Savarin, aveva ucciso i propri genitori.
I metodi promossi da Basaglia, nonostante alcune campagne mediatiche condotte contro di lui, determinarono un evidente miglioramento delle condizioni dei malati e degli operatori sanitari. Oltre all’eliminazione della contenzione fisica e delle terapie con elettroshock e insulina, prevedevano tra le altre cose la libera circolazione dei pazienti nelle strutture, visite all’esterno con accompagnatori e accompagnatrici, l’eliminazione delle reti protettive e l’organizzazione di assemblee di gruppo e di varie attività ricreative e lavorative.
A Trieste nel 1973 Basaglia fondò una cooperativa – la Cooperativa lavoratori uniti – con altri professionisti dell’ospedale psichiatrico e 16 pazienti malati, addetti alla pulizia dei locali, delle cucine e del parco. Ma fu possibile soltanto dopo una lunga serie di passaggi burocratici necessari per attribuire ai malati lo status giuridico di «ricoverati volontari», l’unico che all’epoca permettesse loro di esercitare diritti che altrimenti non avrebbero avuto.
Sulla base della legge 36 del 1904, che aveva istituito i manicomi, i malati non avevano infatti diritti civili né politici: non potevano, tra le altre cose, votare, sposarsi, fare testamento. Ma una legge proposta dal ministro della Sanità socialista Luigi Mariotti e approvata nel 1968 (la legge 132) aveva, tra le altre cose, fissato un massimo di 500 posti letto per i manicomi e introdotto il ricovero volontario, che prevedeva il mantenimento dei diritti e della capacità giuridica: inclusa la possibilità di fondare una cooperativa.
I padiglioni dell’ospedale psichiatrico, che in precedenza avevano ospitato i pazienti internati, si trasformarono in luoghi culturali frequentati da artisti e musicisti illustri, tra i quali Ornette Coleman, Giorgio Gaslini, Dario Fo e Franco Battiato.
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La questione dei manicomi fu oggetto di un esteso dibattito favorito, tra le altre cose, anche dal documentario Matti da slegare, girato da Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, che vinse il Gran premio della giuria al festival del cinema di Berlino nel 1976. L’anno successivo uscì il libro fotografico Tu interni… io libero, del regista e fotografo bresciano Gian Butturini. Basaglia lo aveva conosciuto negli anni Settanta e gli aveva chiesto di documentare i successi del suo approccio alla cura dei malati nell’ospedale psichiatrico di Trieste: nelle foto i pazienti giocano in gruppo, ballano e ascoltano musica, oppure vengono abbracciati dagli operatori.
Sotto la guida di Basaglia i ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Trieste passarono in poco più di tre anni da circa 1.200 a meno di 850. Nel 1979, quando lasciò Trieste per trasferirsi a Roma e assumere l’incarico di coordinatore dei servizi di salute mentale del Lazio, erano rimasti nell’ospedale soltanto 130 ricoverati.
Basaglia morì il 29 agosto 1980, a Venezia, a causa di un tumore al cervello scoperto pochi mesi prima.
La legge che porta il suo nome, promossa dal deputato e psichiatra Bruno Orsini e approvata due anni prima, aveva abrogato gli articoli principali della legge del 1904 e regolamentato il trattamento sanitario delle malattie mentali, stabilendo che rientrasse nel diritto alla salute di ogni cittadino e cittadina. Aveva ordinato che i manicomi non potessero più accogliere nuovi pazienti, ordinandone di fatto la chiusura (nel 1978 in Italia ce n’erano 98, che ospitavano più di 89mila persone) e demandando agli enti locali l’organizzazione sul territorio di servizi e strutture alternative per l’assistenza sanitaria.