L’unico teatro costruito in un carcere italiano
Nel cortile del carcere Marassi di Genova c'è il Teatro dell'Arca, un posto eccezionale secondo i detenuti e secondo chi lo gestisce
di Alessandra Pellegrini De Luca
Sul palco di un teatro genovese un attore interpreta un operaio. Ha i capelli rasati, una tuta grigia e si muove con decisione puntando il dito contro i suoi colleghi. La fabbrica dove lavorano è stata appena venduta a una multinazionale, la cui dirigenza vuole ridurre la pausa di sette minuti in cambio del rinnovo del contratto: gli altri vogliono accettare, lui deve convincerli a lottare per avere sia il rinnovo che la pausa intera. Lo spettacolo consiste in un acceso dibattito di gruppo, in cui alla fine l’operaio riuscirà a convincere i colleghi.
L’attore è Veli Muca, un detenuto albanese di 38 anni, e il palco è quello del Teatro dell’Arca, all’interno del carcere Marassi: secondo la direttrice del carcere Tullia Ardito in Europa non ci sono altri esempi di teatri interamente costruiti dentro un carcere, sicuramente è l’unico in Italia. Lo spettacolo, Sette minuti, debutterà il prossimo maggio al Teatro Ivo Chiesa, uno dei principali teatri di Genova. Il Teatro Ivo Chiesa è fuori dal carcere, in centro, e per poterci recitare i detenuti dovranno uscire accompagnati da operatori e polizia penitenziaria. L’ispettrice Patrizia Smiraldi definisce l’operazione «un tour de force che vale davvero la pena di fare».
Il Teatro dell’Arca si trova in un cortile dell’intercinta del carcere, cioè lo spazio che separa le aree detentive dal muro di cinta. Per entrarci bisogna costeggiare mura molto alte piene di finestre con le sbarre: alcune hanno calzini e magliette appese ad asciugare. I corridoi sono silenziosi. Una volta entrati in teatro, l’ambiente cambia completamente: ci sono palco, riflettori, sipario, quinte, corde e macchine del fumo, un camerino coi costumi appesi e un lungo specchio attorniato da lampadine. Appese ai muri, a circondare i 200 posti in platea, ci sono le locandine di decine di spettacoli, tutti recitati da detenuti (il Marassi è un carcere maschile).
Essendo aperto al pubblico, il teatro ha due ingressi: uno per i detenuti che dà sul backstage e un altro, per le persone libere, che porta alla platea. Nel Teatro dell’Arca detenuti e liberi si incontrano solo così, attraverso il palco, senza mischiarsi mai. Anche i detenuti possono diventare pubblico, ma in quel caso a recitare sul palco è una compagnia teatrale esterna.
Chi frequenta questo posto lo descrive come eccezionale, con punti di vista diversi: «un fiore all’occhiello», dice la direttrice del carcere Marassi Tullia Ardito; «qualcosa di cui le istituzioni si vantano», dice un detenuto; «un posto di cui si accorgono tutti quando ci sono gli spettacoli nel teatro in centro», dice uno dei collaboratori di Teatro Necessario, l’associazione che lo gestisce. A rendere il Teatro dell’Arca eccezionale è anche il tipo di carcere in cui è stato costruito. Il Marassi non è particolarmente ben messo o virtuoso: come la maggior parte delle carceri italiane è sovraffollato, con quasi 700 detenuti per una capienza di circa 500. Ha avuto diversi problemi, episodi di violenza e negli ultimi mesi ci sono stati l’omicidio di un detenuto e il suicidio di un altro.
Nonostante questo, nel 2016 il teatro venne inaugurato anche grazie all’attività di una rete di operatori e operatrici di Teatro Necessario e all’appoggio della dirigenza del carcere. L’edificio fu costruito da una ventina di detenuti formati con tre anni di borsa lavoro in mestieri tecnici, come falegnameria e illuminotecnica. Uno di loro, Luca Di Naro, che ha scontato la pena, oggi fa il tecnico delle luci ai concerti e collabora con musicisti molto noti, tra cui Vasco Rossi e i Negramaro. Il progetto per costruirlo fu regalato a Teatro Necessario dall’architetto Vittorio Grattarola, peraltro tra gli autori dei testi di Maurizio Crozza. Il progetto fu poi sviluppato dall’associazione Fuoriscena, che seguì tutti i lavori interni. I fondi arrivarono da un bando europeo, da raccolte fondi e da finanziamenti di due fondazioni bancarie, la Fondazione Compagnia di San Paolo e la Banca Carige.
«È stata una follia costruire un teatro in carcere», dice Mirella Cannata, presidente di Teatro Necessario. Durante la costruzione sono stati necessari sopralluoghi, verifiche e autorizzazioni da parte di persone esterne, che ogni volta hanno dovuto passare tutta la trafila burocratica per entrare in carcere. «Una volta per portar su un ago da cucito ci son voluti 20 giorni per l’autorizzazione», racconta Alessia Bordo, che nell’Alta sicurezza del Marassi gestisce una serigrafia per conto della cooperativa “La bottega solidale” (l’Alta sicurezza è il reparto in cui sono recluse persone arrestate per reati associativi, come mafia e traffico di sostanze stupefacenti).
Costruire un teatro ha significato anche portare all’interno del carcere strumenti che potevano essere facilmente usati per evadere: come le scale per montare il graticcio, la struttura a travi di legno sopra il palco che serve per installare e muovere scenografia e macchine di scena. Il graticcio è un dettaglio del Teatro dell’Arca che mostrano in molti, perché è quello che fa la differenza tra un teatro ricavato da uno spazio già esistente, come nel caso di altri teatri in carcere italiani, e uno costruito da zero, come in questo caso.
L’idea di costruire il teatro fu di Sandro Baldacci, attore e regista teatrale morto a novembre del 2023. Lino Mazzarella, detenuto da dodici anni e tra quelli che costruirono fisicamente il teatro, lo ricorda come un «maestro». Baldacci lavorava da anni coi detenuti, insieme a Cannata e a Carlo Imparato, gli altri due fondatori del teatro. Facevano i laboratori teatrali dove potevano, in stanze o spazi allestiti lì per lì. Costruire un teatro vero è stato possibile anche grazie al rapporto di fiducia col direttore del carcere di allora, Salvatore Mazzeo, che cedette all’associazione un cortile inutilizzato dell’intercinta, a patto che trovassero autonomamente i fondi per farlo.
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Al Marassi i detenuti che vogliono partecipare alle attività teatrali devono avere alcuni requisiti, attitudinali e soprattutto giuridici, perché devono poter lavorare all’esterno. Una volta selezionati, fanno tre prove a settimana di circa tre ore, con uno spettacolo ogni 15 giorni. Alcuni di loro raccontano di continuare a provare i copioni anche in cella, per migliorare la performance o per esercitarsi con l’italiano (diversi di loro sono stranieri).
Per alcuni il teatro è diventato una specie di mestiere. È il caso di Lino Mazzarella, che dice di aver cominciato per passare il tempo, perché il carcere era «il vuoto», e di aver poi sviluppato una passione: oggi si occupa di scenografia e di tantissime altre cose, e chi frequenta il teatro racconta che è sempre lì. Un altro detenuto dice di fare teatro perché «è un momento molto brutto della mia vita»: è detenuto da sei mesi, i suoi familiari sono divisi tra la Calabria e la Germania, a Genova è solo e le prove di teatro gli permettono di lavorare in gruppo, avere delle relazioni.
Un altro detenuto dice di fare teatro per dimostrare buona condotta e ottenere permessi. Uno dice che «se inizi una cosa la devi portare fino in fondo», e per lui vale anche col teatro. Un altro ancora sta cercando di far rinviare un’udienza prevista nel giorno di una replica dello spettacolo: verranno a vederlo sua moglie e le sue due figlie e ci tiene a poter recitare quel giorno.
Sette minuti, diretto dal regista teatrale Matteo Alfonso, è tratto da un testo dello scrittore Stefano Massini. Fu adattato al teatro in carcere proprio da Baldacci. Generalmente, sia per gli spettacoli da recitare che per quelli a cui assistere, ai detenuti vengono proposti temi «che abbiano senso qui dentro», dice Cannata riferendosi al carcere: giustizia, diritti, violenza sulle donne, incontri tra culture diverse. Soprattutto quando i detenuti assistono agli spettacoli è sempre previsto un momento di discussione.
Parlando di Sette minuti Christian Parraga, un detenuto ecuadoriano di 42 anni, dice di riuscire a immedesimarsi facilmente nell’operaio che interpreta. Prima di essere arrestato lavorava in una fabbrica di Milano in cui i turni erano massacranti: «I miei colleghi più anziani scioperarono, io no. Ero straniero, ero appena arrivato e pensavo che l’importante era tenersi il lavoro, anche se le condizioni erano pessime». Dopo qualche anno però Parraga non ce la fece più e lasciò quel lavoro, senza riuscire a trovarne un altro: «Piano piano le cose hanno preso una piega che mi ha portato qui».
La maggior parte dei detenuti che recitano al Teatro dell’Arca è stata arrestata per reati comuni e ha pene brevi, ma questo rende le attività un po’ frammentate, perché capita che i detenuti vengano scarcerati dopo poco tempo o che vengano assegnati loro i domiciliari mentre sono in corso le prove. A quelle di Sette minuti, per esempio, il regista Matteo Alfonso sta sostituendo un detenuto appena scarcerato.
Ardito, la direttrice del Marassi, dice che questo tipo di attività è «necessario» e che realizzarle all’interno delle carceri «non è una scelta ma un dovere». Eppure, come in tanti altri casi, il grosso di queste attività si sostengono economicamente grazie ad associazioni, cooperative e volontari. Il ministero della Giustizia stanzia alcuni fondi alle attività chiamate “trattamentali” (come lavoro, studio e altre destinate al reinserimento sociale), ma la maggior parte degli interventi è sostenuta dal terzo settore: il Teatro dell’Arca fa parte della rete di “Per aspera ad astra”, un progetto per la cultura in carcere sostenuto da undici fondazioni bancarie, nato nel 2018 e attivo in 15 carceri.
Alle prove e a ogni spettacolo devono essere presenti da due a quattro agenti di polizia penitenziaria, per ragioni di sorveglianza e sicurezza: «Abbiamo anche qui gravi carenze di personale penitenziario, e ogni volta che i detenuti escono per recitare in teatro è molto complicato trovare le risorse necessarie per permetterlo», dice Ardito.
L’ispettrice Smiraldi racconta di partecipare regolarmente alle attività del teatro facendo gli straordinari, e che anche per questo definisce il tour dello spettacolo «un tour de force». Smiraldi lavora al Marassi dal 2008 e dice di tenere molto alle attività teatrali, perché «avere cultura qui dentro fa bene anche a noi, oltre che ai detenuti: ti permette di lavorare in un posto altrimenti molto pesante con una prospettiva diversa».
Chi vuole vedere uno spettacolo al Teatro dell’Arca deve registrarsi in anticipo, inviare una scansione del proprio documento e una volta lì passare una serie di controlli di sicurezza. Mirella Cannata, la presidente di Teatro Necessario, dice che spesso gli spettacoli fanno il tutto esaurito. Al mattino a vedere gli spettacoli o le prove vanno anche le scuole, e spesso vengono organizzati incontri tra detenuti e studenti. Tempo fa, dopo un incontro, una studentessa di un liceo classico ligure inviò ai detenuti una lettera in cui scriveva: «Sono quattro giorni che penso alla risposta che avrei voluto darvi venerdì, quando avete chiesto il perché noi fossimo lì, e la verità è che io ero lì perché mi piace il teatro, e voi siete attori, no?».